A Voi.
No one is saved alone.
Quando
Harry si iscrive in quella strana agenzia spera tanto che non si tratti
della solita organizzazione che sfrutta la gentilezza delle persone per
arricchirsi. Ha fatto delle ricerche e sembra che la A.S.M.I.G (Agenzia
Supporto Militari in Guerra) sia davvero una agenzia che offre aiuto e
supporto, soprattutto morale, ai soldati in guerra.
Quando torna a casa con il portachiavi che lo identifica come membro dell'A.S.M.I.G sua madre è molto fiera di lui.
«È una bella cosa, Haz. Fai del tuo meglio, qualunque sarà la persona che ti verrà assegnata» gli dice, baciandogli la fronte, anche se deve alzarsi in punta di piedi per farlo.
«Non ti hanno ancora chiamato?» domanda
Eleanor, la sua migliore amica, mentre cerca di trovare la sua lettera
nel caos senza fine della sua borsetta. Il pullman frena all'improvviso
e Harry le passa un braccio intorno alla vita per non farla cadere.
Eleanor si rimette comoda sulle sue ginocchia e lascia che la tenga
saldamente: gli ovvi problemi dello stare seduti in due nel posto di
uno.
«Odio i pullman così pieni» sbuffa lei, lanciando un'occhiataccia all'autista e borbottando un «ma chi te l'ha data la patente?»
«El, ricordami di regalarti un trolley per Natale, in quella borsa non ci sta tutto quello di cui hai bisogno!» la prende in giro bonariamente.
«Taci Styles»lo rimbotta. «Eccola, l'ho trovata!» Eleanor apre la busta bianca e porge la lettera ad Harry, che la scorre velocemente.
“Niall J. Horan; 23 anni; Mullingar, Irlanda. Altezza: 178 cm;
occhi: azzurri; capelli: biondi; carnagione: chiara. Di stanza a Najaf,
Iraq. Genitori separati, un fratello maggiore sposato, un nipotino a
cui è molto legato. Ama: sport, Irlanda, buon cibo, famiglia,
calcio, cappellini da football, telefilm, boybands. Odia: guerra.
Nessun incidente subito fino al 3 c.m.”
«Conciso» commenta Harry quando finisce di leggere.
«Lo so» concorda
Eleanor, guardando la lettera, che ormai conosce a memoria, del soldato
a cui dovrebbe mandare un po' di sano affetto e supporto.
«È tutto qui?»
«No.» Eleanor tira fuori una piccola polaroid dalla busta e la porge a Harry con un sorriso tenero. «Era insieme alla lettera.»
La
foto ritrae un ragazzo con un gran sorriso sincero, un ciuffo di
capelli biondi sfugge da sotto il pesante elmetto e la pelle
chiarissima è bruciata dal sole dell'estremo Oriente. Tiene
sotto braccio un commilitone, così si intuisce dalla divisa
mimetica, ma che probabilmente milita nell'esercito iracheno, data la
suacarnagione più scura e la bandierina appuntata sul petto.
Sembrano
due normali ragazzi, di quelli che incontri ad una festa e ti offrono
da bere una pinta in allegria. Eppure dietro di loro si intravedono un
cartello trivellato di colpi di mitra, un carro armato con la bandiera
delle Nazioni Unite sulla fiancata e una tenda verde militare.
Voltandola, trova una scritta: “Niall e Zayn, 12.04.12”.
Harry
fissa a lungo la foto, facendo ipotesi su come si siano conosciuti Zayn
e Niall e immaginando migliaia di momenti che potrebbero aver vissuto
insieme. Si sente vicino ai due amici soldati e allo stesso tempo gli
sembra di invadere la loro privacy. In fin dei conti in guerra non ti
rimane molto altro se non i sentimenti, se riesci a tenerteli stretti.
«Fai del tuo meglio El, sembra un bravo ragazzo» dice Harry, un po' inquieto. La ragazza annuisce e gli lascia un bacio tra i capelli.
«Non ho voglia di andare a fare shopping, ti va un frullato?» gli
chiede poco dopo, quando sono riusciti finalmente a scendere
dall'autobus. Harry solleva lo sguardo dalla strada su cui l'aveva
fissato rimuginando sull'immagine di Niall e Zayn: qualcosa non gli
torna. Eleanor è una ragazza, ergo non rinuncerebbe mai a fare
shopping e per di più i frullati sono l'alimento preferito di
Harry, mentre lei pensa che siano solo una fonte di calorie.
«E la dieta?» chiede Harry.
«Oh, fanculo. Cioccolato e fragola? Alla salute di Niall e Zayn!» risponde Eleanor, prendendolo a braccetto e trascinandolo verso la gelateria preferita di Harry.
La lettera dell'agenzia per Harry arriva la prima metà di Novembre, «così che la lettera che scriverete arrivi al soldato prescelto in tempo per Natale» c'è scritto.
Harry ha le mani tremanti e la testa piena di idee che gli sfuggono una
dopo l'altra. La lettera è molto simile a quella di Eleanor,
concisa ed essenziale, gli basta uno sguardo per capirlo. Così
decide di iniziare dalla foto, sperando che anche per lui ce ne sia una
allegata. Questa volta non è una polaroid come quella di Niall e
Zayn, ma una minuscola fototessera: il piccolo spazio è occupato
dal viso di un uomo. Ha un accenno di sorriso sulle labbra fini che non
si estende fino agli occhi -di una sfumatura di azzurro intenso, nota
Harry. I capelli castani sono schiacciati da un berretto da parata
mentre il viso tondo è sfinato da un filo di barba. Harry si
accoccola sul suo letto, stringendo le ginocchia al petto e tenendo
alta la foto davanti al viso: lo guarda per ore. Non ha ancora letto la
sua scheda, non sa neanche come si chiama, semplicemente sembra voler
assorbire tutto quello che c'è dasapere su quell'uomo dal suo
viso.
La prima sera si addormenta con la foto del soldato sul cuscino e la
mente piena di perché sulla guerra che non avranno mai una
risposta.
Il
pomeriggio del giorno seguente Harry conosce a memoria la scheda di
Louis William Tomlinson, soldato di Doncaster di stanza in Afghanistan.
Ha
chiamato Eleanor per chiederle quale sia, secondo lei, il modo migliore
per fargli sapere che loro ci sono: la sua migliore amica gli ha
suggerito di scrivere qualcosa, in fin dei conti è la forma
consigliata dall'agenzia. Così Harry, la foto di Louis -
è confortante chiamarlo con il suo nome di battesimo- accanto al
foglio bianco, prova a buttare giù qualche idea. Si presenta,
dice qualcosa di sè, parla della stima che ha per lui e quello
che fa, accenna al tempo meteorologico e alla sua carriera scolastica
per poi tornare a elogiare l'operato delle truppe: alla fine il foglio
è pieno di cancellature e frasi così sconclusionate che
Harry lo accartoccia con rabbia, buttandolo sul pavimento.
Si addormenta sulla scrivania dopo aver lanciato contro il muro il
ventesimo tentativo di lettera. Louis lo veglia tutta la notte con il
suo sorriso appena accennato.
È
passata una settimana, il tempo stringe e Harry non ha ancora la
lettera per il suo soldato Louis. Nessuna delle cose che scrive sembra
andare bene e fatica ad esprimere in una frase coerente i suoi
sentimenti.
Perché
Harry è molto legato a quella questione: suo zio, a cui era
molto unito, è morto in guerra otto anni prima. Al tempo Harry
era troppo piccolo, ma sua madre faceva di tutto per far sapere al
fratello che a casa lo aspettavano tutti, che c'erano un sacco di
persone che gli volevano bene e che aspettavano il suo ritorno. Questo
lo ha spinto ad iscriversi a quella agenzia.
Probabilmente anche Louis vuole sentirsi dire quelle cose: parole
semplici che gli ricordino una routine che per lui sta diventando un
ricordo sbiadito, parole che lo facciano sorridere e parole di conforto
che lo aiutino a resistere. Harry non sa se quel qualcosa che lui farà sarà d'aiuto a Louis, ma spera tanto di sì.
È
a scuola adesso e gioca distrattamente con la cover del suo cellulare,
dentro la quale ha nascosto la foto di Louis. Non vuole perderla, ma si
è ritrovato ad avere bisogno di guardarla nei momenti più
disparati per cui da un paio di giorni la porta sempre con sé.
Il mezzo sorriso di Louis, paradossalmente, gli è familiare quanto quello di sua madre o di sua sorella.
«Haz, pranzi con me? Devo iniziare un progetto e mi avevi promesso una mano!» la
voce del suo migliore amico, Ben Winston - il ragazzo più grande
della classe con la passione per le polaroid- lo riscuote dal pensiero
di Louis.
«Te l'avevo promesso? Sicuro?» chiede Harry, fingendosi molto seccato. Ben sbuffa e, prendendolo per un braccio, lo trascina in mensa.
«Che progetto devi fare?» chiede Harry finendo di mangiare la sua merenda.
«Devo
girare un video per un concorso musicale della scuola. In poche parole
io entro dalla porta d'ingresso della scuola e filmo ogni persona che
incontro e queste persone devono cantare tutte la stessa canzone, sia
che si tratti del preside o dell'ultima matricola. Il video, una volta
montato, mi farà guadagnare sicuramente il primo premio!» dice Ben entusiasta.
«Non mi sembra una cattiva idea» commenta Harry. «Come mai un video?» chiede.
«Un video è più d'impatto» inizia a spiegare Ben. «Con
un video trasmetti allo stesso tempo la musica, che cattura
l'attenzione del pubblico, la parola, che mantiene l'attenzione e anzi
la accresce, e, ultime ma non meno importanti, le immagini. Le
immagini, amico mio, sono la carta vincente. Dando la
possibilità a chi ascolta di vedere anche
qualcosa, tutto sarà più interessante. Per non parlare
dell'impatto che danno sulle menti di chi guarda: con il linguaggio
spontaneo del corpo si possono trasmettere emozioni che contribuiscono
alla buona riuscita del progetto, che ti permettono di raggiungere il
tuo scopo» conclude Ben, le guance leggermente imporporate per l'entusiasmo.
Harry annuisce meccanicamente mentre fissa con crescente interesse la videocamera che Ben ha posato sul tavolo.
«Ben, sei un fottuto genio!» sbotta improvvisamente.
«Come scusa?» domanda Ben, sollevando su di lui uno sguardo confuso.
«Un video! Devo registrare un video!» esclama entusiasta. «Andiamo, Winston muoviti! Dobbiamo finire il tuo progetto entro e non oltre l'orario scolastico, stasera ho da fare!» Harry salta su in piedi e, afferrata la videocamera, si dirige verso l'entrata dell'istituto.
Quel
pomeriggio Harry è seduto sul bordo del suo letto davanti ad una
videocamera e ha tutta l'intenzione di trasmettere a Louis tutti i suoi
sentimenti.
«Louis? Louis stai bene?»
Voci concitate gli arrivano alle orecchie, appena udibili sopra un fischio che gli sta perforando il cervello.
«Feriti?»
«Porca troia.»
«Qualcuno mi aiuti!»
«Uomo a terra. Chiamate rinforzi.»
«Ce n'è uno anche qui. Respira ancora.»
«Rettifico: uomini a terra.»
«Louis?» È l'ultima cosa che sente.
Louis
si sente mancare l'aria e tossisce così forte che la gola sembra
in fiamme. Qualcuno gli solleva appena il capo e gli porta qualcosa
alle labbra. È un bicchiere pieno d'acqua. Louis non si era
accorto di avere così sete fino a quel momento. Deglutisce in
fretta e cerca di berne il più possibile: l'acqua sembra placare
il suo malessere diffuso per qualche momento perché appena
riposa la testa sul cuscino, si addormenta di nuovo.
«Tomlinson?» La voce del generale.
Louis
sente le ciglia intrecciate e le palpebre così pesanti da dover
dare fondo a tutte le sue poche forze per aprire gli occhi. La luce
è soffusa -per fortuna- e lui, ad una prima occhiata, si trova
all’ospedale. Strizza gli occhi e quando li riapre riesce a
mettere a fuoco la figura del generale: altezza media e baffoni, sembra
uscito da un libro di storia.
«G-generale» saluta.
Pronunciare quella parola gli costa più di quanto voglia
ammettere, ma bisogna sempre mostrarsi saldi di fronte ai superiori.
Interroga velocemente il suo corpo, constatando con piacere la presenza
di tutti e quattro gli arti, di tutte le venti dita e di entrambe le
orecchie.
«Tomlinson, finalmente! Cominciavamo a temere per il peggio.»
«Sto... È ok» strascica Louis, dandosi un'ultima occhiata veloce e non scorgendo bende troppo insanguinate.
La
sua memoria è frammentaria, non ricorda assolutamente come sia
arrivato nell'infermeria e ha solo qualche ricordo di ciò che
è successo prima.
Lui
e altri tre soldati sono scesi dalla camionetta, in un villaggio quasi
del tutto spopolato; ha il mitra carico. Ha fatto qualche passo tra le
case, notando i muri trivellati di colpi. Stan, alla sua sinistra, gli
ha fatto un cenno ed è entrato in una strada laterale. Nick e
Ed, alla sua destra, gli hanno indicato un bidone sospetto al bordo
della strada.
Ricorda i pochi passi per avvicinarsi, ricorda Ed lanciare un sasso per
accertarsi non ci siano mine antiuomo, ricorda Nick fare un passo
arrivando quasi ad un metro di distanza dal bidone.
Louis chiude gli occhi improvvisamente, con forza.
E poi? Cosa è successo poi?
«Louis?» ancora
la voce del generale che lo tiene ancorato alla realtà. Non
ricorda, il passo successivo sembra essersi cancellato dalla sua
memoria.
«Generale? Dove sono i miei compagni?» chiede con la voce incerta. Stringe un pugno.
«Sheeran e Grimshaw sono nella loro tenda, stanno bene, solo qualche ammaccatura» risponde, breve. Louis rilascia il pugno e, sempre ad occhi chiusi, umetta appena le labbra.
Poi un rumore di spari riempie la sua mente e, di riflesso, stringe
forte il labbro inferiore tra i denti, fino a farlo sanguinare.
«E Stan?» domanda
ancora, questa volta con la voce dannatamente flebile. Non osa aprire
gli occhi, ma sente il generale trattenere il fiato e poi, infine,
sospirare.
«Lucas è… Caduto durante l'imboscata» esala dopo un altro respiro.
Louis non riesce a trattenere un gemito. «Non Stan, non Stan, non Stan» ripete
nella sua testa. Non lo stesso Stan con cui ha condiviso l'adolescenza
e con cui si è arruolato. Non lo stesso Stan che gli ha coperto
le spalle prima con sua madre e poi in quella guerra.
Louis sente quel briciolo di umanità e sentimenti che gli erano rimasti andare in fumo come carta imbevuta di olio.
Il
fischio nelle sue orecchie è ritornato, più forte di
prima, e a questo si somma una raffica di mitragliatrice, fulminea e
letale.
Vede se stesso voltarsi al primo colpo, abbassarsi e correre, nascosto
da un muretto di mattoni che per fortuna riceve i proiettili al posto
suo. Non lo vede ancora. La mitragliatrice tace e finalmente riesce a
sentire un grido. Corre, badando di restare in vita, fino a quando non
vede il corpo di Stan, a terra, il mitra poco lontano.
Louis
probabilmente inizia a piangere, forse urla anche, poi un ago penetra
sottile e preciso nella carne morbida del polso e semplicemente smette
di pensare.
L'inattività forzata a cui lo hanno costretto delle schegge di
lamiera nelle gambe e una costola incrinata non gli permette di sfogare
il suo dolore e così Louis si chiude in sé stesso, mangia
il minimo necessario per accontentare i medici e non parla con nessuno
se non per chiedere dosi extra di sedativi. I sedativi lo aiutano:
chiude gli occhi e aspetta che quelli spengano il suo cervello. I
pensieri sono troppi, alle volte troppo confusi, alle volte troppo
chiari, ma il risultato finale è sempre lo stesso: sofferenza. E
Louis è arrivato a sentirsi in colpa anche per quella
sofferenza, perché è vero che sta male e il dolore delle
volte è insopportabile, ma almeno lui prova qualcosa, quindi
significa che è vivo.
Lui è vivo e il suo migliore amico non lo è più.
Ha anche smesso di chiamarlo per nome, sia nei suoi pensieri che con le
poche persone che gli hanno fatto domande a proposito dell'accaduto.
Quel nome così familiare, così semplice, di cui aveva
abusato quando lui era in vita, adesso non riesce a sputarlo fuori.
Gli
hanno mandato una psicologa -una ragazza bionda con gli occhi azzurri
incastrata in una divisa militare e che fatica a camminare con gli
anfibi- che il primo giorno gli si è solo seduta accanto, ad
occhi bassi, senza dire nulla. A Louis ha suscitato simpatia,
soprattutto per il suo rispetto, ma ha subito represso quel sentimento.
Il secondo giorno la psicologa si è presentata - «Sono Perrie, vengo dall'Inghilterra anche io.»- e gli ha teso una mano che Louis ha solo guardato, poi sono rimasti in silenzio.
Perrie
è venuta a trovarlo per tre giorni, aggiungendo ogni giorno una
frase in più, ma Louis non le ha mai risposto. Vorrebbe,
Perrie non gli ha fatto nulla di male, ma sa che dopo lei gli farebbe
altre domande, e alla fine gli chiederebbe di parlare di lui e Louis non vuole.
È il 14 Dicembre e anche il quarto giorno che Perrie si presenta in infermeria.
La
prima cosa che i soldati in territorio di guerra imparano è
dormire con un occhio e mezzo aperto, e questa abitudine salvavita non
sparisce solo perché si è costretti in un ospedale, anzi
spesso non sparisce neanche quando si torna a casa. Per questo Louis
ormai riconosce il suono irregolare degli anfibi di Perrie sulle
pianelle, ma quella mattina c'è qualcosa di strano.
«Buongiorno a tutti!» esclama
allegra la psicologa. Sulle spalle ha un sacco di juta dall'aria non
molto pesante e sia Louis che gli altri soldati nel camerone la
guardano confusi.
«Lo so» inizia «di solito arrivo in silenzio, non faccio saluti plateali e al massimo porto con me il velo e una bottiglia d'acqua.»
Il soldato più vicino a lei ridacchia: Louis osserva che Perrie
quella mattina sembra il sole, è raggiante e ha portato un
sorriso a tutti.
«Che hai nel sacco, Pez?» chiede
Irwin, un ragazzetto dall'aria così innocente che Louis lo
rispedirebbe a casa subito per evitare che si metta in pericolo, ancora.
Perrie intanto ha posato il suo fardello e sta passando uno sguardo malizioso su tutti i presenti.
«Secondo voi?» indaga, allargando il sorriso.
«Cioccolato?» risponde un primo.
«Sigarette? Se sono sigarette dillo subito perché ne ho bisogno più di questa maledetta aria!»
«Libri?»
«Musica?»
«Una radio per ascoltare la cronaca dei mondiali?»
«Carta e penna?»
«Se sono giornaletti porno mi dissocio.»
Ognuno ha detto la sua, suscitando, chi più chi meno, l'ilarità dei commilitoni.
«Secondo te cosa c'è nel sacco, Louis?»
Quello,
sentendosi interpellato, guarda un po' stralunato la psicologa che
attende una risposta, così come gli tutti gli altri.
Si
schiarisce la gola, ma non riesce a spiccicare parola: non ha idea di
cosa ci sia in quel dannato sacco e gli è passata anche la
curiosità di scoprirlo.
Perrie intuisce il suo cambio d'umore, perché torna a rivolgersi al resto del suo pubblico.
«Tra un po’ è Natale giusto?» esordisce.
Louis,
a quella parola, sprofonda la testa nel cuscino. Dalle brandine si
solleva un coro si giubilo e fischi che Perrie mette a tacere con un
cenno.
«Una
società no profit inglese ha organizzato una speciale iniziativa
per voi, proprio in occasione del Natale. Hanno mandato le vostre
cartelle alle persone che hanno scelto di aderire e queste vi hanno
mandato dei regali. Sono soprattutto lettere, insieme ad alcune foto,
qualche video e, il mio preferito, una dedica scritta sulla carta per
avvolgere una barretta di cioccolato!»
Sulle
prime i militari rimangono in silenzio, sinceramente sorpresi da quello
slancio di affetto incondizionato, tanto più che proveniente da
persone sconosciute.
«Dici sul serio, Pez?» chiede Irwin -Ashton- con la voce flebile. Sembra ancora più bambino in questo frangente.
«Sono serissima» risponde la psicologa con un sorriso dolcissimo. «E la barretta di cioccolato con dedica è proprio la tua, Ash!»
Il ragazzo si illumina immediatamente, spinge appena con le gambe per
potersi poggiare con la schiena al cuscino e rivolge un enorme sorriso
a Perrie.
La voce gli si spezza appena sull'ultima lettera quando «Da Michael» legge sul retro della tavoletta, appena lei gliela porge.
«Aprila, su» lo incoraggia Perrie.
Guardarlo
mentre cerca di scartarla per leggere la lettera al suo interno
è uno strazio per tutti: nonostante le fasciature gli
impediscano di usare le mani lui si impegna disperatamente per riuscire
in quel l'impresa. Aprire quella busta significa dimostrare a sé
stesso che ce la può ancora fare.
Ashton
è un artificiere. È rimasto ferito insieme ad un amico
durante il disinnesco di una mina antiuomo; il ragazzo ha perso due
dita della mano destra e tre di quella sinistra e, parzialmente, anche
l’udito.
Sta litigando con l'involucro da ormai troppo tempo, il suo sorriso
entusiasta si è spento in un'espressione frustrata che diventa
disperata quando, con un suono secco, la tavoletta si spezza. Ashton la
fissa, piegata innaturalmente tra le sue mani inerti, con gli occhi
sgranati che si vanno velocemente a riempire di lacrime.
«Faccio io, posso?» Si
intromette pronta Perrie. Scarta velocemente la tavoletta e gli porge
la lettera: sembra davvero molto lunga, Louis conta almeno cinque fogli
scritti fittamente fronte e retro. Ashton li tiene con le mani
tremanti, poi solleva lo sguardo e «Pez, puoi chiudere, per favore?» sussurra.
«Certo piccolo» risponde Perrie, e si affretta a chiudere le tendine attorno alla sua brandina, lasciandogli un po'di intimità.
L'entusiasmo
nato dopo l'annuncio di Perrie è svanito nel nulla e la
psicologa stessa, adesso, consegna i regali ai destinatari senza
soffermarsi in battute e risate, come sicuramente aveva progettato di
fare.
Lascia Louis per ultimo.
«Il tuo è il video» esordisce. «Ha mandato anche il necessario per guardarlo.»
Louis fa tanto d'occhi e Perrie si affretta a precisare: «Non è nulla di che, solo un piccolo Ipod con questo video e qualche canzone, il caricabatterie e degli auricolari.»
Louis
è ancora più sbalordito: chi è questo pazzo
benefattore che manda in Iraq un Ipod solo per fare gli auguri di buon
Natale ad un soldato? Perrie gli consegna la scatolina contenente
ciò che già gli ha elencato e Louis se la rigira tra le
mani.
«Puoi chiudere anche qui?» borbotta infine Louis.
Perrie annuisce.
Tutti i soldati hanno chiuso le tendine, nessuno è pronto a mostrarsi in un momento di debolezza.
Durante
il pomeriggio Louis ha sentito qualche singhiozzo e qualche piccolo
grazie sussurrato al nulla, così sincero da far venire il magone.
Invece
lui non ha neanche scartato il suo regalo, figurarsi se ha provato
qualche moto di gratitudine verso il misterioso mittente.
Però
ha osservato attentamente la scatola: la carta che la avvolge è
azzurra e decorata con degli arabeschi bianchi, piegata con cura negli
angoli, fissati con piccoli pezzi di scotch, e tenuta insieme da un
nastro argentato arricciato su un lato. I riccioli sono stati
schiacciati, probabilmente durante il trasporto, ma Louis, nel
complesso, lo trova davvero carino.
Cerca
un bigliettino o una scritta che gli facciano capire almeno il sesso
del mittente, ma non lo trova. Così fa delle supposizioni: il
pacchetto è fatto bene ma non è perfetto mentre la carta
ha un tocco femmineo.
Louis
trascorre quasi un giro d'orologio a pensare a come sia il mittente del
pacchetto, e si accorge a malapena di essere scivolato nel sonno.
Quella è la prima notte in cui il pensiero di Stan lo tormenta solo dopo essersi addormentato.
Attaccato
sulla scatola trova il primo vero bigliettino: un piccolo post-it con
su scritto “Per Louis”. La grafia è rotondeggiante e
un po' sbilenca, gli ricorda il modo di scrivere sbrigativo degli
studenti durante una lezione.
Se
dovesse fare un’ipotesi, direbbe che si tratta di una mano
maschile, ma non è mai stato bravo con gli indovinelli.
Dopo
due giorni Louis, aperta anche la scatola, ha finalmente trovato il
coraggio di accendere l'Ipod e guardare il suo video, ma non appena
stacca il polpastrello dal pulsante di accensione sullo schermo
appaiono una batteria rossa e la scritta “collegate il
caricabatterie”.
Sbuffa sonoramente e gli scappa pure una mezza bestemmia.
Si
rigira un paio di volte tra le mani quell'insulso affarino prima di
decidersi a prendere il caricabatterie dalla scatola. Non se lo
aspettava ma quest'ultimo sembra abbastanza rovinato: ha un paio di
giri di nastro bianco isolante su un paio di punti. Con ancora
più disappunto scopre che vicino a lui non c'è una presa,
così è costretto ad aspettare Perrie e chiederle di
attaccarlo da qualche parte.
«Ne ho trovata solo una in corridoio, te lo riporto quando torno per il giro serale, ok?» dice
lei. Louis si finge noncurante ma per un attimo gli passa per la mente
l'idea che se qualcuno tocca “l'insulso affarino” ne
risponderà a lui.
In due giorni non ha pensato al suo migliore amico per ben quattro ore.
«Ecco a te, Louis. Ora dovrebbe funzionare» dice
Perrie porgendogli Ipod e filo bianco. Louis prova sollievo nel vederlo
sano e salvo ma, non sa neanche lui il perché, non vuole
mostrarlo.
«Uhm» grugnisce, spostando lo sguardo altrove. «Lascialo sul comodino.»
Perrie però rimane al suo posto, ancora con il braccio teso verso di lui.
«Per favore» aggiunge
Louis, pensando si tratti solo di mancata buona educazione, ma Perrie
solleva le sopracciglia e gli indica l'Ipod con lo sguardo.
«Lascialo sul comodino, per favore» ribadisce.
«Dovresti proprio guardarlo, invece» mormora
Perrie sibillina. Louis solleva di scatto la testa, come se la
psicologa gli avesse rovesciato addosso un secchio d'acqua gelida.
«L'hai aperto?» sibila.
C'è un tono minaccioso nella sua voce e, in effetti, si sente
parecchio arrabbiato. Violato, soprattutto. Aveva iniziato a
considerare “l'insulso oggettino” come un segreto solo suo,
mentre adesso qualcuno l'aveva violato. Con uno scatto strappa l'Ipod
dalle mani di Perrie e lo nasconde sotto il cuscino.
«Oh, no, no, no! Non ho guardato nulla» si affretta a spiegare Perrie. «Semplicemente quando l'ho staccato dal cavo di alimentazione è apparso il salvaschermo e... bè...» le
sue parole, da appassionate, diventano un borbottio. Louis si sente
appena più sicuro, ma è anche nervoso per aver permesso a
se stesso di reagire così aggressivamente.
Sta dando troppa importanza a qualcosa che invece non ne ha.
Louis non tocca più l'insulso oggettino per due giorni, e chiede di nuovo una dose extra di tranquillanti.
Louis
è intento a fissarsi la punta dei piedi da almeno un'ora; se si
concentra riesce persino a spegnere il cervello, cosa che gli dà
un estremo sollievo, in quei giorni.
La voce del suo vicino di branda -tale Payne- lo riscuote.
Louis grugnisce e si volta. «Sì» risponde di mala voglia. Payne lo accoglie con un allegro sorriso sul viso pallido.
«Vuoi un pezzetto di cioccolato?» chiede lui, minimamente turbato dai modi da orso di Louis. «Ashton ha voluto dividerlo con noi.»
Louis
abbassa lo sguardo e in effetti Payne gli sta porgendo un vassoietto
dorato su cui spiccano, come pietre preziose in un forziere pirata
colmo di ricchezze, quadratini di cioccolato.
Qualcosa in lui si smuove: avere a portata di mano quel lusso,
così raro in tempo di guerra, lo riscuote dal suo stato
apatico.
Per la prima volta da quando è stato ferito non si deve imporre
di mangiare per compiacere i medici ma vuole farlo solo per puro
piacere.
«Dai, Tommo, guarda che lo finiamo tutto noi» ride Payne, sporgendosi dalla branda per avvicinargli il vassoio.
Louis sembra in stato confusionale e, se non avessero tutti dei
fantasmi con cui convivere, forse il suo comportamento sarebbe
irritante. Invece Payne aspetta pazientemente, in quella posizione
scomoda, che Louis si decida ad allungare la mano.
Louis per un secondo passa lo sguardo dal suo camerata al vassoio alla
sua mano, abbandonata sul copriletto azzurrino. La fissa e, nella sua
mente, sembra chiederle di muoversi, persino per favore. Reagisce
rapidamente, cosa di cui lui stesso si stupisce, e la sua mano esita
appena sopra il vassoio dorato prima di individuare un pezzo che gli
piace e afferrarlo.
Payne dice qualcosa, qualcun altro gli risponde, ma Louis non ci bada.
Si sente un po' ridicolo ma... È emozionato per un quadratino di cioccolato!
Era ancora un bambino l'ultima volta che si è emozionato per una
piccolezza simile: allora aveva otto anni e aveva appena ottenuto un
bastoncino di zucchero filato.
Il calore delle sue dita inizia ad ammorbidire il cioccolato, che dal colore sembra al latte -neanche il suo preferito.
Un piccolo sorriso gli increspa il viso mentre lo avvicina alla bocca:
raschia appena un bordo con i denti, perché vuole goderselo.
Subito percepisce il dolce stuzzicargli il palato. Sarà che non
ne mangiava da quasi sei mesi, sarà che nelle ultime settimane
è andato avanti per inerzia, fatto sta che le sue papille
gustative sono in fibrillazione.
Le piccole scagliette di cioccolato che ha tagliato si sciolgono a
contatto con la lingua e Louis sente la salivazione aumentare
istantaneamente, mentre anche il suo stomaco gorgoglia impaziente.
Allora ne morde un bel pezzo, quasi metà, felice davvero come un
bambino, mentre tutta la bocca è pervasa dal sapore corposo e
pieno del cioccolato. Non lo mastica, aspetta che gli si sciolga in
bocca e poi inghiottisce con un sospiro. Fa lo stesso con la
metà restante e alla fine si lecca anche il residuo che è
rimasto sulle dita.Sente come una scossa di piacere e, guardandosi le
braccia, nota di avere la pelle d'oca.
«Grazie, Ash» dice,
a voce abbastanza alta affinché lui lo senta. È la prima
volta che rivolge per primo la parola a qualcuno da quando è
stato ferito. Ashton gli sorride e gli fa un cenno con il braccio
ingessato.
Al primo infermiere che passa, Louis chiede di chiudere le tendine.
Louis ha ancora il sapore del cioccolato sulle labbra e ha tirato fuori
l'Ipod da sotto il cuscino. Lo ha poggiato sul copriletto, con lo
schermo rivolto verso il basso, ma tiene il pollice sul tasto rotondo.
«Spero che la batteria sia ancora carica» pensa.
Un pensiero futile, con il quale pensa di nascondere a se stesso
l'ansia per quello che sta per
vedere.
Gli è decisamente sfuggito il momento in cui è diventato
così importante il video di quello sconosciuto- o sconosciuta,
ancora non è sicuro.
Ma l'essere riuscito a fare qualcosa solo per il gusto di farlo e non
perché imposto, lo ha scosso talmente tanto da sentirsi pronto a
quel passo.
Ha i muscoli così tesi che fatica a coordinare i movimenti,
così, con uno scatto che non aveva proprio programmato, il suo
pollice preme il bottoncino. Louis vede una piccola lucina illuminare
il copriletto.
«Dai, Louis, male che vada sarà una di quelle immagini trash da pagina Facebook» si dice ancora.
La lucetta si è rispenta, così Louis si porta l'Ipod davanti al viso, e ripreme.
Il primo istinto che gli viene è quello di chiudere gli occhi,
ma si impone di non farlo e fissa con intensità lo schermo, ora
illuminato.
Ciò che vede lo confonde e lo turba, gli procura tante emozioni
in un unico nanosecondo da fargli socchiudere la bocca e risucchiare
tutta l'aria possibile.
Niente immagini trash o paesaggi o macchine o pin-up dallo sguardo
malizioso: quello che lo guarda dallo schermo dell'Ipod è un
ragazzo. Un bambino, non esiterebbe a definirlo sua madre, ma Louis
è uscito dall'adolescenza abbastanza di recente da saper ancora
riconoscere uno di loro. E quel ragazzetto-preferisce definirlo
così, è una buona via di mezzo- sicuramente naviga ancora
tra libri, autobus, bulletti e occhietti dolci alla ragazza più
bella della scuola.
Louis preme convulsamente il tastino dell'Ipod, per paura che quel
mezzobusto sparisca dalla sua
visuale.
Lo osserva con l'attenzione che generalmente si dedica ad un quadro
d'autore, cercando di scorgerne ogni sfumatura. Sul suo viso da
adolescente, completamente glabro, incorniciato da una massa di
riccioli scuri, spicca una bocca color ciliegia appena socchiusa, che
custodisce una fila di denti d'avorio e la punta della lingua, ed
è la probabile causa -così Louis immagina- della fossetta
appena accennata sulla guancia sinistra. Altro particolare, impossibile
da non notare, sono gli occhi, occhi così grandi e così
verdi e limpidi da non poter appartenere ad altri che ad una persona
spensierata.
Gli dà una forte sensazione di pace guardare quegli occhi.
Qualsiasi sia la sua storia Louis è sicuro che nessuno
oserà mai fargli del male, perché sembra una creatura
venuta sulla terra per restituire speranza nella vita.
Un istinto irrefrenabile lo spinge ad associare la figura nello schermo
al pezzetto di cioccolato che ha appena mangiato: gli hanno fatto lo
stesso effetto, lo hanno riscosso dall'apatia. In effetti non
gli era mai capitato di fare tante supposizioni su uno sconosciuto, che
per di più vedeva solo in foto, come non gli era mai capitato di
immaginare che tanto bene potesse risiedere dentro una persona sola.
Non
è mai stato uno di quelli convinti che dentro ogni essere umano
ci sia del bene, quelle sono le sue sorelle, ma loro non si sono ancora
affacciate alla vita. Al contrario, lui, per i suoi ventitré
anni -tra qualche giorno ventiquattro- ha visto quel genere di cose che
si imprime indissolubilmente sulla pelle. Ma non a fuoco, no, se si
imprimessero con il fuoco sarebbero delle ustioni ben visibili,
delineate da linee nette e scure, e basterebbe sollevare la manica di
un maglione o il risvolto di un pantalone per mostrarle agli altri;
parlerebbero quelle bruciature al posto di chi le porta. Invece
quelle che sente di portare Louis addosso sono cicatrici disegnate con
l'inchiostro simpatico, visibili solo al buio. Quando il caporeparto
passa a dare la buonanotte e a spegnere la luce, quando anche il
soldato di guardia si concede di chiudere gli occhi, appoggiato al suo
fucile, quando il silenzio sovrasta il respiro composto dei suoi
commilitoni, quando dal vetro antisfondamento delle due piccole
feritoie un raggio di luna lotta senza successo per entrare, allora
anche Louis riesce a vedere le cicatrici che solcano il suo corpo.
Sembra che un bambino si sia divertito a riempire ogni centimetro della
sua pelle di linee argentate, peccato che non ci sia niente di gioioso
in esse: ogni millimetro di quelle linee è un dolore invisibile
dentro di lui.
L'inchiostro simpatico ha la cattiva abitudine di apparire solo al
buio, e al buio, si sa, si è soli. Perciò Louis non ha
bruciature che raccontano una storia: se vuole, quella storia la deve
raccontare lui, con la sua
voce.
Louis non sblocca lo schermo, non cerca il nome del ragazzo, guarda
solo la foto fino a quando la batteria dell'Ipod non è
completamente scarica.
Quella
notte sogna di averlo davanti, vestito con la giacca nera, la maglia
grigia e la borsa in spalla, come nella foto. Semplicemente lo guarda
fino a quando alle sue spalle non compare una seconda figura: è
il suo migliore amico, ma non guarda lui, come faceva di solito nei
suoi sogni- incubi, adesso fissa il ragazzo riccio.
Ed e Nick sono appena andati via dalla camera dell'ospedale in cui si
trova. Appena entrati, Louis ha notato due cose: Ed è ancora
più pallido di quando viveva in Inghilterra e il sole lo vedeva
solo sotto forma di adesivo attaccato alla sua chitarra e Nick ha perso
quel guizzo nei modi di fare e nel parlare che aveva spinto Louis prima
a volergli spaccare la faccia e poi a ridere a crepapelle per le sue
imitazioni di Bella Swan di Twilight.
Si erano presentati in pantaloni mimetici, anfibi e maglia verde con il
cognome appuntato sul cuore e, dopo un breve saluto a Perrie, dalla
quale probabilmente erano in cura anche loro, avevano camminato spediti
verso la brandina di Louis.
Il colloquio con i suoi amici, o meglio con le persone a cui affidava
la sua vita durante le missioni, era stato formale e composto, con le
domande di rito al momento giusto, qualche aggiornamento sul meteo e
sull'andamento della guerra per il convalescente e, infine, la promessa
di tornare presto a trovarlo e l'augurio di rimettersi in fretta.
Louis pensa tutto il pomeriggio ad un aggettivo per definire quel
colloquio ma ce n'è uno solo che gli martella il cervello:
arido.
Non vuole credere che si sia tutto inaridito fino a quel punto, ma la
realtà dei fatti è stata come uno schiaffo in piena
faccia.
La consapevolezza della perdita del suo migliore amico ritorna
prepotente, con il suo bagaglio di emozioni, soprattutto sofferenza,
dolore e insicurezza.
Louis chiede una mezza dose di sedativi, ma mentre aspetta di cadere
nel sonno guarda lo schermo del suo Ipod, con gli occhi verdi del
ragazzetto che inondano tutto il suo campo visivo.
Lo
stesso Louis che, ad un giorno dal suo compleanno e a due da Natale,
non ha ancora avuto il coraggio di aprire il suo video-regalo. Anche
adesso, esplora ogni singolo anfratto dell'inutile oggettino pur di
evitare la cartella “video”, che sembra spiccare tra le
altre con la sua bella icona di viola brillante.
I
primi giorni era troppo preso dalla foto del ragazzino, poi ha
cominciato a dirsi di voler aspettare,perché in effetti è
un regalo di Natale ed è meglio aprirlo quel giorno.
La
verità, che ovviamente Louis stesso si guarda bene di ammettere
anche a se stesso, è che non sa cosa aspettarsi e questo lo
rende nervoso, per cui è molto più semplice inventare
qualche scusa o voltarsi da un'altra parte.
Quella
mattina Perrie gli ha chiesto se aveva voglia di alzarsi dal letto e
Louis ha risposto di sì. Indossa pantaloni e maglietta, ma deve
rinunciare agli anfibi, perché pesano troppo. Nella tasca
esterna mette l'Ipod, perché sentire quel piccolo peso addosso
gli infonde un po' di coraggio.
I
primi passi sono incerti, sia perché le ferite provocate alle
gambe dalle schegge di lamiera erano molto profonde e non si sono
ancora rimarginate sia perché gli gira la testa, ma alla fine,
con l'aiuto di Perrie e di una stampella, riesce ad uscire dalla stanza.
Il
corridoio continua per metri e metri sia alla sua destra che alla sua
sinistra e il pavimento azzurrino è descrivibile solo con
l'aggettivo “ospedaliero”.
«Guarda, finalmente qualche faccia nuova» cinguetta Perrie, «ormai conoscerai alla perfezione ogni centimetro della faccia di Liam» conclude ridacchiando.
«Di chi?» chiede
Louis. Avrebbe voluto ascoltarla con più attenzione, ma per un
momento, uscito dalla sua stanza, è stato sopraffatto dal
conflitto tra la gioia per la piccola libertà conquistata e la
consapevolezza che fuori da quelle quattro mura c'è ancora un
mondo, che è andato avanti senza di lui.
«Liam!» risponde lei con fare ovvio, «Liam Payne, il tuo vicino di branda.»
«Ah, sì» dice atono.
Perrie, mezzo nascosta sotto il suo braccio, solleva la testa per
guardarlo. Non l'ha detto né agli altri né tanto meno a
Tomlinson, ma quella è la sua prima missione e Louis è il
suo primo vero paziente e sta cercando di fare di tutto per aiutarlo,
ma fare breccia nella sua corazza sembra un'impresa impossibile.
Eppure, da quando si sono visti la prima volta, ha deciso che non si
sarebbe arresa con lui, perché -e questo glielo ha insegnato sua
nonna e non il professore- le persone che sembrano più forti
sono in realtà quelle che hanno più bisogno di qualcuno
che le ascolti.
«Quando sei stanco dimmelo, così torniamo indietro» soggiunge
allora la psicologa, continuando a fissare il suo profilo dal basso:
deve aver serrato i denti, perché la mascella è un'unica
linea contratta.
Louis
sente la mano di Perrie carezzargli il fianco, incoraggiandolo, ma sa
che in qualunque direzione si muoveranno incontreranno altri soldati,
altre storie, altra sofferenza, e, anche se è un pensiero
egoista, non riuscirebbe mai a farsi carico anche delle
difficoltà altrui.
Così solleva lo sguardo e, davanti a lui, alta e trasparente, c'è una finestra. «Avviciniamoci alla finestra, Pez, per favore» dice Louis, muovendosi già in avanti.
Louis posa le mani sul marmo freddo del parapetto e il respiro arranca su per la gola mentre litiga con la maniglia per aprirla.
«Louis non sono sicura che si possa...» prova Perrie, venendo completamente ignorata.
Louis
si sente come in apnea, e l'unica cosa che deve fare adesso è
aprire quella dannata finestra. Quando alla fine il meccanismo un po'
impolverato decide di collaborare Louis spalanca entrambe le ante,
butta fuori la testa e prende il respiro più profondo della sua
vita.
L'aria dell'Afghanistan è polverosa, afosa, bollente come un bacio, e Louis la respira a pieni polmoni.
Ricorda
che appena atterrato su quella terra, quando il portello dell'aereo si
era aperto, la prima folata d'aria gli aveva bruciato la pelle del
viso, screpolato le labbra e seccato la gola. Ora la accoglie come una
benedizione: era dannatamente stanco di quell'aria forzata nelle
condutture. Quella che respira adesso solletica il naso, attiva le sue
terminazioni nervose e riporta alla mente ogni piccolo ricordo vissuto
in quei luoghi.
Cerca
di spaziare anche con la vista, ma di fronte a lui c'è solo una
parete grigiastra con tante file di finestre. Così guarda in
alto e si concentra sul cielo azzurro del pieno della mattinata
Rimane
un poco così, respirando sempre più piano e con lo
sguardo sempre più perso, finché una vocina non gli
chiede: «Come è il tuo regalo?»
Louis aggrotta le sopracciglia, si morde l'interno della guancia ma non smette di guardare lontano. Perrie tace.
«Io...» A
lei può dirlo, non andrà certo a spifferarlo a qualcuno
-anche ammesso che qualcuno possa essere interessato al suo piccolo
regalo di Natale- eppure è così difficile aprire la bocca
e far vibrare le corde vocali in quel momento.
In
fin dei conti Louis è in cura da lei perché i suoi
superiori hanno ritenuto necessario affidarlo ad una psicologa, dopo il
trauma della perdita del suo migliore amico.
E allora perché Perrie gli chiede del video? Anche lei, come Louis, sta perdendo di vista il suo vero obbiettivo?
Louis
non deve pensare ad un ragazzino sconosciuto dagli occhi verdi, il suo
migliore amico non merita di essere messo da parte così
velocemente e per un motivo così inconsistente.
«Non l'ho ancora visto» borbotta alla fine Louis. Perrie sembra confusa.
«Mi chiedi ogni giorno di ricaricare l’Ipod» inizia la ragazza, «se non guardi il video, come consumi la batteria?»
Louis si volta, stupito: Perrie è una specie di Sherlock Holmes in gonnella e nessuno lo ha avvisato? Quasi ridacchia.
«Guardo... Io guardo le sue foto» chiarisce.
«Sue di chi? » Louis
arranca dietro le domande della psicologa: per quante risposte riesca
faticosamente a darle lei ha sempre pronta una nuova domanda da
porgergli.
Deglutisce e «Sue del ragazzino che ha mandato il video» dice, «o almeno presumo che sia lui.»
Perrie piega appena la testa di lato. «Com'è?»
Louis si chiede che diavolo di domanda sia quella.
«È... È un ragazzino. Ha i ricci scuri, la pelle chiara e gli occhi verdi.»
La psicologa si picchietta un dito sul sorriso appena accennato. «Sembra bello, descritto così.»
Di
quello sconosciuto Louis ha pensato tante cose da quando il suo
mezzobusto gli si è impresso nella mente, ma non si è mai
soffermato a definirlo bello. Tocca di sfuggita la tasca
laterale del pantalone dove ha riposto l'Ipod: non l'ha mai definito
bello perché è una constatazione troppo ovvia.
La ruga sulla fronte di Louis non accenna a distendersi.
«Immagino di sì» risponde laconico.
«Come si chiama?» insiste Perrie. Sembra che la sua missione del giorno sia bombardare Louis al limite del metaforico.
«Non lo so.»
«Come non lo sai?» Salta su Perrie, «Il nome è probabilmente la parte più importante di una persona.»
Louis le dà immediatamente ragione.
«Senti,
forse quel video dovresti guardarlo: ormai è quasi Natale, tutti
i tuoi compagni hanno scartato il loro regalo, manchi solo tu» dice dolcemente la ragazza.
Louis
vorrebbe dirle che muore dalla curiosità di sapere il nome del
ragazzetto e sentire il suono della sua voce e vederlo muoversi e
respirare, ma ha paura, di cosa non lo sa davvero, e tace.
«Sono un tipo tradizionalista, i regali la mamma ce li faceva aprire solo il venticinque mattina» sdrammatizza lui, con un sorriso che deve incoraggiare più lui che Perrie.
«Ma il tuo compleanno è domani, considera quel video un regalo per questa occasione e guardalo domani!» insiste la psicologa.
Louis trattiene il fiato, perché il ragionamento di Perrie fila benissimo. «Accompagnami alla branda, sono stanco» conclude, e Perrie annuisce abbassando la testa.
-Armeggia con il cellulare, poi ne tira fuori una fototessera.- Mi
hanno dato anche una tua piccola -piccolissima, a dire il vero, guarda,
ci sta nella custodia del telefono!- foto, per questo te ne ho lasciata
anche una mia sull'iPod, nel caso volessi vedere la mia faccia prima di
vedere il video. Sarei curioso di sapere se hai guardato subito il
video o meno. Nella foto sembri fiero, con un pizzico di orgoglio misto
a felicità, mi piace!–Louis si fa appena più
vicino allo schermo: ha sentito bene? Harry sembra andare letteralmente
a fuoco e cerca di salvare il salvabile.- Voglio
dire, la foto mi piace… Ti immagino come un ragazzo volenteroso
che un giorno ha ricevuto una e-mail e una mattina ha preso il suo
borsone, ha abbracciato la madre e le sorelle -la tua scheda dice che
hai ben cinque sorelle, complimenti! Io ne ho una, è quella
nella foto che ti ho lasciato in galleria, faccio finta di essere
annoiato dalla sua preoccupazione nei miei confronti ma in
realtà è la mia persona preferita sulla terra - dicevo?
Ah sì, e poi magari hai anche dato un cinque al tuo fratellino e
sei uscito di casa. Le motivazioni che spingono ad arruolarsi possono
essere varie, ma non si sceglie di combattere per la Patria senza
amarla almeno un po', vero? E non intendo le colline verdi e questa
dannata pioggia che cade praticamente il novanta percento dell'anno,
impedendoci di abbronzarci, no. Bè in realtà... Forse
è anche quello, ma questo paese è composto da tutte le
persone che lo abitano, e quindi tu combatti anche per loro. Per noi,
anzi. Conoscere personalmente –sì, so che non ci
conosciamo davvero personalmente ma aver dato un volto e un nome
concreti ad uno di voi ragazzi che state lì e combattete per
noi... Mi fa sentire al sicuro. –Fa
una pausa. Louis assorbe le sue parole e si sente in subbuglio. Harry
ha abbassato il tono di voce, ora è cadenzata e salda, deve
essere entrato nel vivo del suo discorso e lui, allo stesso tempo, non
vede l’ora di ascoltarlo e ne è spaventato.- E
anche grato. Grato perché fai il mestiere più vecchio del
mondo, che rimane tuttora uno dei più pericolosi e difficili.
Rischi la vita ogni ora di ogni giorno, in un paese straniero, lontano
da casa e dagli affetti e pure da questa dannata pioggia. E forse
quando sei da solo nella tua brandina e tutti dormono ti chiedi
perché hai fatto questa scelta, se a casa pensano a te, se a
qualcuno di noi che andiamo avanti con le nostre vite e facciamo drammi
di futili problemi interessa qualcosa di te. Ebbene ecco il primo
motivo per cui sono qui: ci interessa, a me interessa. Io voglio dirti
a chiare lettere che, pur non essendo la tua famiglia, mi interessa di
te, di saperti sano e salvo.Se ti chiedi il perché è
qualcosadifficile da capire e quasi impossibile da riferire a parole:
è un legame tra qualunque persona e voi soldati, perché
tu stai compiendo una missione che comporta un sacrificio immane e io,
che sono qui nella mia casa, al caldo, desidero ripagarti come posso,
offrendoti la mia gratitudine e il mio supporto incondizionato. –Nessuna
parola al mondo servirebbe a spiegare quello che Louis sta provando,
perché dare voce ai suoi sentimenti è sempre stato
terribilmente difficile per lui mentre Harry lo fa con naturalezza e
precisione. Sì, si è sentito spesso in quel modo, e le
cose sono solo peggiorate da quando è costretto in quel letto
d’ospedale. E invece adesso sta riacquistando fiducia nella sua
scelta, la considera ancora la cosa giusta per lui. Se Harry si sente
grato per il lavoro che fa lui, Louis si sente altrettanto grato che
questo sia riconosciuto. Ci si può sentire comunque soli
leggendo un comunicato militare dal ministero della Difesa che
ringrazia i soldati, possono essere terribilmente generali e freddi.
Mentre Harry ha un viso e una voce.-
«Grazie Harry.»
Perrie solleva un sopracciglio stranita quando si rende conto che fuori piove. Davvero strano il tempo quel giorno.
Entra
nella camera e trova praticamente tutte le tende attorno alle brandine
ancora tirate. Sospira. Si dirige a passo spedito verso il letto 6.
«Louis? Buongiorno» dice
a bassa voce per non disturbare. Non ricevendo risposta scosta appena
la tendina e vede che la branda è vuota. Le prende un attimo di
panico e corre verso i bagni.
Non
fa in tempo ad arrivarci, si ferma prima. C'è una piccola figura
in fondo al corridoio, davanti alla finestra che ha riaperto,
nonostante i divieti. Si è sporto in avanti e la pioggia cade sulle sue mani.
«Louis.»
Louis
si volta di scatto, la guarda come un bambino beccato a compiere una
marachella. Ma lo stupore dura un battito di ciglia, ciò che
serve a riconoscerla.
«Buongiorno Pez» risponde e le sorride. Alla psicologa sembra di cogliere qualcosa di diverso in quel sorriso.
«È finalmente il tuo compleanno, auguri!»
«Grazie, Pez.» Le sorride.«Hai visto? Piove. A casa piove spesso» continua lui.
«Sì, piove quasi sempre lì» scherza
lei. Gli si mette accanto e socchiude le labbra per chiedergli se
quella mattina vada tutto bene o se ha avuto altri incubi, ma lui si
volta e parla per primo: «Ho visto il video, il mio regalo di compleanno e Natale. Si chiama Harry. Ho pianto tutta la notte.»
E
dopo questo le racconta delle bellissime parole di questo ragazzino che
gli hanno scaldato il cuore, che gli hanno fatto capire che il senso di
colpa e i ricordi non lo abbandoneranno mai, che la morte di Stan
-è la prima volta che lo chiama per nome e Perrie sussulta
appena- è stata ingiusta ma sarebbe ancora più ingiusto
sprecare la sua vita. Le dice che probabilmente avrà ancora
deidubbi e che gli incubi non spariranno dall'oggi al domani, ma
concorda con Harry quando dice che troverà qualcuno con cui non
si sentirà più solo.
Si
sono seduti e lui le ha preso la mano e ha stretto forte, mentre la sua
voce si faceva flebile o addirittura si spezzava raccontando della
mattina in cui era stato ferito. Perrie è rimasta in silenzio e
ha aspettato che facesse un respiro profondo e andasse avanti. Cosa che
Louis ha fatto, fino ad arrivare alla fine.
L'aereo
è atterrato con un'ora di ritardo e il treno è partito
con cinque minuti d'anticipo e ora Louis è appena sceso alla
stazione di Holmes Chapel.
Ha
fatto una telefonata in treno, e ha scoperto da dove era stato spedito
il suo pacco. Imbocca la stradina e individua lagiusta villetta. Apre
il cancelletto, sale i gradini del portico e suona.
Ha ancora la divisa addosso, gli anfibi affondano nella fanghiglia e il borsone pesa sulla spalla.
Piove, anche quel giorno. D'altronde, in Inghilterra piove il novanta percento dell’anno.
Aspetta spostando il peso da una gamba all'altra, anche se la gamba destra gli fa male a causa del lungo viaggio.
È
agitato, forse quell'improvvisata non è stata la migliore idea
della sua vita. Il ragazzino gli aveva detto prima di chiamarlo e poi
è appena arrivato, ha un'arma da fuoco nella borsa e
probabilmente puzza un po'. Ma allo stesso tempo non vorrebbe essere
altrove. Certo, la sua famiglia gli manca come l'aria ma quel video,
arrivato nel momento in cui ne aveva più bisogno, da quella
persona che era diventata così speciale, lo avevano portato
davanti a quella porta.
Totalmente
immerso nel suo conflitto interiore non sente i passi dentro casa,
così quando qualcunoapre la porta lui quasi scatta sull'attenti.
«Louis? Louis!» trilla una voce. Una voce familiare, confortevole.
Louis sente gli occhi riempirsi di lacrime e il cuore sciogliersi letteralmente. La sua mente è un caos, niente ha senso, è solo una valanga di emozioni. Si sente sollevato, si sente a casa, si sente il più vicino possibile alla felicità.
Lo
guarda ed è altissimo, ha i riccioli più lunghi e
più vaporosi che nel video, ha gli occhi verdi splendenti sul
viso pallido e le labbra rosse atteggiate in un sorriso che è
solo per lui.
Il borsone gli scivola giù dalla spalla, con un tonfo. Le braccia si sollevano da sole, tese in avanti verso di lui.
Non
sa se dirgli prima che lo ringrazia o che si scusa per essere piombato
così in casa sua. Ma Harry non sembra intenzionato a sentirlo
parlare, non ancora, perché con un movimento veloce lo prende
per una spalla e se lo porta vicino.Lo abbraccia, come se non avesse
aspettato altro in quei quattro mesi che sono passati da quando ha
ricevuto la sua scheda.
«Sei qui!» sussurra Harry dritto nel suo orecchio.
Louis si sente sopraffatto, gli cinge i fianchi e si aggrappa a lui,
stringendolo forte contro il suo corpo. Vorrebbe dirgli che lo ama,
perché nella sua mente in blackout quelle parole possono
spiegare il misto di gratitudine e attrazione e affetto che prova per
quello splendido essere umano che lo ha salvato.
«Ho
pensato a te ogni giorno, ho sperato di ricevere qualche notizia su di
te ma non essendo parenti non mi hanno potuto dire nulla. Stavo
impazzendo, volevo disperatamente vederti!» Il discorso di Harry scivola come un balsamo sulla sua mente confusa e titubante.
Lo stringe solo di più, rimangono su quel portico minuti interi.
Tacciono
entrambi, avranno tempo per parlare, ma Louis è convinto che
quel qualcuno a cui potrà dire tutta la verità e da cui
si lascerà abbracciare dopo un incubo sulla guerra sarà
solo Harry.
Note autore:
Pare
che io sia resuscitata dall'oltretomba! *saluta felice tutti* E ho
deciso di resuscitare proprio con questa cosa qui: grazie infinite a
chi si ricorda ancora di me e sia arrivato qui in fondo, significa
più di quanto non immaginiate! Allora, poche parole di
commento: il nome dell'agenzia l'ho lasciato in italiano perchè
così l'acronimo è leggibile; qualcuno DEVE notare El e
Harry migliori amici perchè sono la dolcezza infinita<3
Il rapporto instauratosi tra Louis è Harry può
sembrare strano, in fin dei conti non hanno mai parlato, neanche per
messaggi o lettere, ma io credo che questo non lo renda inconsistente.
Immedesimatevi in Harry, se riceveste una scheda di una persona che
sapete che si trova in una situazione di pericolo, che è lontana
dalla famiglia e probabilmente soffre e le apriste il vostro cuore, poi
quella persona non vi rimarrebbe in mente? Non vorreste sapere, anche a
mesi di distanza, come sta? Altrettanto per Louis: siete appena una
spanna sopra la carne da macello (in alcuni luoghi è
così, forse qualche anno fa più di adesso ma quante volte
il tg iniziava con "morti tre militari in un attentato" o simili?) e il
vostro migliore amico è appena morto, che effetto vi farebbe
ricevere una lettera/video da una persona sinceramente interessata alle
vostre sorti e che, per volere del destino, di dio, o chi per loro,
capisce esattamente come state, toccando tutti i punti più sensibili. Non vi
sentireste in debito con questa persona? Non vorreste disperatamente
ringraziarla e dirle che in un momento difficile lei c'era e questo per
voi significa tutto? Harry e Louis in questa storia non sono ancora
innamorati come li troverete in altre storie (si trovano belli ma non
si sono avvicinati perchè attratti fisicamente, non si
desiderano sessualmente, per esempio. Quando Louis pensa che vorrebbe
dirgli che lo ama è da intendersi come sentimento intimo e
ancora platonico), ma sono profondamente legati. Spero di aver reso
chiaro questo nella storia, di aver trasmesso queste emozioni, di
entrambi.
Per eventuali chiarimenti o commenti scrivetemi pure,
Bee:)