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Autore: Fannie Fiffi    27/02/2015    6 recensioni
[Bellarke; Modern!AU]
Clarke Griffin è una diciannovenne alla ricerca di se stessa, ma soprattutto alla ricerca di una verità ancora più grande di lei: quella riguardo la morte del padre.
Costretta a dover abbandonare le proprie ricerche per due anni, il suo mondo verrà nuovamente sconvolto quando conoscerà il suo nuovo vicino di casa, il giovane detective Bellamy Blake.
Genere: Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buon pomeriggio a tutti! :)
Prima di iniziare, devo ringraziarvi. Grazie per le recensioni, grazie per il supporto che mi date costantemente, grazie semplicemente per la vostra presenza. Non ci crederete, ma vi voglio bene come se passassimo ogni giorno insieme.


Su questo capitolo non ho molto da dire, lascio a voi i giudizi, e mi soffermo sul prossimo capitolo: Raven Reyes is coming to town (o, meglio, sta ritornando) e ci sarà un momento fra lei e Bellamy, tenetevi pronti alla brotp Miller e Clarke e sarà presente una scena molto, molto importante per Bellamy.

Ok, credo di aver detto tutto. Per qualsiasi cosa, potete contattarmi privatamente o lasciare una recensione.

Buona lettura!


 


 
Is It Any Wonder?


 
« Cosa posso portarle? »

« Un caffè nero. »

« Qualcosa da mangiare? »

« No. Il caffè andrà bene. »

La cameriera del turno notturno si allontanò senza aggiungere altro, pronta a servire l’unico cliente presente alla tavola calda alle due del mattino.

Guardandosi intorno, abbassandosi sulla fronte il cappellino da baseball coperto a sua volta dal cappuccio della felpa, il ragazzo si passò il dorso della mano sulla bocca e deglutì pesantemente.

Stava fissando il cellulare usa e getta da ormai un’ora, dal primo momento in cui si era messo seduto e i fari delle macchine che viaggiavano in autostrada gli avevano illuminato il volto con irregolare intermittenza.

Continuava a rigirarsi l’apparecchio fra le dita, facendolo scivolare sulla superficie del tavolo e riacchiappandolo dopo qualche istante, ancora troppo impreparato per buttarlo via, per liberarsi dell’unica prova che lo collegasse al delitto che aveva perpetrato.

Sapeva bene quello che aveva rischiato, il pericolo che tutt’ora lo minacciava, ma non aveva potuto fare altrimenti, nemmeno davanti a quella parte di sé, quella vocina nella sua testa, che gli aveva sussurrato di non farlo, di non prendersi quella responsabilità, di lasciare che la verità venisse a galla e lo sommergesse.

Perché Atom era molte cose, tante delle quali lo avevano condotto esattamente lì, incastrato in una rete di bugie, inganni e ricatti, ma non era un assassino.

« Ecco qui. » La voce della donna interruppe il corso dei suoi pensieri, e l’unico rumore che si udì fu quello della tazza che veniva poggiata sul tavolino, fumando pigramente per il calore della bevanda al suo interno.

« Grazie. » Mugugnò fra i denti lui, mentre l’odore forte e inaspettatamente rasserenante gli arrivava alle narici, mischiandosi a quello di fritto che aleggiava nell’aria e proveniva dalla cucina.

Aveva guidato fino a veder sparire le luci dei grattaceli di Los Angeles, aveva imboccato l’autostrada e non si era fermato finché l’ansia non glielo aveva permesso, lasciando spazio ad un’angoscia ancor peggiore, se possibile.

Sapeva fin dall’inizio della gravità dell’affare in cui stava andando a invischiarsi, lo sapeva così bene – nessuno si metteva a lavorare per la persona per cui aveva lavorato lui senza essere ben consapevole dei pericoli – ma non aveva avuto altra scelta. O, in alternativa, non aveva potuto considerare nessun’altra scelta, perché in ogni caso avrebbe perso.

Perché, se l’avesse avuta, certamente non avrebbe mentito e raggirato il suo migliore amico.

Certamente non sarebbe diventato una spia, quel genere di persone che il severo e austero militare che era stato suo padre aveva sempre disprezzato, e che lui si era premurato di non diventare – sbagliandosi di grosso, ovviamente. –

Non avrebbe rapito una ragazza innocente. Una ragazza che gli piaceva, che gli era stata simpatica fin da subito.

Una ragazza che aveva fatto sorridere Bellamy di quel sorriso che Atom aveva visto una volta soltanto, ovvero l’unico che riservava a sua sorella.

Quel sorriso che diceva: “Per te potrei piantare un proiettile nel petto di qualcuno e nemmeno preoccuparmene.”

E non sapeva neppure come fosse accaduto.

Come fosse stato possibile che il grande e grosso Bellamy Blake, quello che a sedici anni l’aveva trascinato in una rissa e fatto rinchiudere in riformatorio per tre giorni, si fosse completamente sciolto davanti a quella che, a prima battuta, gli era semplicemente sembrata una principessina viziata.

E questo non aveva fatto altro che aggravare il proprio tradimento, perché, se c’era qualcosa che Bellamy non poteva tollerare, era perdere le persone che amava. Era il fatto che qualcuno gliele portasse via.

Cosa avrebbe fatto, quando avrebbe scoperto che era stato proprio lui?

Atom sapeva che l’amico non si sarebbe fermato davanti a niente, pur di far pagare il responsabile della sofferenza di una delle due.

Ma quella sarebbe stata una punizione sufficiente. L’avrebbe perfino accolta con gioia, perché era quello che meritava.

In nome di quello che era diventato, delle orribili cose che aveva fatto – le cose per cui il suo capo lo teneva in pugno, le azioni che avrebbero ricoperto d’infamia e vergogna il nome di suo padre e della sua famiglia – avrebbe volentieri accettato qualunque punizione avessero scelto per lui.

Quasi non gli pareva vero, ma si trovava esattamente al punto di partenza: solo, in fuga, nel torto marcio e nella merda fino al collo.

Senza aiuto, senza soldi, senza un posto dove andare, o dove dormire.

Era perfettamente consapevole che oramai il suo capo si fosse accorto di quello che era successo, e sapeva anche che Clarke lo aveva riconosciuto – lo ipotizzava, perlomeno – e che avrebbe potuto denunciarlo da un momento all’altro.

Sapeva che questa volta non ci sarebbe stato nessuno a proteggerlo, o a salvargli il culo dai suoi ennesimi e ripetutivi errori, e che presto sarebbe tutto finito.

Ma, nonostante ciò, l’istinto di sopravvivenza era più forte.

Più potente del bene profondo e sincero che provava nei confronti dei fratelli Blake, più intenso del rimorso e del senso di colpa per quello che aveva fatto e che era stato pronto a fare alla giovane Griffin, più pesante della vergogna che il solo pensiero del volto dei suoi genitori gli procurava.

Poiché, alla fine dei conti, tutto quello che aveva sempre desiderato era sopravvivere.
 


 
 
 
 

« Tu sei Bellamy, giusto? »

La voce giunse alla sinistra del maggiore dei Blake proprio mentre stava per prendere il primo sorso del primo caffè della mattina, seduto nella caffetteria dell’ospedale in attesa di poter finalmente vedere Clarke.

Alzando brevemente gli occhi al cielo, il moro si voltò subito dopo ed incontrò un viso conosciuto.

« Saresti? »

« Mi chiamo Nathan, ma tutti mi chiamano Miller. »

Il ragazzo, probabilmente anch’egli diciannovenne, gli sorrise debolmente, annuendo.

« Miller. » Ripeté Bellamy, distogliendo subito lo sguardo e tornando a trangugiare la bevanda calda.

« Sono un amico di Clarke. » Proseguì lui, tamburellando le dita sul tavolo a cui si era seduto, poco distante da quello del moro. « Sto aspettando anch’io di vederla. »

L’altro fece un breve cenno del capo, portando di nuovo lo sguardo su di lui, chiedendosi cosa volesse e perché gli stesse rivolgendo la parola.

Ecco, dormire poco più di tre ore, trascorrere un’intera giornata fra scene del crimine e revisioni di filmati di sicurezza e deposizioni, arrivare in ospedale senza ancora poter vedere Clarke – davvero, come diavolo poteva essere possibile? – non erano certo grandi incentivi per una conversazione di prima mattina.

Notando l’insistenza con cui il ragazzo lo fissava, Bellamy si trattenne dall’istinto di alzarsi e andarsene.

« Solitamente non avvicino sconosciuti nelle caffetterie degli ospedali, sai? Anzi, mi piace stare da solo. È solo che… Sembri così… »

« Stanco? » Suggerì lui con sarcasmo, « Irritato? Incazzato? Esausto? Probabilmente ognuna di queste, in verità. »

« Vuoi una sigaretta? » Domandò il più giovane, offrendo una rapida soluzione al suo apparente e comprensibilmente giustificato nervosismo.

Attirato dalla prima buona proposta dopo quei giorni estenuanti ed infiniti che aveva vissuto, il maggiore dei Blake finalmente sorrise, seppur stancamente.

« Puoi scommetterci, amico. »
 
 


 
*



 
La giovane Griffin si svegliò all’improvviso, la fronte imperlata di sudore e il respiro accelerato.

Sapeva bene come sostenere gli incubi, come affrontarli – di certo le sue notti non erano mai state facili e rilassanti, nemmeno prima di allora – ma ogni volta si sentiva stanca e indifesa, come se non si fosse mai addormentata e non avesse mai avuto occasione di riposarsi.

Era quella la sensazione peggiore: l’impotenza. L’incapacità di combattere qualcosa che non si poteva toccare, né vedere. Qualcosa che non era reale, ma che faceva più male di qualsiasi altra sensazione.

Qualcosa che esisteva solo dentro di lei e che, per questo, non poteva essere sconfitta.

Clarke oramai avrebbe dovuto imparare.

Spostando lo sguardo alla propria destra, verso la poltrona che durante quel paio di giorni non era mai stata vuota, scorse l’ombra del corpo di Wells, il capo reclinato contro lo schienale e il respiro regolare che gli gonfiava il petto.

Non era capace di immaginare come potesse essere stato possibile, come potesse essere stata così fortunata da trovare qualcuno pronto a lottare per lei e credere nelle sue capacità per ogni attimo della sua vita.

Forse quella era stata una ricompensa, un mero risarcimento che il destino le aveva riservato quando aveva deciso di portarle via suo padre.

Della serie: “Soddisfatti o rimborsati.”

Ma, se fosse esistito davvero un Dio, quello che tante persone le avevano consigliato di pregare, forse avrebbe saputo che Clarke Griffin non sapeva accontentarsi.

Clarke Griffin voleva tutto: voleva suo padre, sua madre e il suo fratellastro. Voleva l’università e la laurea. Voleva Bellamy.

E magari era così che sarebbero dovute andare le cose fin dall’inizio: fin dal momento in cui l’aveva visto per la prima volta, alle tre del mattino, pronto ad urlare contro sua sorella, fin da quell’attimo avrebbe dovuto prenderselo.

Avrebbe dovuto prenderselo e tenerlo con sé, poiché oramai non era più in grado di stare senza.

Una parte di sé sapeva che era proprio per quel motivo che aveva chiesto a Wells di mentirgli, di dirgli che era ancora troppo stanca e debole per ricevere visite che non fossero di famiglia.

Perché sapeva che non sarebbe più riuscita a fare nulla senza di lui, e che questo non era affatto ciò di cui aveva bisogno in quel momento.

Quello che doveva fare, invece, era riprendersi in fretta, riacquistare le forze e mettersi a lavoro. Trovare Atom, trovare Dax e scoprire finalmente tutta la verità. Poi, denunciare tutto alla polizia. Veder marcire all’inferno chiunque le avesse fatto quello, chiunque avesse potuto guardare suo padre negli occhi e avvelenarlo, ammazzarlo come un animale.

E, questa volta, per fermarla non sarebbe stato sufficiente rapirla. Per fermarla, avrebbero dovuto ucciderla.
 
 
 

 
*




« Siamo fottuti. »

La voce squillante ed isterica di Dax rimbombò all’interno della vettura, e il ragazzo reclinò il capo contro il sedile del passeggero.

« Siamo veramente fottuti, questa volta davvero. Andrà dalla polizia. Mi ha visto in faccia, quindi andrà dalla polizia e dirà che sono stato io. E finirò in gabbia, stavolta per davvero. »

« Calmati. »

« Calmarmi? Questa volta non potrai fare niente per impedirlo, perché avranno le prove. Mi sbatteranno in cella e butteranno la chiave. » Tirò su col naso, rigirandosi nervosamente la sigaretta fra indice e pollice, e la cenere gli cadde addosso, sporcando il giacchetto di pelle che indossava.

« Nessuno le ha ancora parlato. È in ospedale, visite riservate solo ai famigliari, e Bellamy non l’ha ancora vista. Sai che lo so. »

« Certo, è facile per te dirlo. Non è te che verranno a prendere. Cazzo, tu non sei nemmeno fra i sospettati. Tu sei, tipo, l’ultima persona sulla faccia della Terra che potrebbero mai incolpare. Non dubiterebbero mai di te. »

« Non ti accadrà niente. Finché farai come dico io, non ti accadrà niente. Devi solo mantenere la calma e non fare assolutamente nulla. Vai a casa, fatti una tirata, non so. Solo, non parlare con nessuno. Intesi? »

Dax a quel punto voltò il capo verso il suo interlocutore, osservandolo per qualche istante.

L’aspetto sempre impeccabile, mai un capello fuori posto, la tipica persona che si incontra per strada e si pensa: “Dio, quel completo deve valere quanto l’ipoteca dell’ipoteca del mio bilocale di merda infestato dai ratti.”

Aveva paura. Aveva davvero paura, perché sapeva che questa volta non ci sarebbe stato modo di scagionarlo dalle accuse che Clarke Griffin, ne era sicuro, gli avrebbe presto rivolto.

Diamine, non c’era davvero modo di farla franca. Ma, sebbene temesse l’accusa, non c’era nulla che temesse più del suo capo.

E se il suo capo gli diceva di non fare niente e calmarsi, lui lo avrebbe fatto.

« Intesi. »
 


 
*

 
 
« … E poi lei gli ha tirato un pugno. Ti giuro, amico, un pugno. Dritto in faccia. »

Miller scoppiò a ridere non appena terminò il racconto, prendendo l’ultima boccata dalla sigaretta e gettandola nel bidone al suo fianco.

« Non riesco proprio ad immaginarlo. » Sospirò con sarcasmo Bellamy, puntando lo sguardo verso le nuvole che ingrigivano il cielo estivo.

« È sempre stato così. Non importa quanto risultasse chiusa in se stessa, quanto non fosse la classica ragazza da baci e abbracci, Clarke ha sempre protetto le persone a cui voleva bene. C’è come questa aurea attorno a lei, sai? È come se ogni volta che si tratta di lei, chiunque sarebbe disposto a fare qualunque cosa. »

« Già. » Mugugnò il moro, incapace di aggiungere altro.

« Lo troverai? Il bastardo che ha provato a farle del male, intendo, lo troverai? »

Il maggiore dei Blake si voltò verso l’altro con espressione fiera e determinata, perché, se c’era una cosa che sapeva in tutto quel garbuglio di misteri e indagini, era che avrebbe trovato chiunque fosse il colpevole.
L’avrebbe trovato e gliel’avrebbe fatta pagare.

« Lo farò, Miller. » Promise. E non appena pronunciò ad alta voce quel nome, improvvisamente gli tornò alla mente qualcosa.

« Aspetta… Miller? Come il Tenente Miller? » Domandò confusamente.

Il ragazzo scoppiò a ridere, gettando lievemente il capo indietro, e annuì brevemente.

« Già. Vedo che allora lo conosci. »

« Ma certo che lo conosco. Lui è… una leggenda! » Esclamò Bellamy, per la prima volta dopo giorni in cui si sentiva veramente entusiasta.

Il Tenente Miller, pluridecorato personaggio del Dipartimento di Los Angeles, era una figura che aveva sempre ammirato,guardandolo da lontano e sperando di poter divenire come lui, un giorno.

Era il secondo in comando del Capitano Sidney, ed insieme avevano preso parte ad alcune delle più importanti indagini degli ultimi decenni, collaborando praticamente con ognuna delle sezioni del Dipartimento, inclusa l’antidroga.

Nathan mostrò i denti inferiore in un’espressione di completa consapevolezza, ma sorrise subito dopo: « Sai, vorrei entrare nelle forze dell’ordine. Sono al primo anno dell’Accademia, e mi piacerebbe unirmi all’antidroga. E mio padre mi ha parlato di te. »

Il moro sbarrò gli occhi. « Tuo padre… Il Tenente Miller ti ha parlato di me? »

« Certo. Sai, lui e Diana sono grandi amici da anni, e il Capitano sembra volerti davvero bene. Parla spesso della grande nuova promessa della lotta al narcotraffico. »

« Dio… » Mugugnò a denti stretti, semplicemente sorpreso di tanta visibilità.

Sapeva che il suo capo si era affezionata al suo caso fin dall’inizio – un ragazzo con così tanti problemi ma con così tante credenziali, potenzialità e abilità che non vedeva da anni – ma non avrebbe mai creduto di poter avere una tale occasione.

« E così volevo chiederti dei consigli. Delle dritte del mestiere, no? »

Il maggiore dei Blake gettò un’occhiata al proprio moonwatch, che segnava pochi minuti alle otto del mattino – l’inizio dell’orario di visite – e contrasse brevemente la mascella.

« Credo che ora dovremmo entrare, ma certo. Sicuramente. Potremmo prenderci un caffè, non appena la situazione si sarà stabilizzata. »

« Ci conto, Bellamy. »

Nathan gli sorrise ed entrambi si diressero verso l’entrata.
 
 
 

 
*




Clarke uscì dalla doccia del bagno della sua camera ospedaliera mentre un odore di caffè e brioche calde si diffondeva attraverso la porta – il vantaggio di essere la figlia del primario, a quanto pareva, era quello di arrogarsi una stanza singola e poter mangiare pasti perlomeno commestibili – e sorrise.

Si asciugò in fretta, indossando un pigiama nuovo che Abby le aveva portato qualche giorno prima, e lasciò i capelli umidi ricaderle pigramente sulle spalle.

Non appena raggiunse nuovamente il proprio letto, notò immediatamente il vassoio su cui erano posati più dolci di quanti probabilmente ne avesse mai mangiati in vita sua, e una ben più invitante tazza fumante.

Adocchiando suo fratello, che era del tutto concentrato a digitare qualcosa sul proprio smartphone, la giovane Griffin si mise a sedere e sbirciò meglio il contenuto della coppetta.

« Non dovresti viziarmi così, sai? »

« In realtà, » E in quel momento sollevò lo sguardo per guardarla, « non sono da parte mia. »

La bionda aggrottò le sopracciglia, confusa, ma immediatamente comprese.

Si aspettava davvero di poterlo ignorare in eterno? Di poter rimandare il momento in cui avrebbe dovuto dirgli che no, non voleva più vederlo, che aveva bisogno di stare sola, ed altre inutili idiozie solo per impedirgli di invischiarsi in qualcosa troppo più grande di lui?

« Dov’è? » Sussurrò, osservandosi nervosamente le mani.

« Qui fuori. Proprio come ieri, e come l’altro ieri, e come il giorno prima ancora. Ascolta, » La voce di Wells si ammorbidì, e lui si allungò verso di lei, « non so per quale motivo tu non voglia parlargli, ma dovrai farlo. E qual è il senso nel lasciar passare del tempo inutile? »

Clarke sbuffò, prese un respiro profondo e puntò lo sguardo nel suo. « Ok, va bene. »

Quando il suo fratellastro si alzò, molto probabilmente pronto a lasciar entrare Bellamy, la sua voce lo interruppe: « Solo non ora. »

Il più grande di casa Jaha la guardò di sbieco, ma non aggiunse o fece altro.

« Gli dirò che stai dormendo, ok? Ma dopo questa ci parlerai. Prometti? »

Ben consapevole di ciò che le stesse chiedendo il suo fratellastro, la bionda annuì solennemente.

« Prometto. »
 
 
 

 
*




Bellamy era pronto a rivolgersi nuovamente all’infermiera quando vide Wells uscire dalla stanza di Clarke.

Quasi correndogli incontro, si fermò davanti a lui e parlò, senza però staccare gli occhi dall’uscio di legno.

« Allora? »

« Sta ripos-»

« Sono stufo di queste stronzate, ok? » L’altro riportò l’attenzione sul suo interlocutore, mentre un muscolo della mascella gli rimbalzava contro la guancia.

« Bellamy… »

« Facciamo una cosa. Facciamo che sono qui come agente Blake », si portò la mano sinistra alla tasca posteriore dei pantaloni neri, e aprì il distintivo davanti ai suoi occhi, « e ho bisogno di parlare con il mio testimone ora. Ne va di un’indagine di rapimento. Quindi, Wells, perché non svegli tua sorella e le dici che sarò pronto ad interrogarla fra dieci minuti? »

Il moro incrociò le braccia al petto con il suo solito atteggiamento spavaldo, sollevando impercettibilmente il mento e sfidando il ragazzo.

Sapeva che non era con lui che avrebbe dovuto prendersela, ma era davvero stanco di quel gioco. L’ultima volta che aveva visto Clarke era stata in quella dannata tavola calda, e non gli era affatto piaciuto il modo in cui l’aveva trovata.

Non gli erano piaciuti i lividi e il vestito strappato, e nemmeno il fatto che qualcuno l’avesse fottutamente rapita.

L’unico figlio di Thelonious Jaha annuì brevemente e tornò da dov’era venuto senza proferire alcuna parola.

In attesa di poter finalmente parlare con l’unica persona con cui avesse effettivamente avuto desiderio di parlare durante quei giorni, Bellamy estrasse dalla tasca della giacca il proprio telefono cellulare e digitò la chiamata rapida per sua sorella.

Al terzo squillo, Octavia rispose con voce impastata dal sonno ma allarmata, in guardia: « Che succede? »

« Tranquilla, O, tutto bene. Volevo solo dirti che… Sono in ospedale, sto ancora aspettando di parlare con Clarke, e non so se potrò tornare a casa per pranzo. Perché tu ed Atom non andate da qualche parte? Ti ho lasciato dei soldi sul bancone della cucina. »

« Hai davvero bisogno di dormire, fratellone. »

Il moro rimase piuttosto spiazzato da quella risposta, che davvero non si sarebbe aspettato, e stava quasi per replicare, quando la più giovane continuò: « Atom non è a casa da una settimana, ricordi? »

Prese un respiro profondo. Dio, aveva davvero bisogno di dormire. Fra le indagini, le deposizioni e la squadra che stava cercando di organizzare, era passato a casa solo un paio di volte, giusto il necessario per prendere gli oggetti più importanti e portarli alla Stazione.

Non a caso, aveva riempito il suo armadietto di vestiti, cambi e spazzolino da denti proprio per non essere costretto a passare di nuovo nella propria abitazione.

« Sì, giusto… » Chiudendo gli occhi, si strinse la base del naso fra indice e pollice, strofinando e pizzicando la pelle in chiaro segno di nervosismo, « Hai ragione. Perché non passi qui, allora? Posso prenderti qualcosa da mangiare in caffetteria. »

« Per questa volta passo, preferirei buttare giù i biscotti inceneriti di Atys piuttosto che pranzare di nuovo in quel posto. Ci vediamo dopo? »

In quel momento Wells uscì nuovamente dalla stanza, e da lontano gli fece un cenno del capo.

Bellamy annuì. « A dopo. »
 
 


 
*




Clarke si passò una mano fra i capelli quasi meccanicamente, in un gesto che compieva ogni qualvolta si sentisse troppo nervosa per fare altro.

Non era che avesse pensato davvero di poterlo evitare per sempre, ma non voleva nemmeno affrontarlo in quel momento.

Perché lei lo sapeva, lo sapeva e non poteva più negarlo: mentire a Bellamy era qualcosa che categoricamente non aveva voglia di fare. Non dopo tutto quello che avevano affrontato.

Non dopo essersi confidata con lui riguardo gli spiacevoli eventi degli ultimi quattro anni della sua vita.

E davvero non voleva mentire all’unica persona con cui fosse riuscita ad essere onesta – a volte un estraneo era il miglior confidente, perché non aveva aspettative e non sapeva nulla dell’altro. Ma lui non era più un estraneo, non da quando il solo pensiero di vederlo le aveva cominciato a procurare brividi lungo tutto la schiena – ma sapeva di non aver altra soluzione a disposizione.

La giovane Griffin sapeva che, se avesse coinvolto la polizia e, più in particolare, Bellamy, poi tutto il suo piano non avrebbe mai potuto realizzarsi. Non sarebbe mai stata in grado di conoscere la verità.

Quello di cui non aveva avuto consapevolezza, però, era che sarebbe stato così difficile.

Perché non era stata di certo sua intenzione, quella di perdere totalmente la testa per quel dannato arrogante che si era rivelato una persona migliore di quanto lei avrebbe mai potuto immaginare, o di quanto avrebbe mai potuto sperare di essere.

Non era sicuramente quello il primo pensiero che aveva avuto quando l’aveva visto.

Tutto quello, la situazione in cui verteva la propria vita, le condizioni in cui si trovava il proprio cuore, non era stato di certo premeditato.

E ora stava per rivederlo, e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che doveva assolutamente togliersi quel pigiama. Doveva essere bella.

Lei, che aveva smesso perfino di truccarsi o di curarsi minimamente del proprio aspetto fisico, ora era letteralmente ossessionata dall’idea di rendersi presentabile. Si sentiva ridicola, a dirla tutta, e anche un po’ squallida, ma non poteva farne a meno.

E niente di quello andava bene.

Era ben consapevole di avere solo qualche minuto prima che il maggiore dei Blake, con ogni sacrosanto diritto, reclamasse la sua attenzione per qualche minuto, perciò la bionda rovistò con urgenza e impellenza nella valigia che Abby le aveva lasciato qualche giorno prima, cercando qualcosa di casual e senza pretese che potesse essere adatto alla situazione.

Dopo qualche secondo, optò per un paio di jeans scuri e una semplice T-shirt nera, con la speranza di non apparire troppo elaborata.

Quando, con un paio di colpi secchi, qualcuno bussò alla sua porta – e sapeva bene che non si trattava semplicemente di qualcuno – Clarke prese un respiro profondo e chiuse per un attimo gli occhi.

« Avanti! » Sospirò.
 
 
 


 
*





Atom continuò a guidare finché la stanchezza non lo colse allo stremo delle sue forze, quando ormai anche tenere gli occhi aperti gli costava una fatica disumana.

Razionalmente era del tutto consapevole dell’inutilità di quello che stava facendo – non importava quanto lontano avesse intenzione di fuggire, quello che aveva fatto l’avrebbe seguito anche in capo al mondo – ma dentro di sé, in una parte remota ma al tempo stesso perfettamente attiva della sua mente, c’era ancora qualcosa che lo spingeva lontano dall’orrore che aveva visto e che aveva commesso, dal tradimento per il suo migliore amico e il male che aveva fatto ad una persona innocente.

Non importava il fatto che non avesse effettivamente e materialmente sfiorato Clarke, poiché sapeva che la sua complicità in quello che era stato sul punto di accaderle fosse innegabile e abbastanza grande da poterlo ritenere diretto responsabile.

Sapeva anche che, per colpa di quello che aveva fatto, non avrebbe mai più potuto rivedere nessuno dei suoi cari: suo padre, con cui non parlava da tempo  (“Tu non sei più mio figlio, e ora esci dalla mia casa!”), sua madre, che in tutti i modi aveva tentato di tenere in piedi una famiglia distrutta già da un pezzo; per non parlare di Bellamy, che, ne era certo, prima o poi avrebbe scoperto il suo coinvolgimento nell’accaduto, e che avrebbe finito irrimediabilmente per odiarlo.

E Octavia, che già una volta aveva lasciato, una ragazzina piena di vita che ora era una giovane donna inarrestabile e combattiva.

Non avrebbe più sentito le loro voci. Non sarebbe più potuto tornare indietro.

Accostando l’automobile nel parcheggio di un autogrill – non voleva nemmeno sapere dove si trovasse precisamente, sapeva solo di aver guidato sempre dritto, il più lontano possibile da tutto quello – Atom tirò il freno a mano e si piegò sul volante, raccogliendosi il volto fra le mani stanche.

Senza pensarci troppo, senza fermarsi a considerare le conseguenze che quell’azione avrebbe potuto provocare, tirò fuori il cellulare usa e getta che aveva comprato quella stessa mattina.

Digitò il numero ben conosciuto, quello che avrebbe potuto comporre anche senza guardare, ed attese.

« Pronto? »

Chiuse gli occhi, di nuovo, e poggiò la fronte sul volante, di nuovo.

La mano che stringeva l’apparecchio sembrava tremare visibilmente, ma il giovane cercò di concentrarsi e immobilizzarsi.

Quando la voce non parlò, per qualche secondo pensò che avesse riagganciato. Poi, d’un tratto: « Atom? » Un sussurro.

« Lui non c’è, puoi parlare… » Aggiunse la voce.

Attese ancora un po’, cercando di raccogliere l’ultimo briciolo di coraggio che gli rimaneva, e subito dopo parlò: « Mi dispiace tanto, mamma. »




 
*




Bellamy si richiuse la porta alle spalle con un tonfo rumoroso, rendendo così impossibile ignorare la sua entrata.

Non appena si voltò, i suoi occhi scannerizzarono l’esile figura di Clarke alla ricerca di qualche ferita grave, o di qualcosa che potesse giustificare il fatto che non avesse avuto possibilità di vederla fino a quel momento.

Ed era strano, perché, nonostante tutto, sembrava stare bene.

« Ehi. » Sussurrò lei, grattandosi il collo e osservandolo.

Aveva sentito la sua voce. Era in piedi. Era viva, e stava bene. Andava tutto bene. « Come stai? »

La giovane Griffin si morse il labbro inferiore e annuì, rivolgendo lo sguardo fuori dalla finestra.

« Non mi è andata male. Insomma, guarda questa stan- »

« Allora puoi dirmi perché ho dovuto tirare fuori il distintivo per vederti? » La incalzò lui, incrociando le braccia al petto in quella tipica posizione che sembrava urlarle: “Non ho mai perso una guerra e non ho la dannata intenzione di perderla ora”.

Lei si concentrò sul suo volto, sulla sua espressione: era visibilmente stanco, probabilmente esausto – lo conosceva abbastanza da sapere che non si fosse fermato nemmeno un attimo – ma c’era qualcosa di più.

E Clarke era ben consapevole di cosa si trattasse. Perciò rimase in silenzio. Non disse nulla, rimase semplicemente a fissarlo, sentendo i suoi occhi scrutarla di rimando, percependo la loro ostinazione e la loro fermezza.

Fu la prima a distogliere lo sguardo, e gli diede le spalle.

« Ti hanno fatto del male? Ti hanno… » Azzardò lui, la voce ridotta ad un sussurro.

La bionda si voltò di scatto, avendo perfettamente compreso quello che aveva insinuato, e si affrettò a dissuaderlo da quei sospetti: « No! No, no, niente di tutto questo. Solo… »

Indicò con l’indice un graffio sul suo zigomo destro, dovuto allo schiaffo con cui l’aveva colpita Dax, e tentò di sorridere. Inutile dire che il risultato fu una smorfia disgustata.

Notando lo sguardo cupo e accigliato del moro, precisò nuovamente: « No, davvero.  »

Bellamy la osservò ancora una volta dalla testa ai piedi, soffermandosi su ogni centimetro del suo corpo, e Clarke provò quasi disagio per il modo in cui la stava facendo sentire.

Il desiderio nei suoi occhi, intrecciato irrimediabilmente alla preoccupazione e alla tenerezza, sembravano scavarle qualcosa dentro, insinuarsi in una parte profonda e intoccabile di sé, denudandola di qualsiasi altro strato superficiale.

Bellamy era in grado di farla impazzire senza nemmeno toccarla.

« E allora cosa? » Bisbigliò lui, portando nuovamente lo sguardo nel suo. Sembrava divorato da un fuoco che gli bruciava dentro, tormentato dalla ricerca di qualcosa molto più grande di lui.

« Hai bisogno della mia testimonianza? » Gli chiese lei, aggirando la domanda che le aveva rivolto e pensando di poter cambiare discorso. Forse, se fosse riuscita a mantenere la loro conversazione su un piano puramente diplomatico, avrebbe potuto impedirsi di sentirsi così male.

« Non lo capisci, Clarke? Non mi interessa della tua testimonianza, non ora. Ho solo bisogno che mi parli. »

« Cosa vuoi che ti dica? » Alzò il tono, poggiando il pugno chiuso contro il tavolino alla sua sinistra. « Che mi hanno picchiata? Sì, lo hanno fatto. Che credevo che sarei morta? È così. Che pensavo che non avrei mai rivisto mia madre, o Wells? O te? »

Poi gli diede le spalle, perché la sua voce aveva tremato sull’ultima sillaba, perché averlo davanti non rendeva affatto più facile il compito di dirgli addio.

La risposta di Bellamy, roca e furente, le arrivò chiara e dolorosa: « Li troverò. »

Era una promessa.

Una promessa che, lei lo sapeva bene, difficilmente avrebbe mantenuto.

Non quando non era lui quello più informato sui fatti. Non quando non era lui a sapere di chi si trattasse, e chi fosse stato a ridurla in quelle condizioni.

Perché quelle informazioni le aveva e le avrebbe avute solo Clarke, e avrebbe fatto in modo che le cose rimanessero tali. Oramai aveva preso la propria decisione: doveva essere lei. Doveva essere lei a vedere con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie la verità, l’unica e dolorosa verità.

E allo stesso modo aveva bisogno di lui, ma non avrebbe mai potuto averlo.

« Ho bisogno di stare da sola. » Mormorò allora, continuando a guardare fuori dalla finestra.

Se solo avesse potuto smettere di sentirlo, forse quel macigno che percepiva gravarle sulla schiena si sarebbe alleggerito.

Il maggiore dei Blake tirò su con il naso in chiaro segno di agitazione – probabilmente era esageratamente arrabbiato con lei, e non poteva nemmeno biasimarlo – e lei lo immaginò annuire, così come era solito fare quando era tutt’altro che d’accordo con una sua scelta.

« So che stasera ti dimetteranno. I miei uomini passeranno al più presto a raccogliere una tua deposizione riguardo quel giorno. »

La giovane Griffin percepì con estrema chiarezza la porta che si richiudeva alle sue spalle, e accolse il silenzio che calò nella stanza come una giusta punizione.
 
 




Quella stessa sera, poco tempo dopo la discussione con Bellamy – e quella non era solo una discussione, lo sapeva così bene, quella era la fine di qualsiasi cosa avessero iniziati – Clarke era pronta ad essere finalmente dimessa dall’ospedale, da quella camera sterile in cui aveva trascorso gli ultimi giorni.

Avrebbe mentito se avesse detto che era totalmente e completamente pronta ad affrontare quello che c’era fuori di lì: era vero, certo, che una parte di lei era fortemente decisa a dare la caccia a chiunque fosse il responsabile della morte di suo padre e del proprio rapimento, ma era altrettanto vero che aveva paura.

Che, nonostante l’onere di cui si sentisse ricoperta e la fermezza con cui era pronta ad assicurare il corso della giustizia, era solamente una ragazza, una giovane diciannovenne che sapeva così poco della vita e di quanto realmente fosse facile metterla a rischio.

A volte sembrava tutto racchiuso in quella semplice frase: era solo una ragazza.

Era solo una ragazza, quando aveva perso suo padre. O meglio, quando qualcuno lo aveva barbaramente portato via da lei.

Era solo una ragazza, quando era stata arrestata per aver cercato di raggiungere la verità – una verità che le spettava di diritto e per cui, a quel punto della sua vita, era pronta a fare qualsiasi cosa fosse necessaria.

Era solo una ragazza, ora che era costretta a mettere da parte un affetto pur di perseguire e trovare un senso a tutto quello che le era accaduto, un motivo per cui fosse toccato proprio a lei vivere quelle cose e provare quelle cose, come se tutto il proprio essere fosse semplicemente determinato e definito dalla sua sofferenza.
Da quello che era costretta a provare. Dal peso del dover provare.

Perché forse era tutto lì: Clarke non sapeva non provare, e per troppo tempo aveva finto di non esser fatta di carne, di non soffrire e di non poter essere scalfita da nulla.

Per troppo tempo aveva finto di potersi tirare indietro dai sentimenti, da quelle emozioni che le frusciavano nel petto e la sconvolgevano in profondità, senza accorgersi che esse s’erano ormai annidate lì dove lei non avrebbe mai potuto raggiungerle.

E, per quanto ci provasse e avesse continuato a provarci, nemmeno lei poteva scappare dall’umanità che la pervadeva e si beffeggiava di lei.

Quando, qualche attimo dopo, qualcuno bussò alla sua camera d’ospedale, la giovane Griffin prese un respiro profondo.

Era intimamente sicura che non potesse trattarsi di chi lei sperava si trattasse, ma non poté fare a meno di lasciarsi andare ad un minuscolo spiraglio di speranza.

Non appena, però, la testa del suo migliore amico fece capolino dall’uscio, in qualche modo si sentì sollevata e rassicurata. Questo era territorio familiare, in cui sapeva come muoversi, qualcosa su cui aveva controllo e sicurezza.

« Posso entrare? »

Clarke annuì, richiudendo la zip della valigia che aveva appena finito di sistemare.

« Bene, ora che non sei più fisicamente instabile, » Jasper si guadagnò un’occhiataccia, ma continuò imperterrito, « penso che dovremmo parlare. »

Nelle menti di entrambi era vivido il ricordo della loro ultima conversazione, quando lui le aveva finalmente confessato i propri sentimenti e lei era scappata in preda alla confusione.

« Sai cosa? Sono stanca di parlare. »

Senza attendere oltre, la bionda chiuse la distanza fra loro e si gettò fra le sue braccia, beandosi immediatamente del calore e della sensazione di intimità che le trasmetteva il corpo del suo migliore amico.

Avrebbe voluto dire di essere in grado di atteggiarsi a spaccona ancora per un po’, ma non ne aveva le forze.

Non dopo quella giornata così stancante, non dopo essersi ritrovata costretta a fare l’ultima cosa che avesse effettivamente voluto fare.

« Starò bene. » Sussurrò contro il cappuccio della sua felpa, annuendo vagamente. « Starò bene se deciderai di non rivolgermi mai più la parola. Starò bene se penserai che sia meglio così, che lasciarci sia la cosa migliore per te. Te lo prometto, starò bene. »

Clarke non voleva più essere egoista. Aveva trascorso gli ultimi quattro anni della sua vita ad esserlo, a tenere fuori chiunque tentasse con tutte le proprie forze di ritagliarsi un qualche spazio dentro di lei, e ne era stanca.

Clarke non voleva più essere la persona che si era cucita addosso per troppo tempo. Questa volta, voleva disperatamente essere se stessa.

« Non lo hai ancora capito? » La riprese Jasper, staccandosi da lei e guardandola negli occhi, « Io non ti lascerò mai, Clarke. Non me ne andrò mai. »

« Anche se… »

« Anche se non andrà mai come avrei voluto che andasse. Senti, lo so, ok? Pensi che non ti conosca? Lo so. E andrà tutto bene, te lo giuro. Ora che mi sono tolto quel peso, va già meglio. Non voglio perdere la nostra amicizia. Non voglio perderti adesso così come non sarò disposto a perderti fra dieci, o vent’anni. »

Fu in quel momento, in quell’esatto attimo, che all’improvviso tutto fu estremamente chiaro: forse, ma forse, lei poteva farcela.

Forse era in grado di sopravvivere a tutto quello che le stava accadendo, a quello che le era successo e quello che ancora doveva avvenire, perché ora, dopo anni, Clarke finalmente vedeva: non era sola.

Non lo era mai stata, nemmeno quando aveva voluto gridare a tutti di ascoltarla, di starle vicino, di stringerla anche quando non faceva altro che respingerli.

E, proprio adesso che lo vedeva, non voleva più negarlo.

Lo decise proprio allora, mentre guardava negli occhi il suo migliore amico e vedeva un affetto che andava oltre etichette e classificazioni, qualcosa di puro e reale: non voleva più portare quel peso da sola.

E forse c’era ancora un tremendo egoismo – un sentimento di cui non sarebbe mai riuscita a liberarsi del tutto – in quel pensiero, ma per una volta non se ne curò.

Piuttosto, senza attendere oltre, prese la decisione di rischiare. Era ora o mai.

« Bene, perché ho un favore da chiederti. » A quel punto distolse lo sguardo da lui, incerta, solo per risollevarlo qualche attimo dopo.

« Qualsiasi cosa. » Le promise il giovane Jordan, accennando un sorriso.

« Mi serve una pistola. »




 
 
  
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