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Autore: Persychan    26/02/2015    1 recensioni
Lei era arrivata inaspettata, con quegli occhi troppo chiari, i capelli biondi tagliati corti sopra le orecchie e la divisa rigidamente allacciata, accompagnata da uno sciame di soldati tedeschi e dall’ode alla sconfitta, pronta a sedersi nel posto della sua amata Nazione, del suo dolcissimo sposo. E Marianne, nel vederla, non aveva potuto fare a meno di sentire il sapore della paura in bocca e i fremiti per una nuova caccia percorrerle la schiena come ai tempi della Rivoluzione quando i suoi principi mormorati a mezzavoce facevano tremare i re.
E mentre Francia combatte la guerra da oltre la Manica, in quella che dovrebbe essere una nuova Nazione si sente già l'odore della morte. E di sesso. E di amore.
Riposa in pace, Vichy, la Rivoluzione sarà lieta di aggiungere la sua testa alla collezione.
[Marianne/Repubblica di Vichy - FrUk] [Original Characters]
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai, Yuri | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Questa storia è vecchia, avrà quattro, forse cinque anni, venne iniziata insieme ad un'altra storia su Marianne, questa decisamente più leggera, ai tempi in cui ancora c'erano una manciata di storia di Hetalia e nonostante il fandom sia cambiato e io non vi sia dentro da molto tempo, non potevo lasciare questa storia incompleta a prendere la polvere nel mio hard disk.
Non so se vi piacerà: è una storia che ha ben poco di romantico, molto di tragico e su cui aleggia la morte. Le protagoniste sono due personaggi che sebbene di mia creazione riprendedono sia dall'immaginario di Hetalia che da quello vignettistico dell'epoca, il tutto, come sempre, in una chiave più seria. Dei nostri beniamini si parlerà, saranno presenze che mai abbandoneranno la storia, ma le loro apparizioni saranno camei o poco più, e appariranno soprattutto nei capitoli finali, per i resto il palcoscenico va a Marianne, la Rivoluzione, e a Vichy, il Governo di una Francia senza Francia.
I commenti sono come sempre graditi.
E così vi lascio alla lettura.



La belle dame sans merci

"La rivoluzione è un'idea che ha trovato le proprie baionette." 
Napoleone Bonaparte

 

Lei era arrivata inaspettata, con quegli occhi troppo chiari, i capelli biondi tagliati corti sopra le orecchie e la divisa rigidamente allacciata, accompagnata da uno sciame di soldati tedeschi e dall’ode alla sconfitta, pronta a sedersi nel posto della sua amata Nazione, del suo dolcissimo sposo. E Marianne, nel vederla, non aveva potuto fare a meno di sentire il sapore della paura in bocca e i fremiti per una nuova caccia percorrerle la schiena, come ai tempi della Rivoluzione quando i suoi principi mormorati a mezzavoce facevano tremare i re.

Aveva sorriso.

Quanto le era mancata quella sensazione: la capacità di piegare e conquistare la mente dei governanti, di impugnare la volontà del popolo come una spada e insinuarsi simile a veleno – o a santissimo balsamo – in ogni debolezza del sistema. Dieu, lei non era nata da una rivoluzione per niente.

Lei si fregiava del titolo di Stato, ma era soltanto una ragazzina, a malapena donna, dalle forme appena accennate e le spalle curve di chi era cresciuta troppo in fretta, infagottata in una divisa che le stringeva il collo come un collare e Marianne si sarebbe presa il compito di allentarlo un po’. La giovane Vichy era, in fondo, il suo nuovo superiore ed era suo dovere aiutarla, non?

 

 

 

Marianne bussò alla porta dello studio con delicatezza, quel tanto da farsi sentire, ma da non risultare fastidiosa – piccolezze che aveva imparato da Lui  – entrando nella stanza al mugugno di assenso. 

Alla vista rimase, però, per qualche secondo interdetta indugiando sulla porta, gli occhi cobalto spalancati e la bocca aperta in una piccola "o" di sorpresa: conosceva bene la stanza, era stato lo stesso Francis ad adibirla ad ufficio alcuni decenni prima quando avevano preso quella casa per le loro cure termali in quella piccola località - tanto amata sia da lei stessa che dal Terzo in persona - ma del curato mobilio che una volta ne avevo costituito l'arredamento non rimaneva che la scrivania stoicamente immobile sul tappeto scurito dal tempo, due sedie poste ciascuna da lati opposti, una cassettiera la cui anta centrale cigolava su i cardini e un vecchio orologio a pendolo. Il resto era scomparso in quel rapido cambio di governo - e di padroni - buttato, bruciato e distrutto nel tentativo di trasformare una cittadina in una capitale e un fantoccio in uno stato.

Nessuno, però, riuscì a godersi la sua rara espressione sbalordita poiché non durò abbastanza da permettere alla giovane nazione di notarla, troppo impegnata a districarsi da pile di rapporti, relazioni e resoconti di varia natura sommati a plichi di pura e semplice burocrazia.

“A cosa servirà mai inviare lo stesso documento a quattro uffici diversi? – con la testa china sull’ennesimo documento, Vichy inveiva di nuovo cercando di decifrare la scrittura di un tenente decisamente minuzioso, ma manchevole verso calligrafia - È solo una perdita di tempo!”
“Ne convengo – la interuppe e facendole, di conseguenza, alzare lo sguardo stupita nel non averla sentita entrare – ma  sfortunatamente la burocrazia è fatta di cose inutile.”  E, conclusa la frase, Marianne si sedette, sull’unica sedia rimasta libera nel nuovo spartano arredamento, con la stessa affettata calma di una regina sul trono, sistemandosi con gesti rapidi le ampie volute della gonna, mentre, dell’altro lato della scrivania, Vichy abbandonava con un piccolo tonfo il plico di foglio sul tavolo e la squadrava con le sopracciglia corrucciate e un tic nervoso che le faceva ticchettare la penna sul pianale di legno.
“E tu chi saresti?”

Se Marianne parlava con arabeschi in un piroettare di spirali fumose dove la verità non aveva maggior valore della falsità o di qualche sillaba ben accordata, invece Vichy si muoveva tra le parole come un’estranea sputando le lettere una dopo l’altra come infastidita da quell’inutile sequela di suoni, insofferente verso qualunque forma o bellezza ed interessata solo al loro significato più diretto e facilmente intuibile. La poesia,  tutte le metafore e belle forme che i politici e ora gli amanti era soliti inserire nei loro discorsi non facevano parte del suo mondo e per questo motivo Marianne intendeva sfruttarne ogni sfaccettatura.

“Il mio nome è Marianne, mademoiselle Vichy, ed ero al servizio, per così dire, di monsieur Franci…pardon, monsieur Bonnefoy. Certamente, il mio rapporto con lui non si può definire soltanto lavorativo, ma sono altrettanto sicura che voi abbiate già ricevuto notizie sulla sua “fama”, non? E che quindi non vi stupire affatto di questa notizia, è di una tale ovvietà, non? – Vichy continuava a fissarla con i suoi giovani, sebbene privi di qualunque innocenza, occhi cerulei, impossibilitata a dare alcuna risposta senza rischiare di apparire sciocca e intenta ormai ad ascoltare soltanto il fluire del perfetto francese dal marcato accetto parigino della donna davanti a sé – Voi siete sicuramente una fanciulla perspicace e avrete già capito quando possano essere noiosi i compiti di una Nazione, non che ovviamente io voglia dileggiare tali nobili compiti, ma immagino che qualcuno come voi, con il vostro addestramento e una così giovane età possa preferire altre…mansioni, per così dire. Sono certa, quindi che potrei essere di altrettanta utilità anche a voi, mademoiselle Vichy.”

Come risvegliata da un sonno troppo lungo – dove i sogni parlavano di sterminati campi di fiori del colore delle ametiste e del profumo forte delle rose a coprire il puzzo dei cadaveri – Vichy abbandonò la posizione rilassata, quasi abbandonata sulla sedia, che quelle parole, quella lenta litania, le aveva provocato sedendosi in modo più composto e rigido, mentre il suo viso si accigliava nell’espressione più altera e sprezzante che i suoi lineamenti delicati e la sua giovane età le permettevano : era pronta a scacciare quell’invadente donna e le sue parole contorte.

“Ne dubito. Cosa potrebbe mai fare una…una come te?”

Marianne sorrise, gettando dietro la spalla una ciocca sfuggita alla ricca pettinatura e allungando le mani – mani piccole e graziose con le unghie perfettamente curate e il segno di una fede mancante sull’indice sinistro – fino a picchiettare con garbo sulle alte pile di fogli.

"Ad esempio potrei occuparmi di questa tanto inutile burocrazia: è stato spesso il mio compito visti gli... impegni di monsieur Bonnefoy.”

Vichy si morse il labbro inferiore nel tentativo, mal riuscito, di trattenere una risata perché quell’eufemismo le pareva troppo ridicolo anche soltanto per essere pronunciato ad alta voce. Anche se Herr Ludiwg non aveva detto nulla di troppo esplicito, erano bastate le battute dei soldati per intuire che tipo fosse il suo predecessore: un debole, un vigliacco che invece di combattere e morire con onore si era rifugiato tra le gonne – o meglio nei pantaloni se avevano ragione le chiacchiere – dell’alleato britannico permettendo così che il suo posto gli venisse usurpato.

“Immagino siano gli stessi impegni che lo tengono impegnato tutt’ora, giusto?”

Represse una nuova risata sentendo per qualche istante il sapore del sangue tra le labbra – nella gola – mentre dall’altra parte della scrivania Marianne inclinava docilmente la testa esponendo il collo bianchissimo e piegava le labbra rubino in una smorfia dispiaciuta, con un tale contegno virgineo che Vichy quasi si sentì in colpa per le parole e pensieri che le aveva rivolto: non era che una povera pecorella smarrita che, come il popolo francese, lei sarebbe stata ben felice di guidare e proteggere.
Marianne rialzò lo sguardo e Vichy lo distolse nel tentativo di cancellare le riflessioni che l’avevano colta qualche istante prima, fissando un punto non ben definito poco sopra la sua spalla, prima di inspirare profondamente e cercare un appiglio per riaprire la conversazione e per spezzare, così, quel silenzio inquietante. Sfortunatamente, però, nel suo addestramento non c’era stato nulla sull’argomento.

“Ehm, dicevi…- iniziò impacciata facendole ticchettare la penna sulla scrivania – ehm, quali altri compiti svolgevi per…per monsieur Bonnefoy?” chiese, infine, strascicandone le parole che le sarebbero dovuto apparire familiari – erano la sua lingua, per Dio – ma che invece risultavano per lei più ostiche di qualunque corsa ad ostacoli o allenamento.
Marianne la fissò da dietro le ciglia bionde e attentamente piegate, che quasi offuscavano il blu profondo delle sue iridi, prima di sorriderle dolcemente e domandarle, con tono vezzoso e leggero, quale versione preferisse.

"Che cosa intendi?”

“Volevo sapere se desideravate conoscere tutte le mie mansioni o soltanto quelle…come dire, pubblicamente riconosciute.”

 

Il silenzio calò nella stanza scandito soltanto dal ticchettare ritmico di un vecchio orologio a muro – uno dei pochi cimeli salvatisi dalla scrupolosa pulizia effettuata dell’ufficio – almeno fino a quando Vichy non lo ruppe, in uno stridore prolungato, facendo strisciare violentemente la sedia contro il pavimento, mentre nella fretta si alzava e si rifugiava in piedi, dando le spalle a Marianne, vicino alla finestra con il viso in fiamme. Conosceva bene le battute sconce dei soldati e lei stessa aveva a scherzato sull’argomento dozzine di volte in compagnia dei suoi commilitoni, solo un istante prima aveva riso dentro di se delle azioni del proprio predecessore, ma fino ad allora di frasi senza un destinatario se non l’infermiera dagli occhi stanchi come i suoi stessi pazienti e mai di una persona in carne ed ossa, qualcuno da poter inserire in quelle fantasie e situazioni oscene. Avvampò nuovamente tingendosi il viso di un rosso intenso, mentre un tremore le prendeva le mani, strette contro il freddo marmo del davanzale, e la costringeva a ripetersi convulsamente tra le labbra sottili il suo mantra di salvezza: “Controllo, è tutto sotto controllo, controllo…”
Eppure per quanto si sforzasse tra un “lo” e un “ è tut”, immagini di quelle dita nivee e curatissime che percorrevano il suo corpo in un malsana fantasia o di quelle stesse gambe velate da calze di seta, che vedeva comparire da sotto la gonna, che sfioravano le sue, percorrevano la sua mente senza sosta.

Marianne sorrise appena, fremendo sulla sedia con le dita strette, intrecciate tra di loro come le zampe di un ragno, nel tentativo di frenare e calmare quel cuore palpitante che, sotto la stanchezza di una guerra al massacro e il dolore di una Parigi straniera, riusciva a sentir battere di nuovo.

Per un istante, nell'entrare nella stanza, aveva avuto il dubbio - il terrore - che la bambina fosse troppo aliena e troppo distante da Francis per poter avere la minima presa su di lei, ma nell'attimo in cui l'aveva tentata - in cui aveva mostrato appena il fuoco della Rivoluzione - era crollata. Il caro Allemagne non aveva fatto il bel lavoro che credeva: lei e la cara Vichy erano così simili, due creature nate da perversioni della volontà umane, da cambiamenti così radicali da non permettere all'umanità di riconoscerle come parte di qualcosa di più grande, ma come esseri a se stanti, come frammenti di follia in una storia ordinata, ma mentre lei, era fuoco che bruciava, la polvere da sparo su i fratelli, la lama che scendeva sul potere, la nuova arrivata era un'umiliazione che non sarebbe stata dimentica, una cittadina fatta di terme e regole imposte dallo straniero.

Si alzò, non un rumore se non il fruscio della seta contro seta ad ogni passo e quello sordo dei suoi tacchi sul pavimento, e senza fretta, il tempo non le sarebbe mancato mentre aspettava il ritorno di Lui,  si accosto anch'ella alla finestra.

"Forse è meglio lasciare questo argomento ad un altro giorno, non credete? Ora lasciatemi provarvi le mie  abilità, affinchè possa aiutarvi, esservi utile, io desidero solo servire la mia nazione, datemi questa possibilità e  non ve ne pentirete: vi darò tutta me stessa."

Il rossore su quelle guancie fu come un vino d'annata e un orgasmo, e Marianne allungò la mano, fino a sentire sotto i polpastrelli la camicia ruvida d'ordinanza e il calore delle pelle che parlava di ben poco ordine.

"P-perché dovrei?" La voce di Vichy che sussultava, il respiro in gola per trattenere un sospiro - un gemito - e le labbra socchiuse, così pallide e così diverse, mentre guardava lontano senza osare incontrare il suo sguardo furono tutto ciò di cui lei aveva bisogno.

"Perché sono nata per servire la Francia, mademoiselle Vichy, lasciate che faccia il mio dovere. Lasciate che io serva voi, così che io possa fare ciò per cui sono nata, s'il vous plaît..." La Francia, non una bambina con voce ed occhi stranieri ed il cuore prigioniero sotto il metallo.

"Va bene. Va bene, accetterò la vostra richiesta."

Marianne annuì e tolse la mano dalla schiena, appena inarcata, con un'ultima carezza: la ragazza - perché c'era per lei un'unica Nazione - tremò. Forse per il piacere o forse perché il fuoco che le ardeva sotto la pelle l'aveva abbandonata. Mistero di fede. Anzi, mistero di ragione.
Ora doveva solo attendere, attendere accompagnate da un’ode  fatta di carne e menzogne e passione, a Venere ed di far ardere occhi troppo chiari nella vacuità del piacere. Chissà quali parole avrebbe pronunciato sconnesse, quali gemiti avrebbero lasciato le sue labbra, che singhiozzi avrebbero fatto tremare la sua pelle e quale suono avrebbe prodotto il suo sangue mentre abbandonava le vene.

E senza aggiungere un parola, in silenzio, Marianne uscì dalla stanza, il passo leggero, il capo chino e le mani che le tremavano dal desiderio di stringere quel colo tra le dita fino a non sentirne più il battito.


Pazienza, Marianne, pazienza, alla fine tutto finisce, alla fine tutte le teste cadono.
   
 
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