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Autore: _unintended    01/03/2015    2 recensioni
Bandit prese tra le mani una foto rovinata e ingiallita che ritraeva la sua famiglia, tutti e tre insieme seduti al divano della loro vecchia villa, quella vicina al lago, dove aveva passato tutta l’infanzia. Vide se stessa sulle ginocchia di sua madre, che la stringeva protettivamente, e vide suo padre, in tenuta militare, con quello sguardo intenso che lo aveva sempre caratterizzato fino all’ultimo istante della sua vita. Quello sguardo intenso che soltanto un’altra persona, in tutto il mondo, aveva saputo sostenere e ricambiare altrettanto intensamente. Soltanto una.
Quella sbagliata. In tutti i sensi.
"Se vuoi che non butti questi scatoloni non c’è problema, sai?"la rassicurò sua nipote vedendola così turbata.
"Sarah"
"Sì?"
"Devo raccontarti una storia."
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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No, non è come pensate, lo giuro *incrocia di nascosto le dita dietro la schiena*
…D’accordo ok lo ammetto, ho passato l’intera settimana a drogarmi di Doctor Who e mi sono esiliata dalla società, dalla vita reale e anche da questa ff *sigh*
MA EHIII, SONO TORNATA, e anche se sono ancora a dir poco traumatizzata dalla fine della seconda stagione, eccomi a continuare questa storia che, devo confessarvi, ormai giunge quasi al termine. Mi sento un po’ strana, e proprio come con doctor who e le serie tv o i libri che adoro di più, ho paura di arrivare alla fine, perché poi mi mancherà e ci starò male e non saprò come colmare il vuoto e vbb, piango
Ma tranquilli, mancano ancora alcuni capitoli, e spero che ve li godrete appieno come me li sto godendo io scrivendoli <3
Buona lettura
M.
 
Ps. Beh se non conoscete Black black heart di David Usher (o ancora meglio la cover dei Muse *-*) vi consiglio di rimediare subito assfgghhjkl
 
 
CAPITOLO 24 – BLACK BLACK HEART
 
 
GERARD
 
 
Il treno sferraglia rumorosamente sui binari, facendoci avvicinare sempre di più alla nostra ultima tappa, dopo la quale procederemo a piedi. D’ora in avanti non dovremo più camuffarci o infiltrarci clandestinamente in qualche treno, né superare dogane o posti di blocco.
Siamo in Germania.
Io e Ray, due americani. Nella terra del nemico.
Non so quanto tempo sia passato dal nostro sbarco in Europa, ma devono essere trascorsi cinque o sei giorni, o giù di lì. Troppo tempo. Troppo tempo, continuo a ripeterlo, ma Ray mi tranquillizza e mi dice che siamo quasi arrivati, siamo quasi arrivati, guarda ci siamo quasi, fra un po’ saremo da Frank, ed io gli credo.
Non faccio che sognarlo ogni notte. Sempre lo stesso sogno: prima noi che ci baciamo sul letto, e poi lui che inizia a prendere fuoco senza un motivo apparente, ed io che cerco di aiutarlo, di salvarlo, o di morire con lui, ma ogni volta mi risveglio inzuppato di sudore e devo levarmi faticosamente dalla testa il suo volto sofferente.
Non è stato facile dire a Lynz e Mikey che partivo di nuovo. Non è stato facile dire loro che probabilmente avrei potuto non tornare mai più, che mi sarei di nuovo messo in pericolo di vita, che sarebbe stata una missione suicida e che non avrebbero dovuto più aspettarmi se non fossi tornato entro un mese.
Lindsey mi ha urlato contro per tutta la serata, dandomi la colpa per tutto, gridando così senza senso, tempestandomi il petto di pugni, ma alla fine si è arresa. In fondo mi conosce. E, per quel poco che ha potuto constatare prima che Frank sparisse dalle nostre vite, sa che darei la mia vita per lui. Lo sa e sa che non potrebbe fermarmi, se decidessi di farlo.
Mikey è stato la parte più difficile, ma lui lo ha capito. Lo ha capito e non ha fatto storie, perché era stato il primo ad esortarmi a partire, a darmi speranza. Solo che avevamo passato così poco tempo insieme, dopo il mio ritorno, che mi sembrava di non essere riuscito a dirgli tutto, a spiegargli l’immenso affetto che provavo per lui, e quanto mi era mancato, e quanto volevo solamente che stesse bene e fosse felice.
Poi siamo partiti, e allora non ho pensato più a nulla e a nessuno, se non a lui. Lui.
Non è stato facile nemmeno dopo il nostro arrivo in Europa. Abbiamo dovuto costruirci delle false identità, evitare i luoghi pubblici, non fermarci mai più di una notte nello stesso paese, e soprattutto, man mano che ci avvicinavamo alla Germania, fare di tutto per non essere notati.
Invisibili. Completamente invisibili. È quello che abbiamo imparato ad essere, infiltrandoci in treni merci e nascondendoci tra le casse, vivendo di stenti e mangiando soltanto una volta al giorno, senza mai restare per più di cinque minuti in un supermercato o bar o quel che era.
Se i tedeschi scoprono che siamo qui… siamo veramente fottuti. Non mi importa poi molto di me, e comunque mi farei ammazzare per proteggere Ray, ma mi importa troppo, fin troppo, di Frank, perché se muoio lui morirà, e nessuno mi assicura che potrò rivederlo lassù da qualche parte.
In questi giorni la presenza di Ray è stata praticamente fondamentale. Senza di lui forse ora non sarei qui, non sarei mai riuscito ad arrivare così lontano, mi sarei abbandonato a me stesso alla prima occasione, alla prima difficoltà, e invece con lui ho la forza per tirare avanti, la forza per non lasciarmi abbattere.
“Siamo arrivati” annuncia Ray, e sento il treno rallentare lentamente sui binari. Siamo nascosti nell’ultimo vagone da due giorni, rannicchiati tra casse di pomodori e altra frutta e verdura esportata probabilmente dall’Italia. Non è stato difficile nasconderci nei treni merci che incontravamo lungo il cammino, poiché quasi nessuno controlla mai gli ultimi vagoni e superare i posti di blocco è un gioco da ragazzi.
Il difficile è uscirne una volta arrivati in stazione.
Sentiamo degli uomini avvicinarsi, poi i vagoni vengono aperti ad uno ad uno per scaricare le merci, fino a quando non arriva il nostro turno. Io e Ray ci nascondiamo ancora di più fra le casse, poi sentiamo il portellone aprirsi e la luce ci inonda accecandoci gli occhi. Faccio cenno a Ray di rimanere perfettamente immobile, mentre alcuni uomini entrano dentro al vagone e iniziano a trasportare le merci su un carretto.
Dopo aver caricato alcune casse, si allontanano verso la stazione, facendo sì che questo sia il momento giusto per uscire.
Tre, due, uno.
Ci alziamo e corriamo.
 
 
Circa un’ora dopo, miracolosamente vivi, camminiamo tra gli alberi tenendoci sempre vicino alla strada principale che attraversa questo bosco, procedendo affannosamente per la lunga corsa. Non abbiamo ancora incontrato delle pattuglie tedesche, ma considerato quanto siamo vicini al campo di concentramento, credo che accadrà molto presto.
Non ci posso credere di essere qui. Cioè, a meno che non ci ammazzino all’improvviso colpendoci alle spalle, siamo arrivati. Siamo qui, finalmente. Tra poco potrei… cioè è questione di ore e potrò…potrò vedere Frank. Se è ancora vivo, si intende.
Non voglio illudermi, ma la tentazione è troppo forte. Spero nella speranza, e probabilmente questa cosa mi fotterà ma non voglio pensarci. Lui deve essere vivo. Deve.
“Che cosa faremo, una volta lì?” mi chiede Ray all’improvviso, e forse era ora che qualcuno spezzasse questo silenzio quasi angosciante.
“Non lo so” ammetto “Suppongo dovremo cercare Quinn senza dare nell’occhio”
“E poi? Cosa diremo a quest’uomo?”
E di nuovo mi ritrovo a rispondere con un “Non lo so” che mi butta completamente giù. Sì, gli diremo che ci manda Jamia, e poi? Se davvero Kellin Quinn è un colonnello dell’esercito tedesco, penso sarà alquanto restio a darci una mano per portare via da un campo di sterminio un prigioniero. Chi è Jamia per lui? È abbastanza importante da spingerlo ad aiutarci?
Se lei ci ha fatto il suo nome probabilmente è convinta di sì.
Non so nemmeno chi sia Jamia Nestor, a dirla tutta. So soltanto che mi ha praticamente fatto a pezzi la vita, con quella lettera, e che conosce Frank abbastanza e sa di noi due abbastanza. E che senza di lei non avrei saputo proprio come fare.
Sento la mano di Ray posarsi sulla mia spalla e stringere forte. Lo guardo e mi fa un mezzo sorriso affaticato, aggrappandosi ad un ramo per affiancarmi. “Ce la faremo, sta tranquillo. Siamo arrivati fin qui, non possiamo fallire. Non possiamo andarcene o morire a mani vuote.”
Non possiamo fallire.
Gli credo, o mi sforzo di credergli, non saprei dirlo, ma riprendo a camminare.
Dopo qualche minuto, sentiamo un motore in lontananza avvicinarsi sempre di più, ed io e Ray ci guardiamo intendendoci subito. Lo avevamo pianificato dall’inizio, e ora non c’è più tempo per esitare.
Usciamo dalla boscaglia e ci lanciamo sul sentiero ghiaioso, fermandoci proprio al centro e alzando e muovendo le braccia. Il motore che si sta avvicinando è in realtà un camioncino militare, proprio come avevamo previsto, e ha soltanto due uomini nei sedili anteriori.
Perfetto.
Uno io e uno Ray.
Il furgone si ferma davanti a noi, ed entrambi i soldati scendono con i fucili in pugno, avvicinandosi con aria sospettosa. Gridano qualcosa in tedesco e Ray pare capirli, perché borbotta qualcosa in risposta cercando di non far notare il suo accento americano.
Non sapevo che parlasse tedesco. Il piano era farli avvicinare e poi coglierli di sorpresa, ma così è ancora meglio.
Il primo soldato, un tizio grassoccio con l’aria imbronciata, si avvicina e allunga le mani per perquisirci, rimettendosi dietro la schiena il fucile. Il secondo, più anziano e molto più furbo, rimane un po’ più dietro e continua a tenere l’arma tra le braccia.
Ray si lascia perquisire, e quando il tizio si abbassa leggermente per controllargli le tasche dei pantaloni, capisco che è questo il momento giusto per agire.
Agisci. Agisci e basta.
Con uno scatto fulmineo strappo il fucile dal braccio del soldato e prima che possa rendersene conto sparo all’altro fermo più dietro, mirando dritto alla testa. Quello crolla al suolo, esanime, con una macchia di sangue che si allarga sotto la sua testa, e nel frattempo quando mi giro Ray ha già sistemato l’altro uomo assestandogli un bel calcio nei gioielli. Io lo finisco piantandogli un’altra pallottola nel cervello e poi ci affrettiamo a spogliarli prima che il sangue imbratti i vestiti.
Indossiamo le loro divise e trasciniamo i corpi nel furgone, chiudendo a chiave i portelloni. Poi saliamo a bordo e mettiamo in moto, io alla guida e Ray al mio fianco che cerca di levar via una piccola macchiolina di sangue dalla manica.
Non pensarci non pensarci non pensarci.
Ho ucciso decine e decine di uomini in guerra. Due in più non fanno differenza. Specialmente quando si tratta di Frank.
Agisci.
Procediamo per un bel po’, prima di trovare la fine del sentiero. Con esso termina anche il bosco, e finalmente la strada diventa più ampia, meno accidentata, e in lontananza vediamo finalmente qualcosa.
Degli edifici grigi, una villa, delle ciminiere.
Mi manca il fiato.
Ci siamo.
Ray posa una mano sulla mia. “Da questo momento in poi siamo in pericolo di vita, Gerard” dice in tono sommesso.
Annuisco.
“Lo so.”
Sulla strada fino al campo troviamo diversi furgoni che vanno e vengono, ma nessuno di loro fa particolarmente caso a noi e procediamo indisturbati, fino a quando non raggiungiamo i cancelli del campo di concentramento. Sono enormi, con un’arcata semicircolare e una scritta che dice a grandi lettere “WEIRSTEIN LAGER”.
È questo. È proprio questo. Sento il cuore accelerare i battiti, le mani iniziare a sudarmi, e cerco di mantenere una fredda calma. D’accordo, non ha senso sbagliare proprio ora. Siamo qui, e tra poco potrei vedere Frank. Tra poco, se tutto va bene, e se le mie speranze non sono vane, potrei riabbracciarlo. Tutto questo incubo assurdo potrebbe finire.
Un recinto elettrificato corre per tutta la durata del campo. Oltre di esso, intravedo soltanto sagome lontane che si muovono tra piccole catapecchie di legno, alcuni soldati, altre persone con divise grigie. Suppongo siano i prigionieri. Suppongo che tra quelli potrebbe esserci Frank.
Calma. Sono calmo. Sono davvero calmo.
Il furgone davanti a noi non si ferma ai cancelli, ma svolta a sinistra e segue tutto il perimetro del recinto, fino a quando non lo vedo sparire lontano verso la villa edificata proprio accanto al campo.
Quella deve essere la villa del colonnello Kellin Quinn, e in qualche modo noi dobbiamo parlare con lui.
Decido quindi di seguire il percorso dell’altro furgone e procedo velocemente fino a quando non raggiungiamo un vasto parcheggio sul retro della villa, dove alcuni uomini stanno scendendo dalle auto, altri ci stanno salendo, altri ancora sono fermi a parlottare tra loro.
Parcheggio il furgone il più vicino possibile all’edificio, così che sia più facile raggiungerlo in caso venissimo scoperti. Cosa che spero non accada.
“Dobbiamo entrare lì dentro” dico a Ray.
Lui sospira. “Meno male che avevo un austriaco puro come professore di tedesco alle medie”
Ci sorridiamo e scendiamo dal veicolo, e noto con sorpresa che di nuovo nessuno fa caso a noi.
Almeno fino a quando non ci avviciniamo alla villa.
Due tedeschi ci bloccano il cammino, e uno di loro ci fa delle domande di cui non colgo nemmeno una parola, ma Ray pare capire tutto perché gli risponde pacatamente, e nella sua frase sento il nome “Quinn”. Il soldato lo scruta sospettoso per qualche secondo, poi il suo sguardo scivola su di me e mi fa una domanda diretta, ed è allora che vado nel panico.
No, non può finire proprio ora. Non può.
Apro la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, sento Ray trattenere il respiro accanto a me, probabilmente sta pensando anche lui a un modo per tirarci fuori da questa situazione, ma proprio quando mi sento completamente in trappola, un altro militare tedesco ci si avvicina e scambia due parole con l’uomo che ci stava interrogando, facendogli distogliere la sua attenzione da me.
Tiro un sospiro di sollievo e quando l’uomo torna a guardarci Ray si congeda con poche parole. Il soldato non ci chiede altro e rimane a fissarci mentre noi ci allontaniamo e raggiungiamo l’ingresso posteriore della villa.
Una volta entrati, mi accascio contro la prima parete che trovo e cerco di riprendere fiato. Ray mi imita, ma poi scoppiamo brevemente a ridere. “Immagino non fosse così importante la domanda che mi ha rivolto” commento, curioso di sapere quale fosse.
Ray annuisce. “Voleva sapere se il gatto ti aveva mangiato la lingua o qualcosa del genere” dice ridendo, ed io sospiro sollevato. “Prima di andar via gli ho accennato al fatto che avevi perso la tua famiglia di recente, e che perciò non sei proprio il massimo dell’allegria e della loquacità”
“Ray”
“Cosa”
“Probabilmente non so cosa farei senza di te”
Lui ridacchia e scuote piano la testa. “Se non servo a questo allora per cos’altro sono qui? Forza, andiamo a scovare questo tizio”
La villa è davvero gigantesca. Non sembrava così grande dall’esterno, ma ora che siamo dentro è praticamente impossibile non perdersi tra gli svariati corridoi tappezzati di quadri e arazzi eleganti, tra le enormi sale da pranzo che sembrano destinate ad accogliere più di una ventina di persone, tra le diverse porte chiuse che abbiamo troppo timore di aprire. La casa è deserta, se non fosse per i membri della servitù, e cerchiamo di nasconderci anche da loro perché sarebbe troppo complicato rispondere a delle domande ora. Dobbiamo trovare Quinn il prima possibile e andar via da questo posto.
Finalmente troviamo le scale per il primo piano, e dopo averle salite ci ritroviamo in un altro labirinto di ampi corridoi costeggiati da raffinate porte in ciliegio, ma quando sentiamo dei rumori soffocati provenire da una di esse ci fermiamo di colpo.
“Grazie, Martha, posali pure lì” dice una voce maschile, in inglese ma con un chiaro accento tedesco.
Sento un suono di passi avvicinarsi sempre di più, probabilmente chiunque sia nella stanza sta per uscire, e io e Ray ci guardiamo rapidamente intorno per cercare un nascondiglio.
“Aspetta” dice di nuovo la voce maschile, poi si sente uno stridore di sedia. L’uomo deve essersi alzato, e i suoi stivali avanzano di qualche passo fino a fermarsi, quasi esitanti.
Un sospiro soffocato, poi di nuovo la voce dell’uomo. “Loro… ti trattano bene da quando sei qui?” mormora sommessamente.
Una flebile voce di ragazza risponde. “S-sì…sissignore”
“E tu? Ti piace stare in questo posto?”
Nessuna risposta.
“Dio, che stupido che sono. Certo che non ti piace. Sei anche lontana da tua sorella… scusami”
“Non deve scusarsi, signore. Io… io sto bene”
Dubito che nelle parole della ragazza ci sia un fondo di verità, ma l’uomo sembra rassicurato. Un altro sospiro.
“Martha, io…”
Silenzio.
Sta succedendo qualcosa, perché nessuno dei due parla più.
A un certo punto capisco tutto. Il quadro è completo e chiaro nella mia mente, e finalmente so cosa fare.
“Dobbiamo entrare, Ray” gli sussurro, allontanandomi piano dalla porta. “Dobbiamo coglierlo di sorpresa e sfruttare questa cosa a nostro favore” Lui annuisce, d’accordo con me, e io allungo una mano verso la maniglia.
Un grido alle nostre spalle, un comando urlato in tedesco.
Agisci.
Mi volto di colpo e allungo la mano verso l’arma che ho dietro la schiena, ma prima che io o Ray possiamo fare alcunchè ci ritroviamo due fucili puntati contro il petto.
Due soldati tedeschi ci fissano torvamente e uno di loro comincia a fare domande a raffica, domande a cui né io né tantomeno Ray rispondiamo. Improvvisamente la porta dietro di noi si apre e ne esce prima una ragazza in divisa grigia, pallida ed emaciata, che sgattaiola subito via senza nemmeno guardarci, e poi dietro di lei un uomo.
È giovane, più giovane di quanto immaginassi, ma non riesco nemmeno a guardarlo in faccia che i due soldati tedeschi ci spingono brutalmente a terra, fino a farci inginocchiare, e c’è uno scambio di frasi con un tono furioso sia da parte loro che da parte dell’uomo che immagino sia il colonnello Quinn.
Finalmente.
Devo solo parlare con lui. Devo solo fargli capire che….
Uno dei due soldati ci indica parlando con il colonnello, puntandoci il fucile contro, e quando vedo Ray inorridire capisco in un batter d’occhio. Vogliono fucilarci all’istante, così da eliminare il problema.
Il colonnello Quinn però lo ferma, sollevando una mano. Provo ad alzare la testa per fissarlo, ma il tedesco che mi tiene immobilizzato me la spinge di nuovo giù provocandomi una fitta di dolore. Mi mordo il labbro e rimango zitto.
Quinn sa che noi eravamo dietro quella porta. Deve saperlo, e probabilmente sa che noi sappiamo. La soluzione più semplice per lui sarebbe farci ammazzare così da zittirci per sempre, ma per un motivo ignoto esita.
Con la testa abbassata a fissare il pavimento, riesco soltanto a vedere le sue gambe avvicinarsi fino a mettersi di fronte a me. “Siete americani?” chiede in inglese, ed io e Ray annuiamo piano.
Quinn rimane in silenzio per alcuni secondi. “D’accordo. Portateli nel mio studio al piano di sotto. Voglio interrogarli.”
Io e Ray sospiriamo all’unisono, tremando di sollievo. Abbiamo una sola, ultima occasione per portare a termine questa cosa. E non possiamo sprecarla. Perciò, ci lasciamo trasportare docilmente giù per le scale, attraverso svariati corridoi, fino a quando non giungiamo in un’ampia stanza con una scrivania al centro e una biblioteca che corre lungo tutto il perimetro, alta fino al soffitto, traboccante di libri.
I due tedeschi ci tolgono tutte le armi che portavamo addosso, poi ci infilano delle manette ai polsi e ci fanno sedere sulle due sedie poste di fronte alla scrivania. In attesa.
“Tu” dice uno dei soldati, e quando alzo la testa noto che c’è un’altra persona nella stanza, una persona che non avevo affatto notato. “Se soltanto provano ad alzarsi corri a chiamarci. E vedi di fare un bel lavoro con quei libri, il colonnello non vuole vedere neanche un granello di polvere”
I due soldati se ne vanno, chiudendo a chiave la porta, lasciandoci soli con la piccola figura di cui non mi ero assolutamente accorto, forse perché è così magra e piccola da annientarsi e mimetizzarsi con l’ambiente circostante.
È un… ragazzo, così magro che le ossa gli spuntano al di sotto della casacca grigia e lacera. Ha un fazzoletto colorato legato sulla testa, e porta un piccolo grembiulino bianco come le altre cameriere che abbiamo notato nella villa.
Non ci fissa, non si volta nemmeno, continua a spolverare uno per volta i libri degli scaffali, con le mani che gli tremano e le gambe così fragili e sottili che temo quasi che crolli da un momento all’altro.
Va bene, non mi importa che ci senta. Mi volto verso Ray. “Ce la faremo” gli dico, più per rassicurare me stesso che lui, ma a quanto pare il mio amico è molto più calmo di me perché annuisce solamente e continuare a mantenere lo sguardo fisso su un punto indeterminato della stanza.
“Ce la faremo” sussurra dopo un po’, ripetendo la mia stessa frase.
Sì, anche lui ha paura. Non lo mostra ma ha paura. Aveva paura anche quel giorno in guerra, quando mi parlò di mondi paralleli e altre cose simili, aveva paura e chiacchierava come se nulla fosse, proprio per scacciare quello stesso terrore cieco che si stava impadronendo anche di me.
“Ci ascolterà” dico, riferendomi a Kellin “Ci ascolterà e ci porterà da Frank e…”
Improvvisamente il ragazzo intento a spolverare i libri si volta di scatto, con gli occhi spiritati. Ci fissa per qualche istante e per un attimo sembra quasi che stia per svenire, ma poi sibila quasi impercettibilmente: “Frank?”
Mi alzo di colpo. Il cuore mi fa un salto nel petto e fatico anche soltanto ad aprire bocca. “Frank, sì! Lo conosci?”
Il ragazzo si porta una mano quasi scheletrica alla bocca e vedo un sorriso spuntargli sotto le dita. “Oh, ma tu sei Gerard…sei venuto… a prenderlo…” ansima.
Non faccio in tempo a parlare che la porta dietro di noi si spalanca e mi affretto a risedermi accanto a Ray. Lo guardo con gli occhi sgranati, poi guardo lo strano ragazzo che nel frattempo si è già voltato e ha ripreso a spolverare come se non fosse accaduto nulla.
D’accordo, calma. Fingi, agisci, cerca di ingraziarti il colonnello. Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene, Frank. Ti troverò.
La porta si richiude, e vediamo il colonnello Quinn passarci accanto e andarsi a sedere alla scrivania. “Rayon, puoi lasciarci. Vorrei parlare con questi due uomini da solo.”
Il ragazzo molla tutto e ci supera senza guardarci in faccia, richiudendosi piano la porta alle spalle.
Ora ho finalmente l’occasione di guardare meglio il colonnello Quinn.
È giovane, molto più di quanto avessi immaginato, probabilmente ha soltanto qualche anno più di me. Ha la faccia da… ragazzino, liscia e senza nemmeno un accenno di barba, con qualche ciuffo di capelli scuri che gli ricade sulla fronte e due occhi chiari di una tonalità che non riesco bene a definire.
E quando incontro quegli occhi… non so, non ho mai visto qualcosa di così intenso in vita mia. Sono strani, quasi magnetici, e faccio fatica a distogliere lo sguardo, ma la cosa che mi colpisce di più sono i segreti. Tanti, tanti segreti, celati dietro quegli stessi occhi, segreti che nessuno sa, e che forse nemmeno lui conosce appieno.
Tutta la sua figura emana fascino e mistero e passioni, o almeno emozioni molto, troppo intense che non riesce completamente a nascondere.
“Allora” esordisce, incrociando le mani davanti a sé e portando le gambe sulla scrivania, come se fosse assurdamente a suo agio con noi. “Siete americani, ve lo leggo negli occhi e negli atteggiamenti” constata, poi indica le nostre divise “chi avete ammazzato per prendere quelle?”
Decido di essere sincero. In fondo, non credo che riuscirei a mentire a quest’uomo. “Due uomini, nel bosco qualche miglia prima di questo campo.”
Quinn annuisce piano, come se stesse riflettendo. “Avete nascosto i corpi nel vostro furgone?”
“Sì.”
“Chi siete e che cosa volete?”
Diretto, molto diretto. Mi piace, e credo che giocando al suo stesso gioco potremmo ottenere qualcosa.
“Chi era la ragazza nella tua stanza?” domando, quasi con aria di sfida.
Kellin Quinn socchiude gli occhi e mi scruta attentamente, scandagliandomi da cima a fondo, poi fa un piccolo, quasi impercettibile sorriso. “Potevo farvi uccidere, qualche minuto fa, lo sai vero?”
“Ma non lo ha fatto” interviene Ray.
“Già. Non l’ho fatto. Immagino che dovrei pentirmene.”
“Non è detto” lo correggo “Vogliamo solo che ci ascolti.”
“Chi siete?” chiede ancora lui.
“Io sono Gerard e lui è Ray. Siamo della marina americana.”
Kellin si accarezza piano il mento, fissandoci a lungo. “Siete venuti fin qui dagli Stati Uniti? In territorio nemico…soltanto per… per parlare con me?”
“Non esattamente.”
C’è qualche attimo di silenzio teso e quasi elettrico, mentre ci fissiamo a vicenda come due leoni pronti a sbranarsi.
“Quella ragazza è un’ebrea, vero? È almeno consenziente?”
Non mi aspettavo una risposta, credevo avrebbe continuato a tergiversare o che si sarebbe infine stancato, ma dopo qualche secondo inizia a parlare. “No, lei è… sì, immagino che…”
“Mettiamola in questi termini” ride Ray “Tu le piaci?”
Kellin si alza così di colpo che sobbalziamo entrambi. Aggira la scrivania e viene verso di noi, piantandosi davanti alle nostre sedie e indicando le manette che ci legano i polsi. “Siete voi quelli in catene qui. Le domande le faccio io, è chiaro?” dice rabbiosamente.
No, non era questo l’approccio giusto. Io e Ray annuiamo piano.
“Ci manda Jamia” dico finalmente, immaginando che questo possa farlo calmare.
Oppure no.
La reazione di Kellin è immediata. Sbianca completamente, fa qualche passo indietro e si regge al bordo della scrivania con una mano, come se gli tremassero le gambe. “Cosa?” mormora in un ansito soffocato.
Annuisco, deciso a proseguire. Non possiamo più prendere tempo. “Ci manda lei. Io ho… un amico, americano ma con origini italiane, e lo hanno preso. Lo hanno portato in questo campo, qui proprio sotto la tua villa, e Jamia ci ha detto di venire a parlare con te. Che tu puoi aiutarci.”
Kellin sembra riprendersi. Si allontana dalla scrivania, va verso la finestra e rimane a fissare il paesaggio all’esterno. Per “paesaggio” si intende probabilmente il campo di sterminio con centinaia di condannati a morte che zappano la terra, ma a quanto pare per lui non fa differenza. “Jamia…”
“Sì.”
“Cosa…cioè, il tuo amico era ebreo?”
“No, lui…” mi blocco. Se glielo dico, capirà. Potrebbe essere un motivo in più per farci fucilare, alla fine di tutto questo. Scambio una rapida occhiata con Ray, ma lui mi fa cenno di parlare.
“Lui è omosessuale”
Kellin si gira e mi guarda. Fa un mezzo sorrisetto. “Oh, capisco…”
Stai calmo, stai calmo. Non lasciarti trasportare dalla rabbia che ti sta salendo dentro. Deglutisco e rimango in silenzio, aspettando che dica qualcosa.
“Cosa… cosa vi ha detto Jamia?”
Ok, si inizia a bluffare. “Tutto. Ci ha detto tutto.”
 E spero che quel tutto basti.
Kellin fa un profondo respiro. “E io dovrei aiutarvi a tirar fuori dal campo il tuo fidanzato, altrimenti spiffererete tutto, vero?”
“O lo farà lei” aggiungo, per rincarare la dose.
“No, non lo farebbe mai.”
“Teneva molto a Frank.”
Kellin stringe il davanzale della finestra fino a farsi sbiancare le nocche. “Hans!” dice ad alta voce, e qualche istante dopo la porta della stanza si apre facendo entrare uno dei due soldati di poco prima. “Hans, portali nel bunker. Domani verranno processati. Ho deciso.”
Sento il mondo crollarmi addosso.
“No” sussurro, mentre Hans chiama il suo compagno e insieme vengono a prenderci. “No!” urlo poi, rivolto al colonnello Quinn che rimane a fissarci, fermo alla finestra. Il suo sguardo è praticamente freddo e impassibile, e capisco che mi ero sbagliato su di lui. Credevo ci fosse qualcosa….
Ray accanto a me tira una gomitata al tedesco, ma l’altro lo immobilizza all’istante. Io, momentaneamente libero, corro verso Kellin, provando a fare o dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, e vengo subito raggiunto dai due soldati che mi spingono a terra e poi mi trascinano via.
Guardo Quinn con una sorta di muta preghiera negli occhi, con rabbia, disperazione e odio mescolati insieme, ma lui continua a fissarmi come se non gli importasse niente, come se tutta la nostra conversazione non avesse mai avuto luogo.
Glaciale. Impassibile e glaciale.
E veniamo portati via.
 
 
 
“Mi dispiace, Gerard. Mi dispiace così tanto.”
La voce di Ray mi raggiunge nel dormiveglia. Mi ero quasi addormentato, ci ero quasi riuscito. Addormentarmi, e dimenticare tutto. Lasciarmi andare.
Sollevo piano la testa, massaggiandola per averla tenuta poggiata sul pavimento di pietra freddo e duro per troppo tempo. “Non dirlo, Ray” mugugno, sbattendo piano le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente circostante.
Siamo in questa cella, due piani sotto terra, da stamattina. E, passata la notte, ci uccideranno all’alba.
Moriremo.
Sì, moriremo. Non credo di avere paura, sono solo… triste. Triste, perché mi sono sbagliato su Kellin, triste perché ho trascinato in questa missione suicida anche Ray, triste perché Frank è là fuori da qualche parte, avevo appena ricevuto la notizia che era vivo da quel ragazzo, lui è a un passo da me e io non potrò vederlo nemmeno una volta prima di lasciare questo dannato mondo.
“Ma è vero. Credevo… io ci credevo davvero”
“Sono io che dovrei dire mi dispiace”
“No, non è vero. Preferisco… preferisco morire così, con il mio amico, che morire anonimamente in guerra, o tra tanti e tanti anni, cadendo dalle scale e spezzandomi la spina dorsale, da solo come un cane.”
Prendo la mano che Ray mi porge, e la stringo forte. Ha ragione. Almeno non siamo soli. Almeno siamo insieme.
Frank, ci ho provato.
Perdonami.
Perdonami, e non dimenticarmi.
E poi, dopo ore e ore passate così, ad aspettare una fine, lo sentiamo. Lo sentiamo, dopo un tempo indefinito. Un rumore che spezza il silenzio, dei passi lontani, una torcia. Il tintinnio di chiavi.
Il suono della porta della cella che cigola, e si spalanca.
“Sbrigatevi. Abbiamo soltanto mezz’ora.”
Sollevo la testa. Il colonnello Kellin Quinn ci sta puntando una torcia in faccia e ci offre una mano per aiutarci a rialzarci.
Potrei baciarlo in bocca proprio in questo preciso istante, ma mi trattengo, e riesco soltanto a fare un sorriso screpolato e assetato e affamato. Ray, accanto a me, riesce a farlo un po’ meglio, e quando guardiamo Kellin anche lui ci sta sorridendo. Il primo sorriso genuino che vedo da quando l’ho incontrato.
“Dite a Jamia che è riuscita a vincere, ancora una volta.”
   
 
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