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Autore: ElenCelebrindal    28/02/2015    2 recensioni
Questa è la storia della vita di Legolas. Da quando era un bambino fino alla sua partenza per le Terre Immortali. Bambino, ragazzo e adulto, tutto quello che ha passato assieme a suo padre Thranduil, le sue amicizie e i suoi scontri, tutto riunito in questa fan fiction.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Legolas, Thranduil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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INCONTRI E RACCONTI

“Sono passati ormai più di quarant’anni, da quel malaugurato giorno. Da quella battaglia, in cui molti del nostro popolo hanno trovato la morte. Eppure ancora non riesco a non trascorrere giorno senza pensare ancora e ancora all'’accaduto. Continuo a tornare con la mente sul campo di battaglia, e non riesco a fermare i ricordi su ciò che è successo in seguito. Finirà mai tutto questo?”.
Thranduil, comprensivo, posò una mano sulla spalla del figlio, dopo aver chiuso il libro che stava consultando: “No, Legolas. Non finirà. Non vorrei dover dire queste parole, ma non posso nasconderti la verità. Tutto questo, i tuoi ricordi, la memoria dell’accaduto, non svanirà mai dalla tua mente. Devi imparare a sopportare, a resistere alle conseguenze che i ricordi porteranno sopra di te. Io l’ho fatto, lo sto ancora facendo. Noi non siamo fatti per dimenticare, iôn nîn. Noi ricordiamo sempre. Ricordiamo il bene, il male. Coloro che sono sopravvissuti, e tutti coloro che sono morti. Non lasciamo mai che ciò che abbiamo visto cada nell’oblio. Ti abituerai a tutto, con il passare del tempo. Lo hai fatto con molte cose, prima di questa, e sono certo che non fallirai. Il tuo spirito è forte, non tentare di dimenticare, e vedrai che i ricordi si nasconderanno da soli, per riaffiorare solamente quando tu sceglierai di riviverli”.
Il principe annuì: “Mi aspettavo una risposta simile ma… dovevo chiedertelo. Era molto che quella domanda mi tormentava senza darmi pace, ed ora che ho la risposta, spero di riuscire, come hai detto tu. Hannon le, adar”.
“O! perdonami per aver interrotto la tua lettura con una domanda così sciocca. Non accadrà di nuovo”, disse, incamminandosi verso la porta della biblioteca.
“Nessuna domanda è sciocca, se a porgerla è mio figlio”, replicò Thranduil, mentre il figlio si richiudeva la porta alle spalle.
“Hîr nîn Legolas!”.
Il principe si fermò, al richiamo di Laerion, e si voltò verso di lui: “Hothron Laerion, prestad?” (Capitano Laerion, ci sono problemi?), domandò, preoccupato.
Di rado il Capitano delle guardie lo fermava per delle semplici questioni, e quella volta non fece eccezione: “Orchi sono stati avvistati non troppo lontano dai confini sud-occidentali del regno, in una delle zone meno praticate della foresta. Le guardie di confine hanno subito dato l’allarme”.
“Sono intervenute?”.
“Ú, cund Legolas. Hain dartach canwa nîn” (No, principe Legolas. Aspettano il mio ordine).
“Ú-cerin. Ú-anna dagor” (Non farlo. Non dare battaglia). “Non sappiamo ancora quanti siano, e non dobbiamo assolutamente agire in modo avventato. Manda qualcuno in esplorazione, scopri quanti sono, questi Orchi che si aggirano nella foresta, e torna a riferire a me o a mio padre il re. Non dare l’ordine di attaccare per nessuna ragione al mondo. Falli difendere, se necessario, con archi e frecce, ma non permettere a nessuno di affrontarli a distanza ravvicinata. Sono i miei ordini, ora vai”.
Laerion si inchinò: “Come tu comandi”, si congedò.
Lo guardò salire le scale di uno dei tanti corridoi sospesi del palazzo, poi si allontanò con un sospiro, diretto alle sue stanze.
Era un ottimo Capitano, uno tra i migliori a quanto affermava Thranduil, ma Legolas non poteva soffocare il senso di colpa ogni volta che lo vedeva; il senso di colpa di non avere avuto il coraggio di offrirsi per ricoprire quella carica, rischiando di mettere il padre in imbarazzo.
Scosse la testa, allontanando quei pensieri: aveva già avuto quel discorso con il padre, anni prima, non poteva permettersi di ripensare di nuovo ad una simile sciocchezza, quando tutto si era già risolto senza conseguenze.
Si chiuse la porta della propria stanza alle spalle, e andò a sedersi sullo scranno dietro la scrivania di pesante legno scuro.
Scostò i numerosi fogli che la ricoprivano, perlopiù rapporti inviati da Laerion, e recuperò da un cassetto un disegno regalatogli da Thranduil solo pochi mesi prima.
Era semplice, i tratti resi alla perfezione da sottilissimi tratti di inchiostro nero, ma era una delle cose più preziose che Legolas possedeva: ritraeva sua madre, Vendë, immortalata dall’inchiostro nei giorni che avevano seguito il matrimonio con Thranduil.
Era stato uno dei più bravi artisti del Reame a farlo, e da allora era sempre rimasto tra gli averi del re, mai mostrato a nessuno, tenuto sempre nascosto, alla stregua di un tesoro.
Legolas lo aveva ricevuto dalle stesse mani del padre, che lo aveva ceduto a lui non senza nascondere una certa tristezza.
Il principe lo aveva ringraziato, abbracciato e baciato su una guancia, ma nessuna dimostrazione d’affetto sarebbe stata abbastanza per ringraziare di un regalo simile; Legolas non aveva mai visto un’immagine della madre, o almeno, un’immagine che l’avesse resa alla perfezione, onorandola al meglio.
Una delle statue che ornavano la porta degli elfi la ritraeva, ma non aveva mai dato l’impressione di essere qualcosa di veritiero, uno specchio di ciò che era stato in realtà.
Ormai Legolas tirava fuori dal cassetto il ritratto ogni giorno, imprimendosi bene nella mente l’aspetto della madre che era morta dandolo alla luce.
Non avrebbe mai potuto vedere con i suoi occhi il colore dei suoi capelli, la luce nei suoi occhi, e mai avrebbe udito la sua voce o la sua risata, ma il semplice disegno fatto su pergamena lo aiutava ad immaginare tutto quello, a crearsi l’immagine mentale del genitore che aveva perso senza avere l’opportunità di conoscerlo.
Non avrebbe mai smesso di ringraziare il padre, per l’opportunità che gli aveva concesso con quel semplice foglio di pergamena.
Tuttavia, provava ancora un senso di amarezza, nei suoi confronti, ogni volta che osservava il volto della madre; Thranduil non ne parlava mai, se non di sfuggita, e allora si rattristava sempre, soffocando ogni tentativo di Legolas di chiedergli qualcosa per saperne di più.
Sorridendo tristemente, rimise il disegno al suo posto, attento a non stropicciarlo o a rovinarlo.
Poi cominciò a rimettere a posto il disordine che regnava su quella scrivania; solamente pochi anni prima non aveva mai avuto quel problema, perché i rapporti li riceveva il padre, leggendoli uno ad uno prima di decidere gli ordini da far eseguire, ma il compito lo aveva poi delegato a Legolas, che si era ritrovato, per la prima volta in vita sua, a dover adempiere appieno ai propri doveri di principe del regno.
Se gli affari da trattare non erano troppo importanti, come ad esempio scorribande di Orchi o cose simili, era compito di Legolas decidere cosa fare, riferendo poi al re cosa stava accadendo nel suo regno.
Una volta sistemati al meglio tutti i fogli che affollavano il piano di legno, Legolas decise di andare a riferire le notizie riportate da Laerion al padre, che ormai doveva essere uscito dalla biblioteca.
Difatti, lo trovò seduto morbidamente sul suo trono, una mano chiusa attorno allo scettro di quercia, l’altra abbandonata al suo fianco, oltre il bracciolo.
“Adar”, lo chiamò. “Im gerin sidiath uil Hothron Laerion” (Ho notizie dal Capitano Laerion).
“Pedo” (Parla).
“Mi è stato riferito che Orchi si aggirano tra gli alberi, non lontano dai confini sud-occidentali del regno. Laerion ha evitato di dare ordine di attaccare, non sapendo il numero effettivo di quelle creature”.
“Molto bene. Confido che tu abbia preso in fretta una decisione, come sempre”.
“L’ho presa. Attenderanno di conoscerne il numero, prima di attaccare”, riferì.
Non era la prima volta che gli domandava quali ordini avesse imposto, e Legolas era felice di rispondere a tali domande, perché così poteva sapere se il lavoro che svolgeva era giusto oppure doveva correggere le decisioni.
Thranduil annuì: “Saggia decisione, Legolas. Agoreg vae” (Hai fatto bene), disse solo, prima di sprofondare nel silenzio.
Il principe si domandò quali fossero i pensieri che affollavano la mente del genitore, ma evitò di evidenziare ad alta voce i propri dubbi e fece per andarsene.
Poi, però, si fermò: “Adar?”.
“Sì?”.
“Io… niente. Perdonami”.
Uscì dal palazzo, cercando il rifugio di un albero abbastanza alto dove potersi arrampicare per non essere disturbato e, una volta al sicuro, seduto su uno dei rami più grossi e con la schiena poggiata al ruvido tronco, si permise di ripensare alla domanda che stava per rivolgere al padre.
Perché non aveva avuto il coraggio di farlo?
Aveva sempre desiderato sapere qualcosa in merito alla madre, e quando aveva avuto l’occasione di domandarglielo, aveva esitato.
Posò la testa al tronco, volgendo lo sguardo in alto, lontano, tra le nuvole che a stento si intravedevano attraverso la cortina di foglie, e continuò a ripetersi quella semplice, dolorosa domanda.
Aveva esitato per non rischiare di ferire il padre?
O non aveva avuto il coraggio di rovinare l’immagine che si era fatto del genitore morto?
Il tempo trascorse, senza che mai quei quesiti trovassero risposta, e Legolas scese dall’albero quando ormai era calata la sera, ancora più confuso di quanto non fosse poche ore prima.
Ma se la confusione era più forte, la decisione lo era anche di più; gli avrebbe fatto quella domanda, e avrebbe avuto una risposta.
Trovò Thranduil seduto a tavola, da solo, e mentre si accomodava al suo fianco pensò alle parole da rivolgergli, in modo da non sembrare troppo impaziente o infantile in merito all'’argomento.
Mangiarono in silenzio, con solo la sporadica apparizione di un elfo che riempiva i loro calici quando si svuotavano, sempre senza una parola.
Alla fine della cena, Legolas prese un lungo sorso di vino dal calice che aveva di fronte, sospirò, e decise che era giunto il momento di affrontare quel’argomento una volta per tutte: “Adar? Tollen i lû. Boe pedi” (Padre? È giunto il tempo. Dobbiamo parlare).
“Man anírach henia?” (Cosa desideri conoscere?).
“Im aníron… aníron… Nan aear adh in elin! Pedo uin naneth nîn. Boe isto” (Io desidero…desidero… Per il mare e le stelle! Parla di mia madre. Ho bisogno di sapere”), esclamò il principe, deciso.
La luce negli occhi di Thranduil sembrò spegnersi, tanto in fretta si rabbuiò, nel ripensare alla moglie scomparsa: “Legolas, io… non posso risponderti. Non ci riesco”, tentò di dire, ma venne interrotto: “No! Non questa volta! Sono stanco di avere solo l’immaginazione, dalla mia parte, per sapere che aspetto aveva in realtà mia madre, coma fosse la sua voce, quale fosse il suo carattere. Io ho bisogno di sapere! Non riesco più a lasciarlo da parte, tutto questo. Possibile che non riesci a comprendere?”.
“Forse sei tu quello che non comprende, Legolas”.
“Non dirmi questo. Io comprendo benissimo. So che parlarne ti rattrista, ma non puoi nasconderti dietro un muro per tutta la vita, adar! Tu stesso mi hai detto che devo imparare a superare quello che accade, mantenendo viva la memoria. Anche tu devi farlo!”.
Thranduil si alzò: “Ora basta! Non dire a me quello che devo fare, so meglio di te come comportarmi!”.
“Un tempo non avresti avuto bisogno di urlare, per farti rispettare. Stai tornando ad essere il lontano re che tanto temevo di avere come padre. Perché non capisci? Perché non riesci a comprendere il vuoto che sento dentro di me, ogni volta che cerco di sapere qualcosa su mia madre, ma tu me lo neghi? Come puoi non avere idea di ciò che provo?”.
Legolas sentì una solitaria lacrima scivolargli lungo la guancia: “Come puoi non sapere quali sono i sentimenti di tuo figlio?”.
“Legolas… mi dispiace. Goheno nîn, eglerio” (Perdonami, ti prego). Tornò a sedersi: “Non avrei dovuto reagire in quel modo. Io… io ti capisco, sei mio figlio, come potrei non sapere come ti senti, quando ti nego qualcosa? È solo che… non ci riesco. Non riesco a parlare di lei, non ne ho la forza. Forse, se avrai la pazienza di aspettare ancora…”.
“Quando ancora dovrò aspettare? Quanto dovrò attendere, prima di avere un’immagine reale di mia madre, e non una semplice fantasia?”.
Si alzò dalla tavola, incamminandosi lungo la stanza per arrivare alle scale che portavano al corridoio sospeso: “Mi dispiace, adar. So che forse penserai ch’io sia esagerando, ma fino a che non troverai il coraggio, non resterò a guardare. Non posso restare qui”.
“Te ne vai, dunque?”
“Sì, vado via”.
“E farai ritorno?”.
“Io non posso tornare. Non finché ti ostinerai a nascondermi tutto questo”.
Thranduil sospirò: “Dove andrai?”.
Il principe, voltandosi, rispose, non senza una certa esitazione nella voce: “Non lo so”.
Avvicinandosi, Thranduil rispose: “Va a nord. Trova i Dúnedain. C’è un giovane ramingo tra loro, dovresti incontrarlo. Suo padre Arathorn era un grand’uomo. Suo figlio potrebbe crescere e diventare un grande”.
“Come si chiama?”.
“Nelle Terre Selvagge lo chiamano Grampasso. Il suo vero nome lo devi scoprire tu stesso”.
Legolas si portò una mano al cuore, nel classico gesto di rispetto degli Elfi, e chinò la testa, imitato dal padre, poi gli voltò le spalle e fece per andarsene.
“Legolas, tua madre ti amava. Più di chiunque altro, più della vita”.
Il principe fermò le lacrime prima che potessero sfuggire, e se ne andò senza rispondere, ma con il cuore reso più leggero nell’apprendere anche quella sola, piccola cosa.
 
 
Pioveva ininterrottamente da due giorni, ormai, e il terreno si era trasformato in un pantano di fango, ma Legolas non demorse, e continuò a camminare, senza fermarsi se non per orientarsi meglio sotto l’acqua che scendeva dal cielo come un torrente in piena.
Aveva dovuto rimandare indietro il cavallo che lo aveva portato in groppa perché il suo mantello bianco era troppo evidente nel paesaggio che stava attraversando, e non aveva alcuna intenzione di attirarsi addosso gruppi di orchi o banditi, perciò ora i suoi stivali calpestavano un terreno dove chiunque non fosse stato un elfo sarebbe affondato.
All'’improvviso, sentì un rumore familiare, alle sue spalle, una corda che si tendeva, e senza pensarci due volte mise mano all'’arco e incoccò una freccia, rapido come lo sbattere delle ali di una farfalla, puntandola verso l’individuo che lo stava minacciando.
“Abbassa l’arco. Tu sei da solo, io ho degli amici dalla mia parte”, gli ingiunse quello, con voce ferma.
Legolas capì che diceva la verità; udì un rumore di passi, e in poco tempo di ritrovò circondato.
Lentamente, abbassò l’arco, lasciando però la freccia in cocca: “Non ho intenzioni maligne. Sono un viaggiatore”, disse, tutti i sensi all'’erta.
“Un viaggiatore bene armato, però”, costatò l’uomo che lo minacciava, senza accennare a voler abbassare le armi.
“Chi non viaggia armato, in questi tempi? Chi non ha timore di essere attaccato, viaggiando solo oppure in compagnia? Intuisco che neppure voi avete cattive intenzioni, siete solamente preoccupati per gli avvenimenti di un periodo nefasto come quello in cui viviamo”.
L’uomo dinanzi a Legolas tentennò: “E tu come capisci tutti questo?”.
Legolas si abbassò il cappuccio del mantello, che teneva sollevato per ripararsi dalla pioggia battente, così facendo da scoprire i lunghi capelli biondi e le orecchie a punta, ben visibili: “Sono un elfo, provengo dal Reame Boscoso di re Thranduil. Non avrei motivo di mentirvi, perché se avessi avuto intenzioni tutt’altro che benevole, non sarei rimasto a parlare, imperturbabile di fronte ad una freccia puntata al mio cuore, ma vi avrei attaccato”.
“Un elfo? Ti chiedo perdono, non avevo riconosciuto la razza elfica in te!”, esclamò l’uomo, abbassando all'’istante arco e freccia. “Riponete le armi. Gli elfi non sono nostri nemici”.
“Man i eneth lîn? Ni Dúnadan, i eneth nîn Ador” (Qual è il tuo nome? Sono un Dúnadan, il mio nome è Ador).
Sorpreso, Legolas rispose: “Pedig edhellen? I eneth nîn Legolas. Legolas Thranduilion. Cund uin Taur-nu-Fuin” (Parli la lingua elfica? Il mio nome è Legolas. Legolas Thranduilion. Principe di Bosco Atro).
Sapeva che esporsi in quel modo poteva essere rischioso, ma se davvero erano i Dúnedain che cercava, sarebbe stato onesto.
“Sei il principe del Reame Boscoso, dunque? Se posso chiedere, perché sei in viaggio in queste terre? Oh, ma perché parliamo sotto la pioggia? Se vuoi seguirci, non lontano da qui c’è una grotta in cui potremo ripararci”, disse Ador dopo un rapido inchino, e camminando continuò: “Non è cosa comune incontrare degli elfi, di questi tempi e in questi luoghi, tantomeno ci aspettavamo il figlio di re Thranduil”.
“Ero alla vostra ricerca. Mi è stato detto di trovare un giovane ramingo, Grampasso lo chiamano nelle Terre Selvagge. È questo il motivo per cui mi avete incontrato”, rispose il principe, chinando la testa per non urtare la pietra entrando nella grotta.
L’interno era spazioso, e asciutto, e dall’esterno non era facile da individuare, perciò tutti gli uomini cinque ne contò Legolas, posarono le armi e si lasciarono cadere a terra.
Alcuni si diedero da fare per accendere un fuoco, e in poco tempo il calore scoppiettante delle fiamme già si spandeva all'’interno dello spazio chiuso, senza quasi produrre fumo.
“Usate spesso questo luogo come rifugio”, constatò Legolas, osservando la piccola riserva di legna accatastata in un angolo.
“Sì. Non è raro che ci ritroviamo a passare da queste parti, nei nostri vagabondaggi a caccia di orchi. Grampasso, hai detto? È il nostro capitano. Il sedicesimo Capitano dei Dúnedain del Nord. Posso domandarti il motivo per cui lo stai cercando? Non capita spesso che qualcuno chieda di Grampasso”.
Legolas si sedette a terra, seguendo l’esempio di Ador che era accomodato a gambe incrociate sul duro pavimento di roccia della grotta: “Mio padre mi ha detto di cercarlo, ma non mi ha rivelato il motivo di questa ricerca, quindi in pratica sto quasi brancolando nel buio. Di una cosa, però, sono certo. Non mi avrebbe mai chiesto di intraprendere una simile ricerca se non per raggiungere uno scopo, o almeno, non me lo avrebbe chiesto se non ci fosse stata una ragione dietro il tutto. Altro, purtroppo, non riesco a dire”, rispose.
“Lui e il resto di noi non sono molto lontani da qui. Domani, al sorgere del sole, ci rimetteremo in cammino per raggiungerli. Spero solo che durante la notte questa pioggia smetterà di cadere. Non ho davvero alcuna voglia di rimettermi in cammino sotto un diluvio simile. Se vuoi darmi il tuo mantello, principe Legolas, lo metto ad asciugare accanto al fuoco”.
“Hannon le, Ador”, lo ringraziò, slacciandosi il mantello zuppo d’acqua per porgerglielo.
Ador lo stese accanto alle fiamme, assieme al suo e a quello di altri due Dúnedain, poi tornò a sedersi al fianco di Legolas: “An lema, cund Legolas?” (È stato un lungo viaggio, principe Legolas?).
“Non lungo abbastanza sta sfiancare un elfo, ma sì. Ero in cammino già da molti giorni, seppur sono partito dal Reame Boscoso in sella ad un destriero del mio popolo. Ho dovuto abbandonare la cavalcatura dopo poco, purtroppo, perché il manto bianco del cavallo era fin troppo evidente perciò ho continuato a piedi fino ad ora. Era molto tempo che non affrontavo qualcosa di simile, ma sono lieto di aver intrapreso questo viaggio”.
Ador annuì: “Capisco. Qui animali così appariscenti non sono molto presenti, infatti. Hai fatto bene a lasciarlo, o avresti rischiato l’attacco da parte di qualche brigante. Gli orchi tentiamo di tenerli a bada noi, ma i briganti… essi crescono di giorno in giorno, e si nascondono molto più abilmente delle creature dell’ombra”.
Si distese, coprendosi con una coperta: “Nessuna preoccupazione, qui dentro, però. Riposa, principe Legolas. Qui non si corrono pericoli”, disse, prima di chiudere gli occhi.
Legolas osservò gli uomini attorno a lui che, uno a uno, cadevano nel dolce oblio del sonno, senza tuttavia provare l’istinto di chiudere gli occhi e abbandonarsi al riposo.
Di lì a poco avrebbe incontrato Grampasso, e doveva riflettere: cosa gli avrebbe detto?
Thranduil non aveva accennato al motivo per cui lo aveva inviato a cercarlo, perciò doveva pensare a qualcosa.
Il figlio di Arathorn… aveva già sentito quel nome, ma non vi aveva mai dato troppa attenzione trattandosi di  notizie che non lo interessavano molto, o che almeno non lo riguardavano direttamente.
 
 
Camminarono per tutto il giorno, e continuarono per gran parte della sera avanzando alla sola luce delle stelle e della luna che, dall’alto della volta stellata, li osservava con sguardo vigile e attento, sfera di luce immersa nel nero colore in cui il cielo stava sfumando.
“Conosci la vera storia della luna?”, domandò ad Ador, che di fianco a lui camminava in silenzio, scambiando solo di tanto in tanto qualche parola con gli altri uomini.
“La vera storia della luna?”, ripeté, incerto.
Legolas annuì: “Sì. Ciò che gli Elfi sanno sulla luna, intendo”.
“Solamente che voi credete che la luna non sia un astro, ma un’isola che vaga attraverso il cielo. Senza offesa, ma mi è sempre sembrata molto assurda, come idea”.
“Non è un’idea, tantomeno una semplice credenza”, replicò Legolas, paziente. “La luna non sempre ha avuto il suo luminoso posto nella volta stellata di Elbereth. Gli Elfi più antichi, che hanno avuto la fortuna di poter assistere all'’innalzamento della luna, raccontano spesso la storia di quello che voi credete un semplice astro d’argento. Dopo l’Ottenebramento di Valinor e la distruzione dei Due Alberi, questi Elfi narrano, l’albero dalla luce bianca, Telperion, fece sbocciare un ultimo Fiore d’Argento. Aulë ed il suo popolo costruirono una nave per portare il Fiore d’Argento in alto, su, tra le stelle, e Tilion si offrì per condurre la nuova Luna attraverso il cielo. Tilion è un timoniere, però, instabile, e a volte non appare, oppure compare assieme al Sole per inseguire Arien. La storia della Luna, e del Sole, può sembrare assurda, come tu pensi, addirittura una semplice leggenda per spiegare cosa sia davvero quella sfera di luce d’argento, a noi Elfi non raccontiamo mai nulla che non corrisponda a verità. L’Isola della Luna guidata da Tilion. . . ho sempre amato questo racconto, sin da quando ho acquisito la capacità di leggere e di saper ascoltare”.
Scosse la testa, sorridendo: “Non so neppure perché sto raccontandoti tutto questo. Probabilmente non mi credi”, aggiunse, mettendo così fine al racconto ch’era nato dal semplice desiderio di fare conversazione.
“Non so se credere oppure no, a tutto questo, ma una cosa per me è certa. Voi Elfi siete davvero delle persone meravigliose”, disse Ador, un lieve sorriso ad increspargli le labbra.
“Vieni, siamo arrivati”, aggiunse poi, indicando al principe un punto non lontano dal luogo in cui si trovavano.
Il campo dei Dúnedain non era nulla di spettacolare, constatò Legolas: era semplice, austero e ben nascosto, con poche torce che spandevano la vivida luce rossa delle fiamme poste in vari punti strategici; tende erano sparse in modo all'’apparenza disordinato, ma c’era una corta di logica nelle loro posizioni, intuì, oltrepassandole al seguito di Ador .
Si fermarono dinanzi ad una più isolata delle altre, ma non meno semplice e non più grande: “Qui ti lascio, principe Legolas. Dopotutto, la missione è tua”, disse Ador, sparendo poi tra le tende.
Trasse un sospiro, per infondersi coraggio, e bussò sul palo di legno che reggeva alta la stoffa verde della tenda.
“Avanti”.
La voce che proveniva dall’interno era ferma, decisa. ‘Una voce da capitano’, pensò.
Scostò i lembi di stoffa ed entrò, abbassando il cappuccio del mantello per scoprire il viso: “Il figlio di Arathorn?”, domandò, ancora una leggera incertezza nella voce.
L’Uomo, di spalle a Legolas, si volse nella direzione dell’interlocutore: “Sì”.
Era alto, più del principe stesso, e i suoi lineamenti avevano qualcosa che li rendeva dissimili da quelli degli altri Raminghi; non c’erano dubbi, era un discendente della stirpe Númenoreana perfino più di tutti quanti gli Uomini che, di fuori, adempievano alle loro mansioni.
“Ti ho trovato. . .”, sussurrò, sentendo un sorriso affiorargli sul volto.
 
 
Superato lo stupore iniziale, Legolas comprese molto di quell’Uomo che aveva appena conosciuto, apprendendo più di quanto non avesse sperato da lui stesso; non si sorprese quando, con espressione perplessa, era stato lui a porgli una domanda: “Perché eri alla mia ricerca, principe Legolas? Cosa ti ho portato fino a me?”.
Il principe si accomodò meglio sulla sedia: “In realtà non ne conosco la ragione. O almeno, non ne ho consapevolezza. È stato mio padre a consigliarmi di cercarti, e così sono qui”, rispose, con la speranza di non minare la pazienza del Ramingo con quella spiegazione pressoché banale ed inutile.
Sentiva di potersi fidare di lui, perciò gli raccontò tutto l’accaduto: il dibattito tra lui e Thranduil accese l’interesse dell’Uomo, ma quest’ultimo non parlò fino a che il discorso di Legolas non fu terminato: “Non sei il solo a non avere una madre qui. . . Io l’ho conosciuta, cosa che a te non è stata purtroppo concessa, ma so che è morta, da tempo ormai. Ti comprendo, Legolas, meglio di quanto tu non creda. Ma non voglio peccare di presunzione, perciò mi limiterò a queste parole e non aggiungerò altro”.
“Vorrei che mio padre mi ascoltasse e che mi rispondesse. Ogni volta che sfioro l’argomento si chiude nel silenzio e non pronuncia parola fino a che non decido di parlare d’altro”.
Legolas, però, sentì il sorriso affiorargli alle labbra: “Credo, però, di aver compreso almeno in parte il motivo per cui sono qui. Mio padre vuole ch’io impari cosa si cela davvero in queste terre, ché io mai le ho attraversate, non da solo almeno, e non seguendo la strada che ho intrapreso per trovarti, e desidera ch’io capisca che non sono l’unico ad avere nel cuore la tristezza di non avere una madre, mentre lui recupera la forza necessaria per parlarmi di lei. Sono stato davvero cieco, per non accorgermi di tutto questo, e per non capire che anche lui ha attraversato la mia stessa situazione. Non avrei dovuto rivolgergli delle parole tanto irate come invece ho fatto”.
Aragorn spostò la sedia, portandola accanto a quella dell’elfo: “A volte rabbia e risentimento ci fanno fare cose che non vorremmo, Legolas. Sono certo che tuo padre lo sa. Io non so dirti se le tue deduzioni siano esatte o meno, ma posso assicurarti che, per tutto il tempo che riterrai necessario, potrai restare qui, quale nostro ospite, e seguirci nelle missioni, come nostro alleato. Sei ben accetto, principe”.
“Resterò per un po’. Ma solo a patto che tu smetta di chiamarmi principe, Aragorn”.
Lui rise: “Come desideri. . . principe”, rispose.
Legolas rise assieme a lui: la loro sarebbe divenuta una splendida amicizia.
 
 
“Uccidilo Legolas, non lasciare che scappi!”.
Il grido di Aragorn arrivò chiaro alle orecchie del principe, che subito incoccò l’ennesima freccia e la puntò alla schiena di un orco in fuga, scoccandola all'’istante; la creatura crollò a terra, ferita a morte, e Legolas si voltò a controllare la situazione degli altri Raminghi, tutti intenti a combattere contro uno o più degli esseri disgustosi ch’avevano affrontato.
Era un mese, ormai, che combatteva, si muoveva, respirava al fianco dei Dúnedain, come fosse uno di loro, e nessuno gli aveva mai fatto pesare il fatto che fosse un elfo, o un principe, anzi, era una persona come tante, lì, tra quegli Uomini temerari.
Una persona che, in quel momento, si ritrovava a dover affrontare un’orda di orchi che sembrava non avere mai fine, ma che non batteva ciglio e li abbatteva senza mai sbagliare, freccia dopo freccia, uccidendo ad ogni colpo.
La battaglia, rapida così come era cominciata, finì, e gli Uomini si concessero un attimo di respiro prima di controllare i corpi dei nemici che avevano abbattuto; Legolas, dal canto suo, recuperò le frecce ancora intatte e aiutò un paio di Dúnedain ad occuparsi di un compagno rimasto ferito, rendendosi molto utile grazie alle conoscenze di medicina elfica che aveva appreso studiando da ragazzo.
Ringraziò silenziosamente Oropher, che lo aveva fatto abituare allo studio fin da giovanissimo, e ricambiò il sorriso che l’uomo gli riservò una volta fasciate le ferite che gli avevano inferto.
 
I giorni si accumularono, divenendo settimane, e velocemente le settimane si tramutarono in mesi, mesi trascorsi al fianco degli Uomini, ad apprendere la loro cultura, le loro tradizioni, le loro credenze e i loro racconti: Legolas era spesso al fianco del Capitano, ed i due avevano instaurato ormai una splendida amicizia, destinata a durare per sempre.
Spesso e volentieri, dopo aver svolto le mansioni quotidiane al campo, oppure dopo una vittoria contro dei nemici, i due sedevano accanto al fuoco e conversavano, raccontandosi a vicenda le loro storie, condividendo le loro vite.
Legolas aveva sempre molto più da raccontare, essendo un elfo, ma Aragorn aveva viaggiato molto più dl principe, e ciò che narrava era sempre interessante e coinvolgente. Raccontò della sua infanzia, vissuta nel rifugio elfico di Imladris, narrò di città e villaggi completamente sconosciuti a Legolas, che ascoltava sempre attento.
Il principe, poi, ribatteva con le leggende del suo popolo, le canzoni che spesso, quegli elfi tanto diversi da coloro che l’Uomo conosceva , cantavano sotto le fronde smeraldine degli alberi. Narrò le battaglie ch’anche lui aveva combattuto, tra cui la Battaglia dei Cinque Eserciti che attirò molto l’attenzione del Ramingo, e non poche volte recitava per lui quelle poesie elfiche che incantavano tutte le persone che vi tendevano orecchio.
A poco a poco, impararono a conoscersi e a comprendersi, e Legolas finalmente apprese chi in realtà fosse il Ramingo che tutti chiamavano Grampasso.
Una sera, sette mesi dopo l’arrivo del principe tra i Dúnedain, Aragorn decise di raccontare a Legolas un segreto che a molti soleva nascondere, restio a rivendicare ciò che gli apparteneva di diritto, ovvero il trono di Gondor nella città di Minas Tirith: “Non sono stato completamente onesto con te, Legolas, amico mio. Tu lo sei sempre stato, ma io ti ho nascosto qualcosa della mia vita che rivelo solamente a pochi. Pure, sentivo fin dal principio di potermi fidare di te come di pochi, ma l’egoismo e qualcosa che non posso definire altrimenti se non come codardia mi ha impedito di rivelarti tutto. Non sei l’unico, qui, ad avere sangue reale nelle vene, Legolas. La mia discendenza è quella degli antichi re di Númenor, ché io sono l’erede di Elendil, ovvero legittimo pretendente al trono di Gondor. Potrei diventare re, se solo accettassi il mio destino. Ma non credo di essere pronto a farlo, o quantomeno, non penso di averne il coraggio. Diventare re è qualcosa da cui raramente si torna indietro, e non vorrei dovermene, poi, pentire. Mi dispiace non averti rivelato nulla, ma temevo la tua reazione”.
Legolas ne restò molto sorpreso, ma fece molta attenzione e celò le sue emozioni, rivolgendo ad Aragorn solo un caldo sorriso: “Non devi assolutamente scusarti. Chiunque avrebbe esitato, nel rivelare un segreto di tale portata. Se pochi ne sono a conoscenza, meglio che pochi rimangano, almeno fino a che tu non ritenga i tempi maturi. Sei giovane, secondo i miei criteri, poco più che un ragazzino, ma già un adulto per gli Uomini, perciò la decisione spetta a te e soltanto a te. Mi rallegra sapere ch’io e te siamo divenuti amici a tal punto da poter condividere cose nascoste agli altri, e di questo sono davvero lieto. Tanto mi basta. Tutti abbiamo dei segreti, che forse non verranno mai alla luce, o che compariranno solamente dopo molto, molto tempo. Tutti abbiamo delle cose che vogliamo tenere nascoste, per mantenere intatta la nostra felicità e la nostra calma interiore”.
E, mentre pronunciava quelle parole, comprese appieno il motivo per cui Thranduil lo avesse inviato a cercare proprio i Dúnedain, Aragorn in particolare.
“Oh. . .”, sospirò, causando una reazione perplessa di Aragorn, perciò di affrettò a spiegare: “È per questo motivo che mio padre ha mandato me a cercarti. . . per farmi comprendere che a volte alcune cose è meglio tenerle nascoste, per non farci del male. Ecco perché non ha mai voluto parlarmi di mia madre, per timore di crollare”.
Si passò una mano tra i capelli, lasciando andare un altro sospiro, ed Aragorn gli mise una mano sulla spalla: “Tuo padre deve essere davvero perspicace, allora, per aver compreso sin dall’inizio che tra noi si sarebbe instaurata un’amicizia solida abbastanza da permettere a me di raccontarti tutto sulla mia vita, per far sì che tu comprendessi”, osservò, lieto che l’amico avesse finalmente quietato i suoi dubbi.
“Resterà solida? Ora che ho compreso ogni cosa, credo sia tempo di fare ritorno a casa mia, nel Reame Boscoso. Seppure ho lasciato senza troppi rimpianti mio padre, ne sento la mancanza, e non desidero altro che tornare al suo fianco. Rimpiangerò, se la nostra amicizia dovesse incrinarsi”.
Si abbracciarono: “Nulla a questo mondo potrebbe incrinare il legame di amicizia che si è formato tra di noi, Legolas. Parti tranquillo, torna a casa. Anche tuo padre, sono certo, sente la tua mancanza”.
 
Legolas partì non appena l’alba rischiarò la Terra di Mezzo con la sua pallida luce rosata, cavalcando in groppa ad un magnifico destriero gentilmente imprestatogli dal capitano dei Raminghi; l’animale avrebbe ritrovato da solo la via del ritorno, perciò il principe aveva accettato, dopo qualche esitazione, e si era messo in viaggio, in direzione della casa e della famiglia che tanto amava, ma che aveva abbandonato per poter comprendere più cose su ciò che accadeva dentro e fuori le mura del palazzo.
Abbandonò la cavalcatura dei Raminghi non appena rientrò nel territorio sotto la giurisdizione degli Elfi, e proseguì a piedi, cercando di affrettarsi il più possibile. Sorrise, e sospirò lieto non appena mise piede nella foresta in cui era cresciuto, quando si ritrovò all'’ombra degli alberi, sotto le lame di luce che filtravano tra le foglie.
Mentre camminava, calpestando i sentieri quasi invisibili creati dagli elfi grazie ai loro numerosi passaggi, scorse tra i tronchi scuri degli alberi la vaga sagoma di un cervo bianco e, giunto ad un piccolo ruscello, si fermò, sedendosi a riposare su di una roccia. Allungò le mani verso l’acqua limpida e ne raccolse un po’, portandosela poi alle labbra per ristorare la gola secca.
“Sono appena tornato, e già mi segui, adar?”, domandò, cercando di sembrare irritato. Ma la gioia e il tono scherzoso non si celarono completamente, e il cervo bianco si avvicinò sempre di più, fermandosi solamente a poca distanza da Legolas, tanto che al principe bastò allungare un braccio per affondare la mano nella folta pelliccia dell’animale.
Lo sguardo del cervo era chiaro e liquido, ed aveva tutte le caratteristiche degli occhi di Thranduil.
“Non usare il cervo per seguirmi, adar. . . non fuggirò”.
L’animale si ritrasse, lentamente, e galoppò via nella foresta, scomparendo alla vista. Neanche un minuto dopo, Thranduil fu al fianco del figlio, avvolto in una lunga veste bianca come neve, stringendo uno scettro di legno chiaro, ben diverso da quello che portava di solito.
Il bianco era un colore indossato raramente da Thranduil, ma spesso, quando fondeva la sua coscienza con quella del cervo, lo si trovava abbigliato con quel colore. “So che non fuggirai. . . Legolas, iôn nîn”.
Lo abbracciò, infondendo tutto l’amore paterno che provava nei suoi confronti in quella stretta forte ma dolce: “Mi sei mancato”, sussurrò, in un soffio talmente leggero che solo Legolas poteva averlo udito.
“Anche tu, adar”, rispose il principe, accettando e ricambiando felice l’abbraccio.
“Mi dispiace di aver insistito tanto. . . non avrei dovuto. Ho capito solo ora che non parlarne ti aiuta a non perdere la calma e a non ricadere nella depressione. Goheno nîn” (Perdonami).
Thranduil sciolse l’abbraccio, tuttavia continuando a tenere le mani sulle spalle del figlio: “Ú-moe edaved, Legolas. Non sei il solo ad aver avuto il tempo di riflettere, e comprendere. Anche io ho ponderato tutto ciò che mi hai detto, e ciò che sempre io ti ho risposto. E. . . non è giusto. Non è affatto giusto nei tuoi confronti continuare a nascondere tua madre dietro una cortina di dolore. Se. . . se mi darai un po’ di tempo, solo un altro po’, ti racconterò tutto di lei. Di come l’ho incontrata, del periodo che abbiamo trascorso assieme prima di sposarci, del tempo in cui siamo stati marito e moglie. Ti descriverò la sua voce, il suo aspetto ed il suo carattere. Devo solo essere sicuro di averne la forza”.
“Non devi, se non vuoi. . . me ne sono fatto una ragione, non preoccuparti. Capirò, ora, se rifiuterai ancora”.
Il re scosse la testa, con un sorriso triste: “Hai il diritto di sapere, iôn nîn. Non è solo mia moglie. È tua madre. E nessun figlio dovrebbe conoscere meno di niente della madre”.
Al che, Legolas annuì: “Va bene. Prenditi tutto il tempo che vuoi. Aspetterò anche millenni, se sarà necessario”, acconsentì, in fondo al cuore felice di avere finalmente la possibilità di scoprire qualcosa su colei che lo aveva messo al mondo, perdendo la vita nel farlo.

Piccolo angolino autrice (autrice che dovrebbe essere bandita causa ritardo impossibile)

Ehm... non ho scusanti. Ho commesso una cosa orribile. Un ritardo pazzesco, di ben quattro lunghi mesi. Mi dispiace moltissimo, ma avevo perso l'ispirazione per continuare, e non sapevo più come proseguire la storia. Poi, inaspettatamente, Peter Jackson è diventato il mio salvatore, grazie al "Lo Hobbit - La Battaglia delle Cinque Armate". Grazie al discorso finale tra Thranduil e il caro piccolo Legolas. Da lì, ho finalmente capito come fare per far incontrare Legolas ed Aragorn (anche se all'inizio dovevano vedersi a Gran Burrone), ed avevo cominciato a scrivere. Avrei postato prima di Capodanno, se i problemi di connessione causa neve, un computer che si è quasi fuso, una penna USB improvvisamente resa impossibile da leggere e un mucchio di progetti scolastici non si fossero messi in mezzo ai piedi -_- 
Mi scuso, davvero, e spero che questo improponibile ritardo non sia stato causa del vostro abbandono di questa storia che, malgrado i continui problemi, voglio continuare e portare a termine.
Il prossimo capitolo sarà incentrato molto sulla storia della madre di Legolas (la ricordate? si chiamava Vendë), e non so se verrà lungo come dovrebbe o corto tanto da essere ridicolo.
Bene, ora non mi resta che salutarvi, sperando nel vostro perdono.
Goheno nîn, eglerio.


Hannon le

ElenCelebrindal
 
   
 
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