Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: Blackvirgo    08/12/2008    6 recensioni
Questa storia - scritta per la IV Disfida de I Criticoni - doveva attenersi a due prompt: "Ma ci sono tracce e ricordi che durano a lungo. E ci consentono di ricominciare a vivere per qualcun altro." (Ephemeral, di Loveless) e Oro/Peltro. Missing moments introspettivi dei due fratelli Black, dal rapporto con la famiglia alle scelte della loro vita. (Altro personaggio principale: Kreacher) SPOILER SETTIMO LIBRO (ammesso che ci sia ancora qualcuno che non lo ha letto)!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Questa fanfiction partecipa alla IV disfida de I Criticoni, il cui titolo era Dualitatem. Il concorso prevedeva la partecipazione a squadre: ognuno doveva sviluppare la storia in base a un prompt (o tema) collettivo (per tutta la squadra) e a un prompt individuale.

E io ne ho approfittato per scrivere di Regulus, dato che era molto tempo che meditavo una fanfiction su di lui. Questo è quanto sono riuscita a produrre...

Dedicata alle mie compagne di squadra: Loveless e Lithium.

E un enorme ringraziamento ad Ale per gli aiuti vari...


Prompt collettivo: "Ma ci sono tracce e ricordi che durano a lungo. E ci consentono di ricominciare a vivere per qualcun altro." (Ephemeral, di Loveless)

Prompt individuale: Oro/Peltro


Titolo: Due facce, una moneta


1981

Era notte al numero 12 di Grimmauld Place.
Regulus Black sedeva nel grande salone, illuminato dalla luce delle candele. Reggeva nella mano destra un calice di vino che rigirava lentamente e che, ogni tanto, si portava alle labbra. Beveva a piccoli sorsi, inalandone l'aroma e gustandone il sapore pieno, corposo.
Sapeva che di lì a poco avrebbe dovuto bere ben altro, ma preferiva non pensarci. Non ancora.
Sedeva su una poltrona, le gambe accavallate e la mano sinistra mollemente posata su un bracciolo, e quando non era il bicchiere a catturare la sua attenzione,  il suo sguardo si posava distrattamente sul grande arazzo  che raffigurava l'albero genealogico della famiglia Black.
“Toujurs pur” era la scritta che compariva sotto il blasone. E Regulus si riempiva gli occhi e il cuore con l'intricata ragnatela di oro purissimo che univa fra loro tutti i componenti della sua famiglia, a partire dagli antenati fino a lui, ultimo erede di quell'antica famiglia.
Per sempre puro. Era questa la traduzione di quell'antico motto che tradiva le origini francesi assieme al cognome Nigellus.
Strano che ci avesse messo tanto tempo ad accorgersi solo come quelle sue semplici parole si prestassero a così svariate interpretazioni.
Gli avevano raccontato che la purezza da mantenere era nel sangue, che andava preservato perché magico e perché antico, che non doveva essere macchiato da sangue che non fosse altrettanto puro. Perché la macchia si sarebbe espansa e, come un cancro, avrebbe infettato l'interno organismo, provocandone una morte orribile.
Eppure Regulus, osservando quel delicato intarsio d'oro, pensò che quel semplice motto significava molto di più. E ce l'aveva proprio sotto gli occhi, lampante: quei semplici fili d'oro puro rappresentavano dei legami che nessuno avrebbe potuto scindere. Neppure quando rimanevano sospesi sopra una bruciatura, sospesi ma saldamente uniti a tutti gli altri nomi stilati con eleganti caratteri neri.
Focalizzò l'attenzione sul proprio nome e su quelli a cui era direttamente collegato: Orion, Walburga e la macchia che nascondeva quello di Sirius.
Erano stati una famiglia unita, quando era piccolo. Prima di Voldemort, prima di Hogwarts c'era stato un tempo in cui i bambini della famiglia Black erano stati solo bambini.
Perché molto si sarebbe potuto dire dei fratelli Black, ma non che non si fossero voluti bene.
A loro modo, certo, come un Grifondoro e un Serpeverde: complementari come il rosso e il verde,  brillanti come l'oro e l'argento.
Sirius aveva sempre vissuto a modo suo. Non era stata colpa sua l'essere finito tra i Grifondoro, ma il trarne vanto offendendo con ogni suo atteggiamento i loro genitori sì, quella era stata una colpa. Una colpa che aveva portato Regulus a essere al centro delle aspettative dei genitori perché “Sirius è stato solo un disonore.”
Regulus ricordava benissimo il giorno in cui Sirius era fuggito di casa, imprecando contro tutta la loro stirpe.
Ricordava quella lite furibonda con il padre, mentre la madre, pallida e fremente di rabbia, osservava il marito colpire il suo primogenito – non con la bacchetta, non con la magia – con uno schiaffo che lo fece rotolare a terra, con il labbro spaccato e l'impronta della mano sul viso.
Ricordava lo sguardo che Sirius aveva lanciato a tutti loro, uno sguardo che avrebbe potuto uccidere. Si era poi alzato, senza battere ciglio, si era diretto in camera sua e aveva infilato in una sacca alcuni oggetti per poi scendere le scale e urlare a tutti che mai più – mai più! – avrebbe rimesso piede in quella casa.
E Regulus aveva visto il padre chiamare un elfo domestico e ordinargli di impacchettare tutti gli oggetti di Sirius e di portarli in cantina perché quella stanza non gli sarebbe servita più. E la madre andare nel salone e bruciare il nome del primogenito dal grande albero genealogico, davanti a Regulus annunciando: “io ho solo un figlio e quello sei tu.”
Era così che era diventato figlio unico – almeno per i suoi genitori – e aveva dovuto cominciare una nuova vita, dimenticandosi di avere un fratello. Perché questo era quanto suo padre e sua madre gli avevano imposto.
Regulus sospirò, pensando a quel difetto che l'aveva sempre messo alle strette e – allo stesso tempo – lo aveva promosso a ruolo di figlio modello: non era capace di dire di no. Non a tutti, si intende, ma alle persone che che per lui valevano non sapeva negarsi.
Non era un debole, ma odiava deludere gli altri. E odiava vedere i propri genitori arrabbiati e nervosi per via di Sirius.
Aveva provato a far ragionare il fratello, ma non c'era stato verso. Sirius aveva sempre fatto le cose a modo suo: era caparbio e sincero e sicuro di sé, mai avrebbe detto qualcosa che non pensasse realmente. Neppure se questo qualcosa avrebbe salvato una famiglia dallo sfascio.
In fondo era anche per questo Regulus lo aveva sempre ammirato: per la sua sfrontata vitalità, per la sua capacità di uscire brillantemente dalle situazioni in cui andava a cacciarsi. E anche per la sua capacità di mandare al diavolo i loro genitori.
Lui non ne era mai stato capace. Lui obbediva, lui amava essere lodato: gli piaceva vedere i suoi genitori orgogliosi di lui.
La ferita che Sirius aveva creato con la sua fuga non era sanabile, anzi: col tempo si era infettata e imputridita e li stava uccidendo piano piano.
La madre si lasciava spesso prendere da attacchi isterici, chiedendosi cosa avesse fatto di male per meritare un figlio come Sirius e pregando Regulus – con gli occhi lucidi di lacrime mai versate – di non comportarsi come quel rinnegato, di ridare alla famiglia l'onore che Sirius aveva messo a repentaglio, di comportarsi come un Black o “io ne morirò”.
Il padre era sempre stato un uomo di poche parole, ma se prima il silenzio aleggiava intorno a lui come una nuvola impalpabile, ora pesava come piombo.
Solo Kreacher continuava a comportarsi come aveva sempre fatto, con le sue premure e la sua ingenua ammirazione per tutti i componenti della famiglia. Tranne per Sirius, che alla famiglia non apparteneva più.
Forse era meglio dire che, ufficialmente, Sirius Black era morto. Da quella casa sparirono tutte le sue fotografie, tutti i ricordi della sua presenza. E quelli che non riuscirono a togliere li sigillarono, perché nessuno potesse vederli, nessuno potesse ricordare che Regulus Black aveva avuto un fratello.
Ma Regulus lo ricordava.
Ogni volta che faceva le scale per arrivare alla sua camera passava davanti a quella di Sirius e la porta sigillata non riusciva a nascondere i ricordi che il piccolo Black si portava dentro. Cercava di non guardarla, di non indugiare sul pianerottolo e, a testa china, saliva i pochi gradini che lo separavano dalla sua camera e lì si rinchiudeva, confortato dai confini che gli avevano imposto – che si era lasciato imporre.
Ma quel legame dorato era una traccia persistente della sua presenza, una traccia indelebile che ricordava a Regulus in ogni momento quello che lui non avrebbe dovuto fare, monito continuo delle aspettative dei suoi genitori, degli oneri e degli onori che essere un Black comportava.

“Kreacher,” chiamò a bassa voce, alzandosi in piedi, e nel giro di pochi istanti l'elfo domestico si materializzò nel grande salone.
Regulus lanciò un ultimo sguardo all'arazzo della stirpe dei Black, commiato e saluto ai vivi e ai morti.
“Andiamo Kreacher,” disse infine, posando il bicchiere vuoto su un tavolino.


1996

Era notte a al numero 12 di Grimmauld Place.
Sirius Black vagava come un'anima in pena fra quelle quattro mura che aveva abbandonato con la testa alta e lo sguardo fiero quasi vent'anni prima e che ora – ironia della sorte! - non poteva lasciare. La maledizione dell'essere un Black l'aveva raggiunto alla fine. Si ritrovò da solo nel grande salone, di fronte a quell'arazzo che mostrava la sua gloriosa ascendenza. Era rimasto l'ultimo a portare quel cognome e di questo non si rammaricava.
Non si rammaricava di essere l'ultimo, non di essere un Black.
La sua famiglia non era di certo stata quella: non era stato pensando a loro che era riuscito a non impazzire completamente ad Azkaban. Non era stato grazie a loro se, dopo l'Inferno, aveva trovato di nuovo qualcuno per cui vivere, qualcuno da amare. Non era stato grazie a loro che aveva di nuovo una casa. Perché, per Sirius Black, Grimmauld Place era solo una prigione.
Aveva solo un rimpianto: suo fratello.
Erano stati una famiglia unita, quando era piccolo. Prima di Voldemort, prima di Hogwarts c'era stato un tempo in cui i bambini della famiglia Black erano stati solo bambini.
Perché molto si sarebbe potuto dire dei fratelli Black, ma non che non si fossero voluti bene.
A loro modo, certo, come un Grifondoro e un Serpeverde: complementari come il rosso e il verde,  brillanti come l'oro e l'argento.
Regulus era sempre stato pronto a obbedire quanto lui a disobbedire. E non poteva fare a meno di chiedersi se fosse diventato comunque un Mangiamorte, anche se lui non se ne fosse andato.
Anni prima, quando aveva scoperto cosa stesse combinando Regulus, si era lasciato prendere dalla rabbia. Non gli aveva parlato, lo aveva preso a pugni.
Senza ottenere alcun effetto.
Si era detto che era solo uno stramaledetto Serpeverde, come tutti gli altri, dimenticando che anche Andromeda era stata una Serpeverde e si era felicemente sposata con Ted Tonks.
Eppure, forse avrebbe dovuto cercarlo prima della sua scomparsa. Avrebbe dovuto comportarsi da fratello anche per lui, non solo per James.
Alla fine aveva perso tutto quello che per lui aveva avuto importanza

Si fermò per un attimo di fronte all'arazzo, chiedendosi per l'ennesima volta se esistesse un modo per liberarsene, e non poté trattenere una risatina che avrebbe voluto essere beffarda, ma che suonava solo lugubre: quell'arazzo era il trionfo dell'apparenza. Oro per legare fra loro persone già legate dal tanto decantato sangue puro e bruciature per mondare la famiglia dal disonore che alcuni avevano osato portare. Disonore per aver scelto di essere qualcuno anche fuori da quel branco di perbenisti con la puzza sotto il naso.
Lui ne era fiero. Aveva costruito la propria vita con le sue stesse mani e di questo era fiero. Nonostante avesse molto di cui rammaricarsi. Nonostante le sue scelte impulsive si fossero spesso rivelate infelici. Ma almeno erano state sue.
Era sempre stato così, sin da piccolo:testardo e coraggioso. Amava scherzare e, a volte, non ci andava neppure troppo per il sottile. Eppure amava quella sua capacità di prendere la vita con una leggerezza, senza preoccuparsi del domani, senza preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni,  anzi, curioso di sapere dove lo avrebbero portato. Era sempre stato in un'eterna sfida con se stesso solo per vedere se sarebbe stato capace di uscire da qualunque situazione, solo per mostrare a tutti che Sirius Black era un vincente solo perché era Sirius e non perché era un Black.
Oro avevano usato per unire i nomi dei suoi antenati: ipocriti! Avrebbero potuto usare del volgarissimo peltro e sarebbe stato lo stesso.
Sirius Black non vedeva nulla di dorato né tanto meno di puro in quei fili che lo legavano inestricabilmente al resto della famiglia, non vedeva la proprio vita possibile solo perché c'erano stati altri Black prima di lui.
Per lui erano stati solo legami da recidere uno a uno, da dimenticare, per essere liberi.
Per creare davvero dei legami che erano fatti di amicizia e affetto e complicità. Che erano scelti e non imposti.
Ma per quanto ci avesse provato a lasciarsi tutto indietro, si rendeva anche conto che era nato Black e che Black sarebbe morto. Inutile negarlo.
La cosa importante era rimanere nei cuori degli altri, così come nel suo erano rimasti James e Lily e Regulus. Ma voleva rimanerci come Sirius.
Si allontanò scuotendo la testa e passandosi una mano prima tra i folti capelli neri e poi sul viso stanco e tirato,  come per cancellare certi pensieri.
E si diresse da Fierobecco per vedere le condizioni della sua ferita.


1981

Regulus osservava quel liquido verde brillante contenuto nel bacile di pietra e sorrise, tristemente: solo il veleno poteva essere così affascinante e bello e mortifero. Proprio come l'ambizione che lo aveva portato a fare di tutto per essere all'altezza del nome che portava, per essere l'orgoglio dei suoi genitori, per fingere di  non aver un fratello e, infine, per darsi a un Oscuro Signore che di regale aveva solo il nome che si era dato.
Immerse il calice nel liquido e, una volta pieno, iniziò a rigirarselo fra le mani, osservandone la densità, l'alone che lasciava sulle pareti, le piccole increspature sulla superficie. Lo studiava come un sommelier alle prese con una coppa di buon vino.
Il verde era uno dei colori che da sempre accompagnava la sua vita. Il colore della sua Casa di Hogwarts, della sua natura se ben aveva inteso quello che il Cappello Parlante amava canticchiare tutti gli anni, alla Cerimonia dello Smistamento.
“e per Serpeverde la pura ambizione
contava assai più di ogni nobile azione”
Così aveva detto il Cappello quando l'aveva affidato alla casa degli astuti. E quello che stava facendo in quel momento poteva davvero sembrare astuto o ambizioso: battere l'Oscuro Signore al suo stesso gioco, privarlo di un tesoro di enorme valore sostituendolo con un pezzo di vile paccottiglia che riportava solo un breve messaggio, un testamento.
Privarlo di un pezzo della sua anima in cambio della sua stessa vita, ecco cosa si apprestava a fare Regulus Black, in quella notte piovosa.
Sorrise tristemente, perché sapeva che la sua morte non sarebbe bastata a distruggere colui che aveva venerato fino a poco tempo prima, ma reggendo tra le mani quel medaglione di incerto valore – così diverso dal cimelio di Serpeverde che l'Oscuro Signore amava sfoggiare, così prezioso da meritare di contenere parte della sua anima, di divenire la tomba di un essere che non voleva morire ma che non sapeva apprezzare la vita.
Sapeva che ad esso affidava tutto ciò che su questa terra sarebbe rimasto di se stesso. Un testamento che era una speranza, un desiderio di rivalsa e anche una richiesta verso qualche ignoto a continuare l'opera che lui aveva cominciato e che non avrebbe potuto terminare.
Nessuno – che non fosse l'Oscuro Signore in persona, il comandante dell'esercito di non morti che quell'acqua cheta e ferma ora celava – avrebbe mai potuto allontanarsi da quel luogo con l'Horcrux. Nessuno tranne un essere di poco conto – per Voldemort almeno – che già una volta era sopravvissuto a quell'inferno.
Regulus non poteva fare a meno di sorridere nonostante tutto: ciò che agli occhi distratti non era che un banalissimo pezzo di peltro, ad occhi indagatori si mostrava come oro purissimo. Invecchiato forse,  sporco o impolverato, ma inalterato e inalterabile nella sostanza.
“Io berrò questa pozione, Kreacher, e alla fine tu dovrai sostituire i medaglioni. E poi tornerai a casa e distruggerai quello dell'Oscuro Signore in tutti i modi possibili. Non sarà facile e potrebbe essere pericoloso, ma non dovrai mai chiedere aiuto a nessuno, capito? E nessuno, a parte te, dovrà mai metterci le mani sopra.” Regulus sospirò. “Per favore.”
“Padron Regulus, no, vi prego, non fatelo! Fate bere a Kreacher quella pozione e sostituite voi il medaglione e tornate a casa dalla padrona, vostra madre,” supplicò l'elfo domestico. “Non fatelo!” Violava una regola antica quanto il patto fra elfi e maghi, Kreacher, con le sue proteste e le lacrime che spuntavano da quegli occhi vecchi e stanchi, ma era in preda alle sue emozioni e nessun patto magico avrebbe potuto censurare le parole che arrivavano direttamente dal suo cuore. Un cuore che idolatrava i Black, ma che soprattutto amava quel ragazzino che aveva visto crescere, sempre obbediente, sempre rispettoso verso la sua famiglia. Sempre gentile con Kreacher.
“È necessario che sia tu a tornare, Kreacher,” rispose dolcemente Regulus alla creatura che piangeva aggrappato alla sua tunica, regalandogli una fugace carezza sulla testa calva. Sapeva che l'elfo non avrebbe mai potuto capire. E non era tanto per quel giuramento che legava gli elfi domestici ai loro padroni: Kreacher gli voleva bene. Nonostante tutto, nonostante lui l'avesse sacrificato all'Oscuro Signore, nonostante ora gli chiedesse di sopravvivergli e di terminare ciò che lui non avrebbe potuto fare, Kreacher continuava a volergli bene.
E forse proprio per questo aveva voluto lui vicino, in punto di morte: Kreacher era l'unica creatura che non gli avrebbe mai rinfacciato nulla, né il fatto di essere un Black e un Serpeverde né il fatto seguito Voldemort e poi di averlo tradito e Regulus pensava che doveva essere bello morire avendo vicino qualcuno che piangeva per te –  solo per te – e non per quello che avresti dovuto essere.
Con un elegante movimento della bacchetta fece apparire un calice a mezz’aria: nero, semplice. Lo afferrò e se lo rigirò fra le mani, apprezzandone la fattura, il colore.
Il colore della sua famiglia.
Era sempre stato orgoglioso di essere un Black. Di essere un mago purosangue, di appartenere a una delle famiglie più antiche di maghi.
Un'ombra oscurò il suo viso già stanco e tirato, provato da lunghe notti insonni passate a riflettere, a guardare il letto perfettamente rifatto che ostentava lo stemma dei Black, a fissare il muro coperto dai ritagli di giornale che parlavano di Voldemort, dalle foto che lo ritraevano coi suoi compagni di scuola, con la sua famiglia.
Si scostò un ciuffo di capelli neri davanti agli occhi, con un gesto che ricordava molto quello  compiva abitualmente un altro ragazzo poco più grande di lui.
Colui che aveva rinnegato il nome dei Black. E che dai Black era stato rinnegato.
Perché un tempo Regulus Black aveva avuto un fratello.
“Kreacher,” disse senza distogliere lo sguardo dall’urna e dal liquido che conteneva. “Ti ordino di non raccontare a nessuno della famiglia di questa nostra avventura notturna. E a nessuno dei Mangiamorte.” La segretezza è vitale, pensava. Era meglio che nessuno sapesse niente, che sparisse dalle vite di tutti in silenzio – senza infamia e senza lode – che lo ritenessero un vigliacco, un traditore di quel Signore Oscuro che aveva parlato di un nuovo ordine e che invece stava gettando il loro mondo nel caos piuttosto che lo ritenessero un traditore della famiglia.
Perché Regulus Black aveva visto cosa aveva fatto il disonore alla sua famiglia ed era certo che un lutto non avrebbe fatto altrettanti danni.
Peccato che neppure Sirius lo avrebbe mai saputo. Curioso come la vita li avesse divisi e la morte di nuovo uniti.
Perché molto si sarebbe potuto dire dei fratelli Black, ma non che non si fossero voluti bene.
A loro modo, certo, come un Grifondoro e un Serpeverde: complementari come il rosso e il verde,  brillanti come l'oro e l'argento.
Chiuse gli occhi e ne bevve una lunga sorsata. Una vampata di nausea lo colse di soprassalto e solo la sua determinazione e gli anni di bon ton appresi a furia di bacchettate gli impedirono di sputare il contenuto. Amaro come il fiele, sì, se l'era aspettato. Ma continuò lo stesso a bere fino a svuotare l'intero calice.
Poi il secondo calice. E poi anche il terzo.
Kreacher lo guardava preoccupato, le orecchie da pipistrello piegate in avanti, le mani che si coprivano i grandi occhi che non riuscivano a trattenere le lacrime. “Padron Regulus, padroncino, no!” continuava a supplicare, ma non poteva fare nulla per fermarlo. Anzi, avrebbe dovuto aiutarlo  quando quella coppa si sarebbe rivelata troppo pesante per le sue dita, quando la mente l'avrebbe dimenticata distolta da altri pensieri. Ma vederlo così pallido, la pelle imperlata di una patina di sudore, le mani tremanti e il corpo che pareva improvvisamente svuotato di ogni forza e giovinezza faceva male a Kreacher. Molto più male delle punizioni che aveva subito nella sua vita, dei pianti isterici della sua adorata padrona e dei dispetti di quel rinnegato di padron Sirius.
Ma Regulus non avrebbe saputo dire se era più amara quella pozione o i ricordi che spuntavano nella sua mente, aggrovigliati e nitidi e lo portavano avanti e indietro nel tempo, quando era un bambino e quando era diventato un uomo, quando aveva un fratello e quando era diventato figlio unico.
A metà del quinto calice Regulus non riuscì più a reggersi in piedi. Si accasciò pesantemente e gemeva, come in preda al dolore o forse a un delirio, perché dalle labbra pallide e secche uscivano suoni che parevano nomi: “Mamma... papà... Sirius...”
E con la morte nel cuore, Kreacher raccolse il calice e lo riempì nuovamente di quel liquido verde brillante. Ma non notò la combinazione dei colori, a malapena vedeva ciò che stava facendo tanto i suoi occhi erano appannati dalle lacrime e il suo corpicino scosso dai singhiozzi: versò piano il liquido tra le labbra di Regulus sapendo che così l'avrebbe ucciso, ma incapace di non soddisfare il suo ultimo desiderio.
Sognava, Regulus, anche se sembravano incubi e sembravano reali. Sognava di un tempo quando lui e Sirius – bambini – giocavano insieme nella grande casa di Grimmauld Place. Prima di Voldemort, prima di Hogwarts, c'era stato un tempo in cui i bambini della famiglia Black erano stati solo bambini. In cui si erano comportati da bambini.
Poi Sirius era diventato un Grifondoro. E poi ancora era scappato.
E Regulus era rimasto a casa, incapace di disobbedire ai genitori e incapace di smettere di voler bene a Sirius. Perché ci sono legami che non si possono spezzare e il sangue è uno di questi.
Ci aveva messo molto tempo Regulus a capire che i suoi genitori potevano aver diseredato Sirius, potevano averlo cancellato dall'albero genealogico, potevano affermare che non fosse loro figlio, ma non potevano negare che a Grimmauld Place si fosse creato un vuoto.
Un vuoto che Regulus aveva cercato di colmare ogni giorno della sua vita, sapendo inconsciamente di non poter prendere il posto di Sirius, ma provandoci lo stesso in tutti i modi. E forse ci sarebbe anche riuscito se quel vuoto non fosse stato dentro di lui.
Neppure cancellarlo dall'albero genealogico della famiglia era servito a qualcosa: non compariva più il suo nome, vero, ma quei fili d'oro che lo legavano ai Black rimanevano dove stavano, apparentemente sospesi nel vuoto, ma presenti per ribadire un legame che nulla poteva spezzare.
Regulus riaprì gli occhi mentre combatteva contro tutte quelle immagini che si affollavano nella sua mente. Aveva anche ripreso il calice dalle mani di Kreacher – che tremavano più delle sue – e l'aveva avvicinato alla bocca, lasciandosi invadere nuovamente dall'amarezza di quel liquido verde e di ricordi tanto vivi da sembrare reali, senza vedere Kreacher vicino a sé, senza sentire i suoi disperati singhiozzi.
Erano altri i singhiozzi che Regulus sentiva: “Non farmi questo anche tu, Regulus, non farmi morire!” lo implorava la madre e il padre si limitava a guardarlo severo. Truce. E Regulus, per affetto e devozione, obbediva.
Aveva fatto di tutto per dare ai suoi genitori una possibilità di riscatto: i suoi voti a scuola erano ottimi, si poteva definire un buon giocatore di Quidditch e i tutti i suoi amici rispondevano alle aspettative del suo rango. Erano tutti purosangue, tutti Serpeverde.
E molti di loro parlavano di un Signore Oscuro che avrebbe riportato ordine in un mondo sporco come quello in cui vivevano. Era un uomo di enorme intelligenza e potenza: Lord Voldemort si faceva chiamare, ma più spesso il suo nome non veniva pronunciato perché già quello era sufficiente ad incutere terrore.
I Black approvavano la politica di questo Signore Oscuro, di questo mago che si faceva finalmente portavoce di tutti i Purosangue. E incoraggiarono Regulus a seguirlo, a entrare nella sua cerchia come già aveva fatto la cara Bellatrix.
E divenne un Mangiamorte. Ma questo non lo fece solo per i suoi genitori: la prima volta che aveva visto Voldemort, che lo aveva sentito parlare, ne era rimasto completamente affascinato. Il suo aspetto non si poteva definire umano, così come non lo era la sua voce, ma trasudava carisma, sicurezza e autorità. Non faceva promesse ai suoi seguaci, ma parlava di un sogno, di un nuovo ordine in cui i maghi non avrebbero più dovuto nascondersi come se fossero dei reietti, ma avrebbero preso il potere – un potere a loro dovuto perché erano i più forti. E in questa fase nessuno avrebbe meritato pietà: non i babbani ignoranti, doppiamente colpevoli per la conoscenza della magia e per il terrore che essa suscitava in loro, e non per coloro che li difendevano, fossero essi mezzosangue o semplici simpatizzanti.
“Noi deteniamo poteri che nessun babbano neppure immagina,” diceva con la sua voce sibilante, “eppure – per il loro bene – ci censuriamo, nascondiamo ogni traccia della nostra esistenza. Ed essi continuano le loro miserevoli vite, ridendo di noi e della nostra esistenza, rifuggendoci come se fossimo degli appestati semmai dovessero conoscerci. È ora di cambiare le cose: è ora che i maghi prendano il potere e lo usino. Per i maghi stessi.”
E parlava dell’importanza di avere un sangue non contaminato dai nemici babbani perché in tale contaminazione avrebbe potuto germogliare il tradimento. E chiedeva un patto di sangue a tutti loro e di ricevere il suo marchio a coloro che volessero combattere la sua guerra. Al suo fianco.
Orion ed Walburga Black avevano applaudito il figlio che perseguiva queste idee, loro sempre così convinti della superiorità del loro stesso sangue, così orgogliosi di quell’albero genealogico su cui i depennati figuravano come piccole bruciature. Chissà Perché nessuno si chiedeva come mai anche i fili d'oro che legavano le bruciature agli antenati non scomparivano.
Come se quel minuscolo fuoco avesse potuto mondare il sangue della famiglia dal loro presunto tradimento.
Come le fiamme che ora bruciavano dentro Regulus, che lo consumavano come una febbre terribile.
Kreacher gli porse l'ultimo calice. Regulus lo prese con le sue mani, ma l'elfo dovette aiutarlo a sostenere il peso del calice stesso, mentre il ragazzo che ora sembrava un bambino febbricitante rantolava e chiedeva acqua.
Aveva fatto entrare Regulus nella cerchia dei suoi seguaci più fedeli, forse attirato dall’intelligenza del giovane Serpeverde o forse dalla sua buona fede. Era così facile prendersi gioco degli ingenui, manipolarli e poi buttarli!
Gli aveva parlato dei suoi progetti che non si limitavano alla conquista del potere politico, ma che sarebbero giunti a conquistare la morte stessa attraverso la morte. Parole che a Regulus erano sembrate criptiche e affascinanti, come ogni segreto alchemico lo è per l’apprendista. Provò a chiedere di più, ma Voldemort non amava le domande: amava dare certezze, non far sorgere dubbi. Ma qualcosa dentro il giovane Regulus si muoveva, la consapevolezza che sotto alle promesse dorate di Voldemort si celava qualcosa di terribilmente sbagliato: si poteva parlare di prendere il potere, si poteva sognare un mondo guidato dai maghi, si poteva affermare che la vita di certe persone non aveva alcun valore – a parole Regulus poteva credere a tantissime cose.
Ma quando si trovò ad assistere ad un assassinio qualcosa gli morì dentro. Gli ci volle tutto il suo autocontrollo per manifestare segni troppo evidenti del suo turbamento. Come vomitare ad esempio.
E quando tornò nella sua camera verde e nera e cominciò a passare notti insonni, iniziò a capire.
Conquistare la morte attraverso la morte stessa.
Lui, uccidendo, stava morendo.
Ma lui non era Voldemort. E, in quel momento, non si stava comportando come un mago che era stato ammesso alle cerchia più intima di uno degli stregoni più potenti che fossero mai esistiti, ma da ragazzino spaurito.
Iniziò a leggere tutto ciò che trovava sulla negromanzia e se la biblioteca di Hogwarts non gli permetteva di trovare quello che cercava, la biblioteca del padre era molto meglio fornita a riguardo.
Scoprì che gli uomini hanno un’anima e che questa può essere tagliata e che un pezzo di un’anima ha lo stesso valore dell’anima intera. Che un uomo con l’anima divisa non può morire, ma la sua capacità di essere intero – di essere uomo – è irrimediabilmente compromessa.
E, soprattutto, scoprì che l’anima si può dividere solo distruggendone un’altra. Solo uccidendo.
Regulus si chiese se la sua anima fosse già in frantumi per quello che prima aveva visto e poi aveva anche fatto.
Sorrise a quel pensiero, ora Regulus, mentre Kreacher scambiava i due medaglioni. Sperava solo che quello fasullo contenesse solo il suo testamento e non un pezzo della propria anima: ormai era l'unica cosa che gli rimaneva mentre veniva afferrato da mani fredde e senza carne e portato sott'acqua, dove sarebbe morto senza poter saziare la sua sete.


1996

Rideva Sirius Black quando un raggio rosso lo colpì in pieno petto e lo fece cadere attraverso un velo, nella Stanza della Morte, nel Dipartimento dei Misteri.
Rideva sempre, Sirius, quando non sapeva cosa fare, come rispondere, come reagire.
Anche in punto di morte la sua caparbietà gli diede ragione: ne era valsa la pena di rischiare tutto pur di salvare Harry, ne era valsa la pena di uscire da quella prigione per una boccata d'aria fresca, per un'avventura, per trasgredire le regole che gli erano state imposte “per il suo bene”.
E aveva avuto ragione anche riguardo la famiglia: era stata la cara Bellatrix a colpirlo alla fine, suggellando il suo totale depennamento dall'albero genealogico dei Black e – finalmente! - la fine di quel cognome sulla terra.
Rideva, Sirius Black, mentre cadeva attraverso un velo, felice di essere stato un Black, di averlo rinnegato e di aver vissuto e di essere morto per essere stato Sirius.


1998

Molte persone diedero valori differenti a un certo medaglione che venne ritrovato in un bacile di pietra posto su un isolotto, al centro di un lago popolato da Inferi.
Albus Silente pensava che fosse un medaglione d'oro con lo stemma dei Serpeverde e che contenesse l'anima del suo avversario e avrebbe dato la vita pur di eliminarla, pezzo dopo pezzo. Diede la vita per un medaglione di dubbio valore che conteneva la stessa volontà scritta su un pezzo di pergamena, ma lasciò il compito di sconfiggere Voldemort ad altri.
Harry Potter rimase profondamente deluso quando scoprì di avere per le mani un pezzo di peltro e un pezzo di carta, prima convinto che il suo mentore fosse morto inutilmente, poi stupito che un Serpeverde si fosse schierato coi Grifondoro.
Per Kreacher fu qualcosa di più prezioso dell'oro: memento del suo adorato padroncino, lo brandì in battaglia come un araldo fa con i suoi vessilli, per combattere dalla stessa parte di Regulus. E anche di Sirius. Che non era quella dei Black, ma questo non era più così importante.

   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Blackvirgo