É arrivata la fine della storia.
Ringrazio moltissimo Emerenziano che ha lasciato delle
bellissime recensioni.
Grazie a tutti quelli che si sono segnati questa storia
nelle seguite.
Buona lettura.
Era seduto sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro
del corridoio asettico dell’ospedale. Le infermiere ed i dottori gli passavano
davanti, lanciandogli occhiate colme di compassione. John Watson, però, non le
notava. Lo sguardo vitreo fisso davanti a sé, non vedeva nulla.
Aveva negli occhi solo l’immagine della moglie coperta di
sangue. Sentiva nelle orecchie il suono della sirena dell’ambulanza che correva
per le strade di Londra, portandoli verso l’ospedale, verso una tenue speranza
di salvezza.
Non aveva ascoltato il paramedico che comunicava al pronto
soccorso l’arrivo di una donna incinta colpita da un proiettile. Non aveva
ascoltato i parametri vitali che l’uomo inviava a chi avrebbe ricevuto la
paziente.
Non ne aveva bisogno. Era un medico e capiva fin troppo bene
quali fossero le condizioni di sua moglie.
John aveva tenuto stretto la mano di Mary per tutto il tragitto
ed aveva continuato a ripeterle le stesse parole, come un mantra che potesse
tenerla in vita:
“Ti amo Mary. Credo in te e nel nostro amore. Non lasciarmi.
Ti prego. Ho bisogno di te. Ti amo. Sei tutto per me. Resta con me. Ti amo.”
Arrivati in ospedale, i medici del pronto soccorso si erano
impossessati del corpo di Mary ed un’infermiera gentile aveva costretto John a
lasciarla andare: in quel momento lui era un marito angosciato, non un medico
capace.
Rimasto solo, in quel corridoio dall’odore di disinfettante,
John si era reso conto che le gambe non lo sorreggevano. Si era, quindi,
appoggiato al muro con la schiena e si era lasciato scivolare, fino ad arrivare
a sedere sul pavimento, le gambe piegate, le braccia appoggiate alle ginocchia.
Sherlock lo trovò così. Seduto rigidamente. In attesa. Le
mani ed i vestiti coperti di sangue.
“John …” Lo chiamò, la voce carica di angoscia.
Watson non si girò, lo sguardo sempre fisso davanti a sé.
“John …” Un sussurro, come se non volesse disturbare.
Sherlock si sedette accanto all’amico. Sul pavimento. In
attesa.
I segreti distruggono
Mycroft era arrivato alla base militare dove Pendleton ed i
suoi uomini avevano portato Michael Hastings. Voleva assolutamente parlare con
l’uomo che aveva attentato alla vita di John Watson.
“Signor Holmes – gli disse il tenente Pendleton – questo è
un affare dell’esercito. Quell’uomo ha tentato di uccidere il capitano Watson
già in Afghanistan e …”
“Non voglio portarlo via. – lo interruppe Mycroft – Voglio
solo parlargli e farmi dire il nome del suo mandante.”
Pendleton vide negli occhi dell’uomo la stessa risoluta
determinazione che aveva notato in quelli del fratello. Sospirò:
“Cosa le fa credere che quell’uomo le dirà il nome del
mandante?”
“Oh, lo farà. – ribadì sicuro Holmes – Perché io so già chi
sia il mandante, ho solo bisogno di una conferma.”
Non sapeva da quanto fosse seduto nel corridoio. Aveva perso
la nozione del tempo. John si riscosse da quello strano torpore, che lo aveva
travolto appena arrivato, quando si rese conto che il medico che aveva preso in
carico il caso di Mary stava arrivando dalla sala operatoria. Si alzò, rigido
nei movimenti.
Guardò verso il dottore, Terence Miller, un collega con cui
aveva scherzato tante volte.
L’uomo evitava il suo sguardo.
Il cuore di John perse un colpo:
“No.” Sussurrò, la voce roca, come se non la usasse da tanto
tempo.
Arrivato vicino a lui, il dottor Miller si tolse la cuffia
dalla testa rivelando una massa di capelli neri, sudati e disordinati. Alzò
finalmente gli occhi su Watson:
“John … non so come dirtelo … – iniziò – abbiamo fatto tutto il possibile per
salvare Mary …”
“La bambina?” lo interruppe secco Watson.
“Abbiamo eseguito un cesareo e l’abbiamo messa in
un’incubatrice. Il proiettile non l’ha toccata. Dovremo capire quanto abbia
sofferto per le ferite riportate dalla madre, ma è forte, ben sviluppata.
Potrebbe farcela.”
“Voglio vederle.”
“Sì, certo. – rispose Miller – Da questa parte.”
John si avviò lungo il corridoio. Sherlock fece per
seguirlo, ma, senza voltarsi a guardarlo, Watson gli disse con tono duro e
gelido:
“Nessuno l’ha inviata, signor Holmes. Nessuno ha bisogno di
lei, qui. Se ne vada. E non si faccia più vedere.”
Riprese a camminare verso la porta della sala operatoria.
Il dottor Miller lanciò un’occhiata carica di pietà verso
Sherlock, poi seguì John.
Sherlock rimase come paralizzato nel mezzo del corridoio, a
fissare le spalle dell’amico che si stava allontanando da lui, zoppicando
leggermente. Non riusciva a muovere un solo muscolo. Era come se il tono della
voce di John avesse creato un abisso fra loro, una distanza che non era mai esistita.
Sherlock sentì una fitta al cuore ed un brivido gelato lungo
la schiena: non riusciva a credere di stare perdendo la persona più importante
della sua vita.
Watson entrò nella sala operatoria.
Un’infermeria stava sistemando i ferri chirurgici.
Mary era sdraiata sul
lettino, con il lenzuolo che la copriva completamente.
John si avvicinò al lettino. Inspirò ed espirò alcune volte,
poi scoprì il volto della moglie.
Mary aveva un’espressione serena e rilassata, sembrava quasi
che dormisse.
Watson sentì le lacrime pungergli gli occhi, ma non voleva
lasciarsi andare. Accarezzò il volto della moglie:
“Mi prenderò cura della nostra bambina. – sussurrò – Ti
giuro che le racconterò tutto di te, di quanto fossi forte e meravigliosa, di
quanto ci amassimo. Non abbiamo avuto tempo di parlare del nome da darle …
Mary, mi dispiace. Non sai cosa darei perché i nostri ultimi momenti insieme
non fossero stati una lite. Mi sento … sono responsabile della tua morte. Se tu
non mi avessi salvato, ora io sarei qui, disteso su questo tavolo e tu saresti
viva. E sarebbe più giusto così. Vorrei avere un’altra possibilità. Vorrei
poter tornare indietro e dirti che ti amo così tanto che non so cosa farmene
della mia vita senza te. Mary … sarai sempre nel mio cuore.”
Inspirò ed espirò un paio di volte per impedire alle lacrime
di rigargli il volto.
Si girò verso il dottor Miller:
“Vorrei vedere la bambina.”
Miller gli sorrise:
“Naturalmente.”
Lo accompagnò al reparto maternità dove, dentro ad
un’incubatrice, c’era un piccolo essere che dormiva tranquillo. Sulla cartella
clinica c’era scritto “Baby Watson”.
John la osservò studiandone attentamente ogni parte del
corpo: inconsciamente le contò le dita delle mani e dei piedi, facendo un
sospiro di sollievo vedendo che c’erano tutte. Quindi passò ad osservare le
gambette e le braccine rugose, il volto, che aveva la stessa forma di quello di
Mary, ma, soprattutto, il torace, che, anche se impercettibilmente, si
sollevava e si abbassava al ritmo del lieve respiro della bambina.
“Puoi toccarla, se vuoi. – gli disse Miller – Puoi infilare
le mani in quei guanti. Non è la stessa cosa che toccarla direttamente, ma è
pur sempre qualcosa.”
John seguì le istruzioni del collega e riuscì a toccare delicatamente
la bambina che, come se si fosse resa conto che fosse il padre a sfiorarla,
emise un gridolino di soddisfazione facendo una smorfietta simile ad un
sorriso. Il volto di John si rasserenò completamente, distendendosi in un
sorriso pieno d’amore per quel piccolo essere che, sapeva, sarebbe stato tutto
il suo mondo per i prossimi anni.
“Posso restare qui stanotte?” chiese.
“Certo. – rispose Miller – C’è una poltrona apposta per i
genitori. Puoi stare qui tutto il tempo che vuoi.”
John gli sorrise riconoscente e tornò a contemplare la figlia.
Mycroft trovò Sherlock ancora fermo nel centro del
corridoio. Vide subito l’espressione sconvolta sul suo volto e si preoccupò
notando l’assenza di John:
“Sherlock, cosa è successo?”
Il più giovane degli Holmes si riscosse e rispose al
fratello senza guardarlo negli occhi:
“Mary è morta. Sembra che siano riusciti a salvare la
bambina.”
“Bene. – disse titubante Mycroft – Dov’è John?”
Sherlock non rispose subito. Sembrava che avesse difficoltà
ad articolare le parole.
“Sherlock – chiese, di nuovo, con dolcezza il maggiore degli
Holmes – cosa è successo?”
“John non mi vuole vicino a sé.” Rispose finalmente il
consulente.
Mycroft non riusciva a vedere il volto del fratello, che gli
voltava le spalle:
“Cerca di capirlo. – cercò di consolarlo – In questo momento
John sta soffrendo moltissimo. Vedrai che …”
Sherlock si girò verso il fratello con un’espressione di
rabbia dipinta sul viso che spaventò Mycroft:
“Tu non lo hai sentito! Mi ha detto che non vuole più
vedermi!”
Mycroft non sapeva come alleviare il dolore che vedeva negli
occhi del fratellino:
“Non diceva sul serio …”
Sherlock lo interruppe ancora, sibilando furioso:
“Non cercare di capire dei sentimenti che non hai mai
avuto!”
Detto questo, voltò le spalle al fratello e si diresse al
bancone delle infermiere:
“Sto cercando il dottor Watson.” Disse, cercando di
riprendere il controllo delle proprie emozioni.
La giovane infermiera di turno gli rivolse un sorriso:
“Il dottor Watson si trova nel reparto maternità, dalla
figlia.”
Gli diede le indicazioni necessarie ed in pochi minuti,
Sherlock raggiunse il reparto.
Attraverso la vetrata vide John, seduto su una poltrona.
Poteva vederlo solo di profilo, ma notò subito che la sua espressione era più
serena. Sorrideva, anche se il suo era un sorriso triste.
Sherlock fece scorrere lo sguardo da John alla bambina, un
piccolo essere che avrebbe legato per sempre il suo amico al ricordo della
moglie morta.
Holmes si sentì più sollevato, pensando che, con un po’ di
tempo, tutto potesse risolversi.
Mycroft era rimasto solo nel corridoio, quando una voce beffarda
lo apostrofò:
“Allora, Mycroft, come ci si sente quando la persona più
importante della tua vita ti volta le spalle?”
Mycroft si voltò lentamente e si trovò davanti Sherrinford
che rideva sarcastico:
“Il nostro fratellino non sembra amarti molto. Forse hai
fatto la scelta sbagliata, non credi?”
Mycroft strinse gli occhi e controllò la rabbia:
“So che ci sei tu dietro a tutto questo, Sherrinford.”
Sherrinford si appoggiò al bastone da passeggio, sornione:
“Hai delle prove, fratellone, o stai tirando ad indovinare?
Perché, stavolta, non sarà facile farmi accusare di qualcosa.”
Mycroft si irrigidì:
“Hastings ha accusato Moriarty di averlo pagato per uccidere
John.”
Sherrinford finse, platealmente, di essere sorpreso:
“Oh, davvero? Allora è stato Jonathan ad organizzare questo
piano per uccidere il caro dottor Watson. Immagino che volesse vendicare James.
E cosa può fare soffrire di più il nostro delicato fratellino se non la morte
del suo dolce amante? – scosse la testa – No, scusa, non amante. Il dottore
asserisce che fra lui e Sherlock non ci siano implicazioni sentimentali e
sessuali. Tu ci credi?”
L’ultima domanda era stata posta con sincera curiosità.
Mycroft era furioso:
“Tu conoscevi entrambi i fratelli Moriarty! Eravate
complici!”
Sherrinford scosse la testa sarcastico:
“Prove, fratellone, prove. Dove sono le prove di questa
presunta complicità? Pensi che io conosca i fratelli Moriarty solo perché li ho
chiamati per nome? Non credo che sarebbe una prova che reggerebbe a lungo, in
un qualsiasi tribunale. – la bocca si aprì in un sorriso di derisione – Non sai
fare di meglio, Mycroft? Sei caduto così in basso, frequentando persone così
banali e comuni? E se pensi che Jonathan possa tradirmi, come hai fatto tu,
sappi che ha già lasciato il paese per un posto sicuro.”
“Forse non oggi, forse non domani, ma un giorno dimostrerò
che sei un mostro e ti rispedirò dove meriti di stare!” disse furioso Mycroft.
Il sorriso di Sherrinford si spense lasciando il posto ad
un’espressione dura e fredda:
“Forse non oggi, forse non domani, ma un giorno ucciderò
John Watson e questo distruggerà Sherlock. Per ora, mi accontento di vedere il
nostro caro fratellino soffrire come un cane, dato che il suo amichetto lo ha
respinto, ma un giorno … – abbassò la voce ad un sussurro appena percettibile –
… un giorno farò in modo che Sherlock si macchi del sangue del suo prezioso
John. E tu non potrai che starlo a guardare distruggersi poco a poco, senza potere
fare nulla per salvarlo.”
I due fratelli si fissarono negli occhi per alcuni minuti,
poi Sherrinford salutò Mycroft sollevando due dita a toccarsi la fronte e
facendogli un lieve sorriso.
Erano trascorsi alcuni giorni dalla morte di Mary.
John non aveva più rimesso piede a Baker Street, né aveva
contattato Sherlock, ma aveva trascorso ogni minuto con la figlia, che stava
rispondendo bene alle cure, diventando ogni giorno più forte.
Da parte sua Holmes aveva deciso di non assillare l’amico e
lo stava sorvegliato da lontano per assicurarsi che non corresse ulteriori
pericoli.
Il giorno del funerale di Mary, Mycroft si presentò a Baker
Street:
“Non dovresti andare al funerale. – disse con finta noncuranza
– John sarà emotivamente instabile e sappiamo entrambi che tu non saprai gestirlo.
Dirai sicuramente qualcosa di inappropriato che lo farà arrabbiare ancora di
più.”
Sherlock sbuffò seccato:
“Solo perché tu non sai come comportarti con la gente
comune, non significa che io non sappia come ci si relazioni in queste
circostanze. E, poi, è John. Sarà sicuramente contento di vedermi. Potrebbe
anche chiedermi di tornare a Baker Street.”
Mycroft lo guardò incredulo:
“Credi veramente che John tornerà a vivere qui, con la
bambina?”
“Certo! – ribatté Sherlock – Dove altro potrebbe andare?
Avrà bisogno di aiuto e non può chiederlo a sua sorella: sono anni che
praticamente non si parlano ed è un’alcolizzata, quindi non adatta a prendersi
cura di una neonata.”
“Invece un ex drogato, sociopatico ed assassino è la persona
ideale a cui affidare una bambina.” Disse sarcastico Mycroft.
Sherlock lo fulminò con un’occhiata:
“La signora Hudson sarà felicissima di fare da baby sitter
alla figlia di John.” Controbatté gelido.
Mycroft socchiuse gli occhi studiando il fratello:
“Sherlock, credi veramente che le cose si sistemeranno così
facilmente?”
Il più giovane degli Holmes ignorò il fratello come se si
stesse preoccupando per nulla.
Si infilò il cappotto ed uscì.
Durante tutta la funzione, John aveva evitato di incrociare
il proprio sguardo con quello di Sherlock, anche se si era reso perfettamente
conto di quanto l’amico lo stesse osservando, valutandone ogni movimento per
cercare di capire come si sentisse.
Accanto a Watson aveva fatto la sua apparizione una donna
più vecchia di lui di alcuni anni, che Holmes non aveva fatto alcuna fatica ad
identificare come Harriet, la sorella, sia per una certa somiglianza somatica
sia per l’atteggiamento protettivo che la donna dimostrava nei confronti del
dottore.
Terminata la cerimonia al cimitero, Sherlock si stava
avvicinando a John, quando Harry gli si parò davanti:
“Sherlock Holmes, presumo.” Esordì la donna con un tono
duro.
“Harriet Watson, presumo.” Rispose il consulente con lo
stesso tono.
“Mio fratello non vuole parlare con lei, quindi non si
disturbi ad avvicinarlo per fargli le condoglianze.”
“Se John ha lasciato che lei gli stesse vicino, dopo che
sono anni che la evita, accetterà di parlare anche con me.”
La donna stava per ribattere, quando la voce di John
interruppe lo scambio:
“Harry, potresti andare a fare gli onori di casa per il
ricevimento? Io vorrei passare in ospedale da Alex.”
La donna di girò verso il fratello e gli diede un bacio
sulla guancia:
“Certo, caro. Ci vediamo dopo a casa.”
Harry se ne andò senza salutare Holmes.
Un silenzio imbarazzato era calato fra i due uomini.
Sherlock non sapeva da dove iniziare. John non aveva la forza per affrontare
anche l’amico nel giorno del funerale della moglie. Infine, Holmes ruppe il silenzio:
“Come hai chiamato la bambina?”
“Alexandra
Mary Watson.” Rispose secco John.
“È un bel nome.” Disse il consulente.
“Grazie.” Watson continuò a rispondere a monosillabi.
Sherlock sapeva che non sarebbe stato facile, ma John gli
stava rendendo tutto ancora più difficile.
“Posso capire che tu sia arrabbiato …” tentò di dire, ma il
dottore lo interruppe subito fissandolo negli occhi furioso:
“Arrabbiato? Oh, no, io non sono arrabbiato. Sono furioso!
Vuoi sapere perché? Mia moglie è morta e mia figlia, quando non era ancora
praticamente nata, ha dovuto lottare per rimanere viva!”
“Però sta bene …”
John mantenne la voce bassa, per non farsi sentire da tutti,
ma sembrava lo stesso che stesse urlando:
“Fortunatamente sì, ma non grazie a te!”
La furia del dottore stava travolgendo il consulente:
“Da quando ti conosco non ho fatto altro che pagare per le
tue azioni sconsiderate. Voi Holmes vi credete i depositari delle verità del
mondo e non fate mai veramente nulla alla luce del sole. Preferite agire
nell’ombra e nell’oscurità mantenendo i vostri segreti fino a quando non potete
più nasconderli. Non vi curate minimamente delle conseguenze che tutto ciò ha
sulle vite delle persone che, sfortunatamente, incrociano la vostra strada.
Quando hai finto di suicidarti, mi hai fatto passare due anni d’inferno. Ed ora
… ora … Mary era stata la persona che mi aveva salvato la vita, dopo la tua
messinscena. Ed ora l’ho persa per sempre perché dovevano vendicarsi di TE!”
“John …” cercò di interromperlo con voce decisa Sherlock, ma
John era un inarrestabile fiume in piena:
“Vorrei che Mike non ci avesse mai presentato. Quel giorno è
stato il più sfortunato della mia intera esistenza. Sono stanco dei tuoi modi
di fare scorbutici ed imprevedibili, sono stanco del fatto che tu decida cosa
vada bene per tutti senza chiedere cosa ne pensi l’altro …”
“John smettila! – sibilò Sherlock – Sei sconvolto per la
morte di Mary e lo capisco …”
“Tu capisci? – lo interruppe sarcastico John – Ne dubito
molto! Non esiste persona al mondo di cui ti importi qualcosa a parte te stesso
e le tue indagini. Sei disposto a sacrificare tutto e tutti pur di dimostrare
di essere la persona più intelligente al mondo …”
“Sapevi chi fossi quando hai accettato di diventare mio
amico.” Sbottò Sherlock.
“Avrei dovuto ascoltare chi mi metteva in guardia contro di
te! – urlò John – Ora non starei desiderando di essere morto al posto di mia
moglie o non starei desiderando che TU fossi morto davvero due anni fa!”
Un silenzio furioso cadde fra i due uomini. John inspirò ed
a voce più bassa aggiunse:
“Ti voglio fuori dalla mia vita, Sherlock! Non ti azzardare a
cercarmi o a contattarmi. Hai finto la tua morte? Bene! Per me SEI MORTO!”
Detto questo, John voltò le spalle a Sherlock e lo piantò
nel cimitero, a fianco della tomba di Mary.
Una leggera pioggerellina cominciò a cadere, bagnando il
consulente investigativo, che tremava per la rabbia e la frustrazione: perché
John non capiva e non vedeva quello che aveva fatto per lui?
Comunque, in pochi giorni la rabbia di John sarebbe sbollita
e tutto sarebbe tornato come prima.
Invece, era trascorso un altro mese.
Sherlock aveva ripreso a fare consulenze per Scotland Yard,
ma senza John non era la stessa cosa.
Lestrade era preoccupato perché Holmes era diventato ancora
più intrattabile: parlava pochissimo e solo per dare la soluzione dei casi, ma
si rivolgeva ai suoi uomini sempre in tono arrogante e supponente, insultandoli
con ogni scusa.
Il resto del tempo lo passava a suonare il violino o a
sorvegliare John.
Quando non poteva farlo personalmente, faceva sì che
qualcuno della sua rete di senzatetto lo controllasse.
Aveva saputo che le condizioni della bambina erano molto
migliorate e che John la aveva portata a casa.
Da alcuni giorni, però, non aveva più notizie da parte dei
suoi informatori.
Decise, così, di presentarsi personalmente a casa Watson per
mettere fine a tutta quella stupida storia: erano amici e potevano risolvere
qualsiasi problema si fosse presentato, affrontandolo insieme.
Sherlock era uscito da Baker Street sorridendo all’idea di
poter parlare di nuovo con John, dopo tanto tempo. Era pieno di energie e
sentiva che tutto si sarebbe aggiustato. Forse John avrebbe fatto ancora un po’
resistenza, ma lo avrebbe perdonato e sarebbe tornato a Baker Street con la bambina.
Questo significava dover cambiare qualche sua abitudine, una
bambina così piccola aveva bisogno di cure ed attenzioni particolari, di calma
e tranquillità, ma, pur di riavere John con sé, avrebbe adattato la propria
vita a quella della piccola.
Arrivato davanti a casa Watson, suonò il campanello.
Si rese conto, con una certa sorpresa, che il cuore aveva
accelerato i battiti, che aveva le mani sudate ed era sicuro che anche le
pupille fossero un po’ dilatate.
Sorrise fra sé: lo avrebbe raccontato a John e ne avrebbero
riso insieme.
Nessuno rispose, così Sherlock suonò ancora, con più
insistenza.
Dalla porta accanto, si affacciò una vecchietta:
“Giovanotto – gli disse – è inutile che suoni. Il dottore è
partito alcuni giorni fa.”
Sherlock la guardò interdetto:
“Non è possibile che sia partito. – obiettò – Me lo avrebbe
detto. Siamo amici.”
La donna lo squadrò sospettosa:
“Non so se lei sia un amico del dottore o no, ma le
garantisco che è partito.”
Holmes fissò la porta chiusa con il cuore che batteva sempre
più velocemente.
Con un calcio la sfondò ed iniziò a chiamare a gran voce
John, spalancando le porte chiuse e percorrendo le stanze a grandi falcate:
nella casa c’erano tutti i mobili, ma gli effetti personali erano spariti.
Arrivato in camera da letto, trovò gli armadi completamente vuoti.
Improvvisamente si rese conto di non essere solo in casa.
Si girò di scatto e si trovò davanti Lestrade che lo fissava
con uno sguardo addolorato:
“Mi dispiace, Sherlock. – gli disse il più delicatamente possibile
– John se ne è andato.”
“Non … non … non può essere …” balbettò il consulente.
“John è partito quattro giorni fa con la bambina. Quando è
venuto a salutarmi, mi ha fatto promettere che non ti avrei detto nulla fino a
quando non lo avessi scoperto tu stesso. Non vuole che lo cerchi. Non vuole che
lo trovi. – abbassò il capo – Mi dispiace Sherlock.”
In preda ad un’angoscia mai provata prima, Sherlock corse
fuori dalla casa.
Una calda pioggia primaverile aveva iniziato a cadere dal
cielo grigio.
Sherlock continuò a correre disperatamente fino a quando non
raggiunse Baker Street, incurante della pioggia.
Arrivato a casa, salì rapidamente le scale e perlustrò ogni
stanza dell’appartamento per accertarsi che John non fosse lì.
Non c’era.
C’erano solo delle cose che il dottore aveva lasciato
nell’appartamento e che stavano accumulando strati di polvere perché Sherlock
non aveva voluto toccarle, in attesa che John tornasse per usarle.
John non era tornato.
Nel mezzo del salotto dell’appartamento di Baker Street,
Sherlock respirava a fatica.
Non era a causa della corsa folle che aveva fatto.
Gli mancava l’aria.
Gli mancava John.
Le gambe non furono in grado di reggerlo e cadde in
ginocchio.
Ora capiva cosa doveva avere provato John quando lui aveva
finto di suicidarsi: quel senso di vuoto, la casa silenziosa, così familiare
eppure così estranea. Sentiva un crampo all’altezza dello stomaco, un dolore
sordo e violento che gli toglieva ogni capacità di respirare.
No.
Non era la stessa cosa.
John credeva che lui fosse morto.
Lui sapeva che John era vivo.
Il respiro di Sherlock si fece più regolare.
Con uno sforzo immane si trascinò alla sua poltrona ed aprì
gli occhi per guardare quella di John.
John era vivo.
John era arrabbiato.
John stava soffrendo.
John lo avrebbe perdonato.
John sarebbe tornato.
E tutto sarebbe tornato come prima.
Entrò nel proprio mind palace e cercò quell’angolo
particolare in cui custodiva ogni istante che aveva trascorso con John. La sua
mente prodigiosa gli permetteva di custodire ogni momento condiviso con il
dottore e di riviverlo come se stesse accadendo in quello stesso istante.
Era il luogo privato e sicuro in cui si era rifugiato ogni
volta che si ero sentito solo nei lunghi mesi trascorsi a distruggere l’organizzazione
di Moriarty.
Chiuse gli occhi e si concentrò per entrare in quel porto
calmo e tranquillo.
Quando li riaprì era più sereno e sorrideva: ora era sicuro
che John sarebbe tornato.
E lui lo avrebbe aspettato.
La casa era piccola, ma luminosa e tranquilla: il posto
adatto per crescere una bambina.
La piccola emise un lamento. Si stava svegliando.
L’uomo prese il biberon, che aveva già preparato, dal
ripiano della cucina, quindi salì nella camera della figlia, la prese dal
lettino e si sedette su una sedia a dondolo, posta nella stanza, con la piccola
fra le braccia.
La bambina gli fece un gran sorriso, cominciò a succhiare il
latte dal biberon con immensa soddisfazione ed afferrò con forza un dito del
padre, senza più lasciarlo.
L’uomo sorrise, dondolandosi, canticchiando una canzone
sottovoce.
Alzò gli occhi per guardare l’unica fotografia presente in
tutta la casa, che non fosse della bambina: era stata scattata il giorno del
matrimonio e c’era lui, felice, fra la sposa, bionda e sorridente, ed il suo
testimone, un uomo alto, magro, con ricci capelli neri, impettito e serio.
Sembravano i suoi angeli custodi.
L’uomo fissò la fotografia con un’immensa nostalgia per quei
momenti felici che non sarebbero più tornati: aveva perso la moglie perché era
morta; aveva perso l’amico perché era vivo.
Da quel momento in poi sarebbe stato un uomo solo, vedovo,
con una bambina da crescere.
La sofferenza che provava per tutto quello che aveva perso o
lasciato indietro, veniva spazzata via da quel piccolo essere che si affidava
completamente a lui.
Una fitta al cuore gli fece capire che avrebbe sempre
sentito la mancanza dell’amico, della moglie e della vita con loro, ma il suo
futuro era lì, con quella piccola creatura.
La donna che mise piede nella stanza, lo vide così assorto
nella contemplazione di quell’unica fotografia, che si sentì a disagio a
chiamarlo, come se stesse interrompendo uno momento intimo:
“Capitano Wallace, – chiamò a bassa voce – il tenente
Pendleton è arrivato.”
L’uomo con i capelli biondi voltò la testa verso di lei e le
sorrise.
“Alexandra ha quasi finito di mangiare. – rispose – Lo
faccia salire, per favore.”
La donna ricambiò il sorriso:
“Certo.”
Quando Pendleton entrò nella stanza, l’uomo era in piedi,
con la testa della bambina appoggiata ad una spalla, su cui aveva messo un
piccolo asciugamano per proteggere la divisa. Continuava a cantare una
canzoncina, a voce bassa, mentre le accarezza la schiena.
L’uomo sorrise al nuovo arrivato in segno di saluto e Pendleton
ricambiò.
Andrew Pendleton non aveva perso di vista John Watson dal
giorno in cui Michael Hastings aveva tentato di ucciderlo, colpendone la
moglie.
Aveva fatto sì che gli uomini di Sherlock Holmes non potessero
riferire al consulente che lo stavano trasferendo in un luogo sicuro, insieme
alla figlia.
Pochissimi e fidatissimi amici sapevano che il Capitano
Jeremy Wallace e John Watson fossero la stessa persona. In questo modo, nemmeno
Mycroft Holmes, malgrado le sue conoscenze ed il suo potere, avrebbe potuto
rintracciare John nella base militare in cui era venuto a vivere.
In quel luogo John Watson sarebbe stato al sicuro da tutti,
insieme alla figlia che sarebbe stata la sua unica ragione di vita.
La bambina si era addormentata e John la posò delicatamente
nel lettino. Le accarezzò la testa, contemplandone il viso, la coprì e si avviò
verso la porta, raggiungendo Pendleton che ogni giorno lo veniva a prendere per
accompagnarlo all’ospedale della base, dove lavorava.
John lanciò un’ultima occhiata alla figlia, poi spostò lo
sguardo verso la fotografia:
“Vegliate su di lei.” Disse a voce bassa, con un sorriso
malinconico.
E seguì Pendleton verso la sua nuova vita.
Senza Mary.
Senza Sherlock.
John Watson era morto e non sarebbe più tornato.
Nota dell’autrice
La storia finisce qui.
Non biasimate troppo il mio povero John: ha perso la moglie
ed è rimasto solo con una figlia piccola, l’opzione Sherlock non è, al momento,
contemplata perché, in tutta sincerità, come potrebbe rimanere in un posto dove
sarebbe perennemente in pericolo e definirsi un padre coscienzioso?
E, poi, non si sa mai che un giorno decida di scrivere un
seguito.
Davvero pensate che John e Sherlock possano stare lontani
per molto?
Spero che il capitolo, ma soprattutto la storia, vi siano
piaciuti.
Fatemi sapere qualsiasi cosa ne pensiate!
Grazie per essere arrivati fino a qui!