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Autore: MaxT    08/12/2008    11 recensioni
Questo non è un addio, Padre. Non può essere questo, il rivederci per cui ho vissuto questi anni. Io non sono una Guerriera perfetta, sono solo ai miei primi passi. Proseguirò, diventerò come Tu mi hai sognata. Dedicherò la vita a questo, e Tu, dall’alto, sarai orgoglioso di me, finché un giorno ci incontreremo per sempre, da pari, nel Paradiso dei Giusti.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Orube
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La figlia del guerriero  
 
 
Premessa
Questo racconto è stato scritto per partecipare alla quarta disfida dei Criticoni. 
In fondo ho inserito tutte le note che potrebbero essere utili ad un giudice di gara, come pure a qualunque lettore desideri approfondire la genesi di questa fiction.
Buona lettura
                    MaxT
Personaggi:
Orube (protagonista, a dieci anni)
Atura (madre)
Hoclotos (padre)
Entikos (fratello maggiore)
Ipitlos (fratello minore)
Iliore (sorellina piccola)
Matsukis (guerriero)
Luba (istruttrice guerriera)

La figlia del guerriero




Chi vedesse Ashasvir per la prima volta non capirebbe perché è considerata una città. Ciò che potrebbe descrivere, piuttosto, sarebbe una campagna ondulata, punteggiata di edifici sparsi: casupole di contadini, quelle più vicine ai campi coltivati; case signorili, quelle vaste e cinte da muri.
Altri edifici, più raggruppati, gli sarebbero difficili da interpretare: le piramidi di pietra che si profilano in distanza potrebbero sembrare templi, e quei complessi vasti, circondati da mura, gli ricorderebbero caserme, o collegi. Certo non penserebbe a definirli Giardini.

Una bambina di dieci anni ha appena lasciato uno di questi luoghi, salutando il portiere con un inchino marziale, e si è incamminata a piedi scalzi attraverso i prati, dove piccole greggi di pecore stanno brucando.
La fascia arancione in vita, come pure i simboli e le orlature del suo kimono, la identificano come un’Allieva Guerriera del Giardino dei Due Soli.
Due Soli radiosi, proprio come quelli che illuminano questo mondo chiamato Basiliade.

Anche oggi sarebbe una splendida giornata, pensa triste Orube. Come ieri. Deve significare qualcosa, se mio padre è morto in un giorno così. Ma cosa?

Risale il dolce pendio, assorta nei suoi pensieri. I suoi sensi acutissimi  possono percepire ogni dettaglio del panorama nitido, ogni odore, ogni fruscio dei fiori, dell’erba e dei mille esseri, grandi o invisibili, che condividono con lei questo luogo che sembra di pace.
Giunta alla sommità dell’altura, vede una villa signorile ad un piano, dalla leggera ed elegante struttura di legno e con diafane finestre chiuse da riquadri di carta oleata. Eccola laggiù, la casa della sua infanzia. Sono tre anni che vi manca.
Mille ricordi la assalgono mentre scende piano il pendio, salutata con deferenza da due pastori che ricambia con cortese condiscendenza, come suo dovere.

Lei smise di essere considerata una bambina a sette anni d’età, quando dovette lasciare la famiglia ed entrare nel Giardino dei Due Soli per essere istruita, come si conviene ad una figlia e discendente di Guerrieri.
Si vergogna ancora a pensare come reagì quel giorno davanti agli inviati venuti a prenderla: si nascose piangente dietro sua madre Atura, fece piangere anche il fratellino Ipitlos, che si afferrò a lei,  e la sorellina Iliore, che ancora gattonava . Osò perfino aggrapparsi, supplicante, alla veste di suo padre Hoclotos.
Lui la squadrò con occhi lampeggianti di sdegno.
Ricorda le sue parole, una per una: ‘Figlia, non farmi vergognare! Sei nata per essere una Guerriera. Non mi aspetto di meno, da te. Ora vai, fai il tuo dovere, e non tornare finché non sarai una perfetta Guerriera, forte e dura come l’acciaio della mia spada’.
Stordita da queste parole severe, la piccola seguì i due inviati fino al Giardino.
Deve essere passata per forza sotto all’alta colonna di pietra che reggeva due soli di oro lucente, ma non ne ha più memoria. Forse non la vide neppure, gli occhi bassi a terra, chiusa nei suoi pensieri.
A malapena ricorda, ora, di aver passato i grandi portoni laccati che si aprirono davanti a loro, o la sua prima vista dei viali del cortile affiancati da cipressi. Ricorda, questo sì, quando entrò nella costruzione bassa del dormitorio, una delle tante che contornavano un complesso centrale di edifici simili a palestre. Ricorda che, da dentro questi, risuonavano ordini urlati e un cozzo di spade di legno.
La condussero ad una brandina in una grande camerata, dove restò apatica e quasi immobile, piangendo dentro di sé la fine della sua infanzia, della tenerezza di sua madre, dei giochi con il  suo fratellino.
Eppure, le frasi con le quali il padre la congedò stavano già scavando qualcosa nella sua anima, e, in quelle prime ore di solitudine e disperazione, presero il posto degli altri pensieri.
La mattina seguente, alla sveglia,  balzò in piedi immediatamente con le altre Allieve, senza più esitazione. Si impegnò a fondo in ogni cosa, ripetendosi le parole di suo Padre ogni volta che qualche ricordo della sua vita di prima le sfiorava la mente.
Sopportò senza un lamento l’addestramento alle privazioni: cibo, riposo, acqua, ogni forma di affetto o di minima comodità. All’inizio doveva stringere i denti, poi neanche questo servì più, e infine nessuno dei suoi muscoli, dei suoi sguardi, delle sue posture lasciò  più trasparire alcunché potesse essere interpretato come un segno di sofferenza.
Nei momenti più difficili, Orube si ripeté le parole che aveva fatto sue: ‘Una perfetta Guerriera, forte e dura come l’acciaio della mia spada’.
Dopo l’addestramento di resistenza alle privazioni, iniziò la vera istruzione: esercizi fisici e mentali, l’uso delle armi  e l’interiorizzazione del Codice d’Onore dei Guerrieri, che, attraverso mille letture, mille esercizi, mille prove si instillò in ogni suo pensiero ed ogni sua azione.

Camminando immersa nei ricordi, Orube è ormai arrivata quasi al portone della casa della sua infanzia. Si ferma un attimo a guardarla, il bel tetto a pagoda di legno dipinto di rosso scuro e rosa salmone, i muri di cinta intonacati di bianco.
Però tutto appare più piccolo di una volta. Non le sembra più il vasto castello che ricordava.
Lei è cresciuta, in tre anni. La sua prospettiva è cambiata.

Si accorge dei due occhi che la guardano attraverso lo spioncino del portone. Sente il suo cuore accelerare i battiti quando riconosce lo sguardo di sua madre, Atura.
Infatti, eccola lì che appare, quando il battente laccato di rosso scuro viene aperto da un servo.
“Orube! Cara!”.
“Madre!”. Cosa dovrebbe fare per essere una brava figlia, e al tempo stesso una perfetta Guerriera? Nessuno glielo ha mai insegnato. Si avvicina, cercando di trattenere la sua emozione, e si genuflette ai piedi di Atura.
“Ma cosa fai, figlia mia?”. La prende per una mano e se la porta al cuore. “Tre anni che non ci vediamo, e sei capace solo di inginocchiarti, come davanti ad un Anziano?”.
Orube le stringe le mani, un po’ rigida. Dentro di sé, sente come un fuoco che dal centro del petto si propaga in tutti i visceri e non lascia posto per il suo respiro.
Prima che possa trovare delle parole per rispondere, un bambino si affianca alla madre.
Ipitlos!
Il suo fratellino minore grida: “Orube!”, e le viene incontro abbracciandola, con gli occhi lucidi.
Mentre gli appoggia la guancia sul capo, lei sente il bruciore estendesi ai suoi occhi; la gola, ribelle, le rende ancora più difficile prendere fiato.
‘Una perfetta Guerriera, forte e dura come l’acciaio della mia spada’, si ripete automaticamente, e il momento di debolezza finisce.
Guarda il fratellino con contegno. “Ipitlos, stai diventando un ometto. Tra qualche mese, anche tu seguirai le nostre tracce”.
Il bambino la guarda sconcertato, come se non la riconoscesse.
Orube avverte d’improvviso una sensazione di dejà vu: in passato ha vissuto una scena molto simile, ma da tutt’altro punto di vista.

Era un bel giorno terso, come oggi, ma più di tre anni fa. Aspettavano il ritorno a casa di suo fratello maggiore Entikos, dopo tre anni dalla partenza per il Giardino del Drago Lucente.
Orube aveva sofferto molto per la partenza del suo fratellone, il suo primo e più rimpianto compagno di giochi. Lo ricordava un po’ grassoccio, e immensamente affettuoso. Da piccola lo chiamava ‘mobbido’, e lui ne rideva. La mamma veniva vicino a suggerirle che la parola giusta era ‘tenero’, o ‘affettuoso’, ma lei continuava imperterrita a chiamarlo così.
Quel giorno, Orube andò ad aspettare il ritorno di Entikos fremendo d’impazienza sul portone, accanto a sua mamma.
Quando il servo aprì, però, lei si ritrovò davanti ad una persona quasi sconosciuta.
Nel kimono inamidato e impreziosito da insegne c’era un piccolo adulto che non aveva più traccia dell’antica pinguedine, né, soprattutto, dell’antica dolcezza. Si presentò con un profondo inchino alla madre, e parlò con formale deferenza, come a gente rispettata ma appena conosciuta.
Dopo poche occhiate, Orube fu sgomenta di scoprire che il fratellone ‘mobbido’ con cui aveva diviso la sua prima infanzia non c’era più.
Sopportò quella giornata senza riuscire a nascondere la sua delusione, rimuginando che un luogo che trasformava un bambino affettuoso in uno sconosciuto gelido non poteva essere buono.
Ora, negli occhi del piccolo Ipitlos, Orube riconosce lo stesso suo sconcerto di tre anni prima, e forse ora sa anche cosa provava Entikos.

Una bambina sui quattro anni viene vicino alla mamma. Il viso è arrossato ed i movimenti sono lenti e stanchi, come quelli di chi ha pianto molto.
Orube cerca di ricordare se, a quattro anni, lei conoscesse già il significato della parola ‘morte’.
Le chiede: “E tu, sei Iliore?”.
La bambina annuisce, un po’ disorientata, accostando il visino al vestito della mamma per cercare protezione e calore.
“Iliore, quando me ne sono andata, tu avevi appena iniziato a muovere i primi passi”.
Atura sorride, accarezzando la testa alla piccola. “Ipitlos le è stato un ottimo compagno di giochi, come tu lo sei stata per lui”.
Il bambino si acciglia. “Parli già al passato anche di me, mamma? Mancano ancora tre mesi a quando dovrò partire!”.
Atura gli sfiora il viso. “Siamo qui per commemorare il passato, tesoro”. Fa un gesto di invito a Orube: “Cara, non stiamo sul portone”.
L’Allieva Guerriera entra, guardando il cortile ordinato, le siepi fiorite, i cipressi e gli alberi di pesco. Non nota grossi cambiamenti, solo le sembra che tutto sia un po’ più ristretto di come lo ricordava.

Quando torna a guardare verso il portico che circonda l’abitazione, vede anche lui. Entikos!
Suo fratello maggiore, con le insegne del Giardino del Drago Lucente, esce dall’ombra e la attende marziale all’ingresso. “Orube!”.
“Entikos!”. Si avvicina, guarda ammirata i distintivi, la fascia marrone attorno alla vita, il fisico forte e marziale. Quando incontrò il nuovo Entikos, tre anni prima, le sembrò un alieno, ma ora si vergogna di quel suo giudizio infantile. ‘Forte e duro come l’acciaio della mia spada…’
“Fratello… quasi assomigli a Lui!”, dice, con un profondo inchino.
Anche lui ricambia l’inchino, anche se un po’ meno profondamente. “Nostro Padre era un Guerriero glorioso, e il mio più profondo desiderio è di esserne all’altezza, da grande. Ma ora ho solo tredici anni”.
Orube si è già pentita delle sue parole non meditate. “Scusami. Ho parlato senza intenzione di adularti o di sottovalutarLo”.
“Lo so”, annuisce Entikos. “Vieni dentro, nostro Padre è qui”. Poi indica in distanza. “Tra poco, Lo porteranno al Colle degli Eroi”.
Orube segue l’indicazione, socchiudendo le palpebre per poter guardare controluce. Alla sommità di una rupe, stagliati contro il cielo azzurro, distingue alcuni minuscoli puntini che lei immagina essere pire funebri. Le conta. “Sei… sette? Ma cosa è successo?”.
Atura le fa un cenno verso l’ingresso della casa. “Abbiamo un ospite al quale voglio presentarti, e che potrà risponderti meglio di noi”.

Orube varca l’ingresso con il cuore in gola, riconoscendo l’odore della morte tra i fumi dell’incenso e delle erbe.
Al centro del soggiorno, su una tavola coperta dai lenzuoli più belli, c’è Lui.
Fatti forza, Orube! Dura e forte come l’acciaio della mia spada, si ripete.
Si avvicina, cercando di soffocare l’emozione.
Il corpo è pallido, esangue, ma sembra intatto. L’espressione del viso non è più severa. Non come quando la guardò quell’ultima volta.

Padre, Ti ho dedicato ogni giorno, ogni pensiero di questi lunghi anni. Tutto quello che sto facendo è per Te. E la Tua promessa di rivederci? Come hai potuto lasciarmi prima che potessi completare ciò che Tu stesso mi hai imposto?

Una pacata voce d’uomo la distoglie dai suoi pensieri. “Orube, ho sentito la tua domanda. Posso risponderti io, perché ero presente”.
Lei si volta sorpresa.  In un angolo della stanza c’è, in piedi, un Guerriero sui trent’anni, con una lunga medicazione sul viso e sul braccio sinistro, le insegne bianche del lutto e uno sguardo di dignitosa sofferenza.
Lei si inchina con rispetto. “Perdonatemi, sono entrata senza vedervi”.
L’uomo ricambia con cortesia condiscendente.
La madre si affretta a presentarli. “Valoroso Matsukis, questa è mia figlia Orube. Cara, Matsukis faceva parte del gruppo di dieci Guerrieri comandato da tuo padre”.
“Onorata”. La ragazza rinnova il suo profondo inchino.
Matsukis riprende: “Tuo padre Hoclotos si è comportato con grande valore anche nella morte, come nella vita. Io sono onoratissimo di averlo avuto come mio Comandante. Mancherà a tutti noi. Ma oggi Hoclotos entrerà nel Paradiso dei Giusti assieme agli altri sei compagni caduti con lui, e voi dovete esserne orgogliosi. Sono morti tutti per proteggere dei villaggi da predoni senza onore. Molta gente umile, d’ora in poi, dovrà la sua sicurezza al loro sacrificio”.
“Grazie per le tue parole, valoroso Matsukis”, gli dice Atura, con una voce che cerca di nascondere un groppo alla gola. “Ti prego, racconta a tutti i miei… i suoi figli come è morto il nostro amato Hoclotos”.
Il Guerriero annuisce. “Alcuni villaggi erano stati più volte depredati da malfattori che avevano trovato rifugio sul monte Horgos. Quei senza onore avevano ferito, ucciso, stu… avevano fatto ogni sorta di nefandezze verso quei poveri contadini. Già in due occasioni eravamo andati a cercarli, ma quei vigliacchi erano sempre riusciti a sfuggirci. Conoscevano bene il territorio, certo avranno avuto anche sentinelle ben appostate e segnali convenzionali. L’ultima volta, dopo due fallimenti, abbiamo cambiato tattica. Ci siamo fatti consigliare da abili cacciatori. Abbiamo brunito le nostre armi e rivestito con iuta ogni parte dell’equipaggiamento che avrebbe potuto fare rumore. Appena pronti, ci siamo avvicinati al monte di notte, di soppiatto, indossando cappucci scuri a coprire il viso e indumenti mimetici sopra le vesti da Guerrieri. Entrati nei boschi, noi stessi ci siamo nascosti e divisi in gruppi di due, ed abbiamo sorvegliato per giorni tutti i passaggi possibili verso valle. Finché, ieri notte, uno dei nostri, appostato su un sentiero, è riuscito ad individuare la banda dei rinnegati che scendevano a valle per una qualche razzia, ed ha richiamato tutti noi imitando il verso della civetta. Pochi minuti dopo eravamo tutti riuniti sulle loro tracce. Avremmo potuto tendergli un’imboscata sulla via del ritorno, ma Hoclotos ha deciso che non potevamo permettere l’uccisione di altri innocenti. Quindi li abbiamo seguiti a passo rapido”. Lo sguardo di Matsukis si perde sul viso immobile del suo comandante, tradendo un’emozione intensa. “Una volta raggiunti i banditi, abbiamo intimato loro di difendersi, come nel nostro Codice d’Onore. In tutta risposta, il loro capo si è presentato, ed ha dichiarato di voler sfidare Hoclotos ad un duello individuale. Lui ha accettato, com’era doveroso, e si è fatto avanti per combattere con la spada, mentre noi arretravamo per lasciare campo libero”. Scuote il viso, una smorfia amara sulla bocca. “Era un tranello: inaspettatamente, assieme al capo, molti altri predoni balzarono contro di lui. In un attimo ne abbatté due con la spada, poi, ferito da un arciere, fu sopraffatto dagli altri”.
Orube deglutisce, ancora più rattristata: non è stata la luce radiosa dei soli a congedare suo Padre da questo mondo, ma le tenebre infide e l’amarezza del tradimento.
Matsukis continua, con il viso e le mani contratte: “In pochi secondi anche noi ci siamo fatti avanti, ma nel frattempo alcuni predoni avevano già lasciato il gruppo, con l’aiuto dell’oscurità, e ci hanno preso alle spalle. Il combattimento è stato lungo e sanguinoso, ma abbiamo abbattuto tutti quei rinnegati”. Abbassa il viso e la voce, come se si vergognasse. “Alla fine, io e i miei due compagni sopravvissuti siamo stati avvantaggiati dagli indumenti e cappucci scuri che avevamo indosso: gli altri Guerrieri si erano scoperti il capo, o indossavano vesti mimetiche più chiare, adatte solo durante il giorno”.
Un mugolio sommesso di bambina sottolinea un breve silenzio.
“Alle prime luci dell’alba, a terra abbiamo contato ventuno tra morti e moribondi, di cui sette erano nostri compagni”. Il Guerriero scuote la testa, triste. “Non è stata una bella vittoria. Non solo perché ci è costata troppo cara. Ci ha lasciato l’amaro in bocca, colpire degli avversari senza che ci vedessero in viso”. Sospira, cercando di assolversi: “Certo, andava comunque fatto; quei criminali avevano già ucciso troppi innocenti”.
Atura annuisce triste, accarezzando la piccola Iliore che piange sommessamente. “Grazie per la tua sincerità, Matsukis. Nessuna persona di buon senso oserà mai insinuare che tu ed i tuoi compagni abbiate agito male”.
Il Guerriero guarda la bambina. La sua voce tradisce un groppo alla gola. “Sei una donna coraggiosa, Atura. Riesci ad infondere coraggio e dignità, in questo momento, anche nei tuoi figli più piccoli”.
L’espressione di lei è indefinibile, mentre stringe a sé la bimba. “Se solo potessi fare di più….”.

Il suono di un campanello interrompe le riflessioni. “Questi devono essere i suoi compagni”, dice Atura.
Orube si alza, fa un inchino di scusa e si dirige fuori, verso il portoncino.
Un servo ha già aperto, e un Guerriero bardato con dei paramenti bianchi fa strada ad un gruppo di sei, che sorreggono una barella candida come i loro mantelli.
L’uomo guarda Orube, chinandosi in segno di saluto e di condoglianza. “Il tempo è arrivato. Siamo venuti per accompagnare Hoclotos per l’ultima volta”.
“Grazie di essere qui. Seguitemi”. Orube guida il drappello verso l’atrio della casa. Sulla porta appaiono Atura ed Entikos, che si  chinano e lasciano strada.
Orube preferisce restare fuori del locale, ormai troppo affollato.

Il portico. E’ stato lì che suo padre le disse le parole lapidarie che hanno forgiato la sua nuova vita.
E’ stato anche il posto dal quale, molte volte, lo salutava mentre lui partiva, maestoso con le sue armi ed il suo equipaggiamento, verso qualche missione di giustizia.
Quando era bambina, chiedeva spesso a sua mamma dove andava papà, quando lo vedeva uscire armato ed equipaggiato per delle missioni che potevano tenerlo lontano anche per intere settimane.
‘Lui va a difendere della povera gente che non può farlo da sola’, rispondeva lei rassicurante.
‘Difenderla contro chi?’
‘Contro uomini cattivi’.
Orube rimaneva sgomenta a questa risposta. Il suo visino si distorceva in smorfie di preoccupazione. ‘Ma, mamma, se anche i cattivi hanno una spada, papà non… non...”.
La madre la rassicurava: ‘Tuo padre è un guerriero molto abile. Tornerà sempre’.
Le prime volte, ciò riuscì a sopire le paure della bambina, ma lei tornava a porre questa domanda ogni volta che lo vedeva partire armato, e con sempre più insistenza.
Finché, un giorno, la madre ritenne che fosse pronta per una risposta diversa: “Cara, l’onore di un Guerriero gli impone di accettare dei rischi per una buona causa”.
La bimba tremò, non più rasserenata da quella che aveva già intuito essere una bugia pietosa.
La madre la guardò negli occhi, consapevole dell’importanza di quella risposta. Decise di essere sincera fino in fondo, e si accosciò per guardarla bene in viso. ‘Orube, tutti devono morire, prima o poi. Anche io. Anche tu’.
A queste parole, lei sentì gli occhi bruciarle. ‘Non voglio! Papà dovrebbe restare con noi’.
‘Ma non è così brutto’, si affrettò ad aggiungere la mamma. ‘Si soffre solo un momento. Dopo, tutti quelli che hanno vissuto onorevolmente si ritrovano nel Paradiso dei Giusti, dove non ci sono cattivi, e le spade non servono più’. La accarezzò. ‘Lì i tuoi nonni aspettano di rivederci, quando il destino vorrà’.
Orube, persa, guardò attorno a sé:  i fratellini, il suo cane, la loro famiglia solida e serena. Poi i suoi occhi tornarono su quelli della mamma, e infine si abbassarono a terra, rattristati e gonfi.
‘I bimbi dei contadini sono più fortunati di noi, allora?’.
Atura, ferita, esitò prima di rispondere. ‘Non dico che nascere nella casta dei Guerrieri sia una fortuna. Di certo, è un onore. E comunque, è una scelta del destino, non nostra’. Rifletté ancora un attimo. ‘Orube, il giorno della nostra morte è già stato scritto. Ma ricorda: il coraggioso muore una volta sola, il vile è come se morisse ogni giorno’.
Era una risposta dura da accettare per una bambina. Rimase a lungo in silenzio.
Sua mamma la accarezzò ancora. ‘Vieni, Orube. Giochiamo un po’ con Iplitis’. Fece qualche passo verso il bambino che, sotto il portico, cercava di insegnare a gattonare alla piccola Iliore, invero con poco successo: la pupattola, pancia a terra, agitava le braccine, facendo versetti di soddisfazione.
Orube non si mosse. D’un tratto si rese conto che troppe spiegazioni vertevano se una parola che non le era mai stata chiarita. ‘Mamma, cos’è l’Onore?’.
Atura si voltò, sorpresa, poi cercò le parole adatte:‘E’ qualcosa che dice come deve agire un uomo giusto’.
‘E cosa dice?’.
‘Poche cose molto importanti, cara. Per esempio, che la sua forza deve essere usata per il bene di tutti. In particolare, di chi non è capace di difendersi da solo. E’ proprio quello che tuo padre sta andando a fare’.
Orube, ad occhi bassi, fece un grosso sospiro, ripensando alla prospettiva di poterlo perdere per sempre. ‘E poi? Cos’altro?’.
‘Per esempio, che un Guerriero non deve sfoggiare la propria forza per intimidire una persona onesta’.
Orube annuì.
Atura ci pensò un attimo. Tutte queste cose le erano state inculcate al Giardino, più di dodici anni prima, e facevano parte del suo essere, ma spiegarle chiaramente dopo tanti anni… ‘Che deve rispettare anche il suo nemico’, citò a memoria.
Questo stupì Orube. ‘Ma i nemici non sono gli uomini cattivi?’.
La mamma si sforzò di ricucire una spiegazione plausibile: “Ssì… ecco, il Guerriero deve impedire ai cattivi di fare del male ad altri, ma non deve fare ai cattivi più male di quello che serva. Non deve ingannarli. Non deve ucciderli senza dargli la possibilità di arrendersi o combattere”.
Vedendo la smorfia di preoccupazione della figlia, Atura cercò di sviare: “ Ah, un’altra cosa: non devi dire bugie. Le persone d’Onore non hanno neppure bisogno di promettere: ogni loro parola ha il valore di un giuramento’.
La bambina annuì. Questo è facile da capire. ‘E poi?’.
‘Si deve essere onesti  con sé stessi’.
A queste parole, Orube la guardò ad occhi spalancati. Sapeva bene cosa significa essere onesti con gli altri, ma… ‘Onesti con sé stessi? Cosa vuole dire?’.
‘Vuol dire, non inventare bugie per convincere sé stessi che cose che sentiamo sbagliate dentro di noi siano invece giuste’.
Orube scosse la testa. Non riusciva, e non riesce a tutt’oggi, ad immaginarsi come si possa mentire a sé stessi.

La voce del fratello Entikos richiama la sua attenzione: “Orube, mettiamoci in coda dietro il feretro”.
Mentre il drappello vestito di bianco esce solennemente recando in spalla la portantina con il corpo di Hoclotos, i familiari si dispongono per venirgli dietro.
Appena fuori dal cortile, molte decine di persone stanno aspettando di unirsi alla processione.
Con sorpresa, Orube riconosce Luba, una prestigiosa Istruttrice del Giardino dei Due Soli. La Guerriera dallo strano viso quasi felino e dai lunghi capelli bianchi ricambia il suo sguardo.

Poco dopo, quando la processione si avvia con un sommesso scalpiccio, Luba si accosta a lei.
La ragazzina si inchina profondamente. “Onorevole Maestra…” .
“Ascolta, Orube. So che non vedevi tuo padre da tre anni”.
La ragazzina annuisce. “Ti rendo grazie, a nome Suo, di essere venuta a recarGli l’ultimo saluto”.
“Non potevo mancare! Io e tuo padre eravamo amici, oltre che compagni di casta. Abbiamo svolto diverse missioni assieme, e una volta mi ha salvato la vita”.
“…”.
“Volevo dirti due cose. Anche se non lo vedevi da anni, lui si è sempre interessato a te. Si è tenuto costantemente informato sui tuoi progressi, e sono felice di avergli potuto dire quanto bene tu ti sia riscattata dalle difficoltà dei primi giorni”.
Orube si adombra leggermente. “Era il minimo che potessi fare per cancellare quella vergogna”.
“Il minimo?”. Luba scuote il viso. “No, Orube. In tutto quello su cui ti abbiamo messa alla prova, tu hai raggiunto il massimo. La più resistente, la più disciplinata, la più abile tra tutte le allieve del tuo anno!”.
“Solo il mio dovere…”, si schermisce la ragazzina, cercando di non manifestare il suo imbarazzo.
“Voglio che tu sappia che, prima di partire per il suo ultimo viaggio, tuo padre era ben informato dei tuoi grandi risultati, ed era orgoglioso di te”.
“Grazie”. Questo è importante, per lei. Suo Padre non è morto pensandola ancora come una bambina frignona. E allora, perché ora si sente gli occhi più umidi?
“Un’altra cosa importante”, prosegue Luba. “Come sai, tra quattro anni tu avrai finito il periodo minimo di addestramento di base, e come tutte le ragazze, potresti tornare a casa per farti una famiglia, se lo vorrai. Alle Allieve più promettenti, tuttavia, viene proposto di restare nel Giardino per approfondire l’addestramento, e diventare Guerriere di professione o Istruttrici”.
“Sì…”.
“Se deciderai di restare, io ti farò da Maestra. Ti insegnerò quanto potrò, e cercherò di farti sviluppare da sola quelle capacità che non si possono trasmettere. Lo devo a tuo padre, e lo devo a te per tutte le potenzialità che hai dimostrato!”.
“Grazie, Maestra Luba. Per Lui era molto importante”. Per un attimo, lo sguardo della ragazzina si illumina, mentre risente le parole del Padre dentro di sé: ‘Sei nata per essere una Guerriera. Non mi aspetto di meno da mia figlia’.

Immersa in una tempesta di emozioni che non traspare all’esterno, Orube continua il cammino come in un sogno. I cortei funebri degli altri Guerrieri caduti, la salita sulla Rupe degli Eroi, la deposizione sulle pire funebri già pronte…

“Orube…”. La voce di suo fratello Entikos la risveglia da quel torpore irreale.
“Dimmi…”.
“Vieni a rendere omaggio anche agli altri Guerrieri”.
Orube annuisce, e lo segue accanto alle altre pire. Osserva il primo, un uomo alto, dalla faccia lunga e quadrata che esprime forza anche nel pallore della morte. “Questo era Onikros”, le suggerisce il fratello, inchinandosi doverosamente davanti alla salma.
Anche Orube rispetta il rituale dell’inchino, poi passa a rendere omaggio agli altri cinque corpi prima di ritornare davanti a suo Padre per l’ultimo saluto.
Accanto al corpo, c’e ancora Atura, che accarezza delicatamente, con la punta delle dita, il viso freddo ed ormai rigido che non rivedrà più, se non nei suoi ricordi, e il fratellino Ipitlos, che lo osserva sgomento, quasi come se non capisse il perché di tutto questo. Pochi passi più in là, una zia tiene in braccio Iliore, che guarda persa, per l’ultima volta, il papà toltole prima del tempo.

Orube sente ancora quella commozione da dentro che le attanaglia la gola, quel bruciore agli occhi, quell’impulso a piegare il viso e piangere. Ma è solo un attimo. ‘Non tornare finché non sarai una perfetta Guerriera, forte e dura come l’acciaio della mia spada’, le dice quella voce da dentro, ed è la voce di suo Padre.

Ormai il cielo si tinge dei rosa del tramonto mentre il primo dei due soli sta calando all’orizzonte.
Un profumo di pece copre l’odore della morte, e tutti si fanno indietro mentre il rituale sta per compiersi.
Un sacerdote avanza impugnando alta una torcia, mentre altri salmodiano una melodia funebre.
In pochi secondi,  la prima pira viene avvolta dalle fiamme, seguita, in rapida successione, dalle altre sei. I corpi dei Guerrieri, tra le fiamme arancioni, appaiono solo come sagome scure e sempre più sottili.

Questo non è un addio, Padre. Non può essere questo, il rivederci per cui ho vissuto questi anni. Io non sono una Guerriera perfetta, sono solo ai miei primi passi. Proseguirò, diventerò come Tu mi hai sognata. Dedicherò la vita a questo, e Tu, dall’alto, sarai orgoglioso di me, finché un giorno ci incontreremo per sempre, da pari, nel Paradiso dei Giusti.
 
 
 
 
 

Note dell’autore

Disclaimer: I personaggi di Orube e Luba, e il mondo di Basiliade, sono tratti da W.I.T.C.H., noto fumetto della Disney. Sono qui utilizzati senza scopo di lucro, e senza intenzione di violare un copyright, come omaggio ad un fumetto che ho apprezzato molto.

Il personaggio di Orube, giovane guerriera proveniente da un mondo chiamato Basiliade, appare a partire da WITCH  n.27, ed è una presenza quasi costante fino al n.62. Nel fumetto, il personaggio dimostra 20-25 anni, mentre questo racconto narra un episodio della sua infanzia.
Il presente racconto è ispirato all’episodio del suo distacco dalla famiglia narrato in poche vignette nel n.30 ; in tali disegni appare più piccola di sette anni, ma ho immaginato che i genitori avessero pianificato di generare un figlio ogni tre anni anche per dovere verso la loro città; così, nel racconto si genera una storia ciclica in cui ogni figlio, ogni tre anni, rivive le situazioni e le emozioni di quelli che lo hanno preceduto.
Nel fascicolo n.30, qualche vignetta è dedicata anche al suo successivo addestramento con Luba.

Le descrizioni di Basiliade che appaiono sul fumetto sono estremamente frammentarie, ed appaiono ispirate un po’ all’antica Sparta (nome che, per inciso, deriva da ‘sparsa’, e anche da qui discende la mia descrizione di Ashasvir), ed un po’ al Giappone feudale; anche il codice d’onore cui si accenna in questo racconto è ispirato al Bushido dei samurai.
Ho inventato il nome di Ashasvir per la città, in quanto Basiliade, nel fumetto Disney, è il nome attribuito ad un intero mondo.
Tutti i nomi dei personaggi, tranne Orube e Luba, sono inventati da me, e non hanno significati o etimologie particolari, a parte la desinenza in vocale per i nomi femminili e in –s per quelli maschili. Mi scuso se non sono gran che eufonici.

L’uso delle maiuscole in alcune parti può risultare pesante, ma vuole evidenziare la deferenza con cui certe persone sono trattate.
I Guerrieri non sono semplici combattenti, ma una casta riverita.
Il Codice d’Onore è inteso come una sorta di libro sacro, e l’Onore come il valore supremo.
Le iniziali maiuscole su tutto quanto si riferisce al Padre sono state usate quando il testo è scritto dal punto di vista di Orube ed Entikos già Allievi Guerrieri; viceversa, non ho usato le iniziali maiuscole quando la narrazione è attribuita alla loro prima infanzia, in quanto si suppone che allora il rapporto fosse più confidenziale.
Analogamente, anche altri personaggi come Atura e Luba non usano troppe maiuscole perché avevano un rapporto più paritario con lui.
 

Interpretazione dei prompt

Il dualismo duro/morbido si riferisce al contrasto tra il modo di essere dei bambini nella loro infanzia ( ‘mobbido’, anziché ‘tenero, affettuoso’) e la durezza e l’autodisciplina a cui punta l’istruzione da guerrieri che ricevono dei sette anni in poi.

‘Non potrai vedermi, fino a quando non sarai perfetto’, frase di Shian Thieus, viene reinterpretata come il ‘non tornare finché non sarai una perfetta guerriera, forte e dura come l’acciaio della mia spada’.
 
 

  
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