Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
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Autore: Kuri    09/12/2008    0 recensioni
Se esistono due persone davvero uniche in ogni mondo possibile, costoro saranno destinati ad incontrarsi. Un abbraccio lento, il destino, li attrarrà fatalmente l'uno verso l'altra per creare una magia solo per loro, anche se il giusto prezzo da pagare potrà essere solo quello del dolore.
“Aveva vissuto fino a quel momento nell'incrollabile certezza delle proprie idee. Aveva scorto un cammino dritto, teso come il lancio di un sasso verso l'orizzonte, e malgrado gli ostacoli di cui era stato fin da subito consapevole, aveva deciso di seguirlo perché gli sembrava la soluzione migliore. Aveva voluto fare le cose per bene, perché il suo prestigio non potesse essere messo in discussione per nessun motivo.
E poi era arrivata la piccola ragazzina indisponente dagli occhi ardenti e con le movenze di una creaturina dispettosa e, senza pensarci troppo, lei aveva sconvolto ogni piano.”
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Clow Reed, Yūko Ichihara
Note: OOC, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. Nella polvere


Visto da qui lo spazio sembra immobile,
come in attesa che accada qualcosa in più.[1]


Il silenzio strisciava in ogni angolo come un aroma esotico e sconosciuto.
Non credeva che la sua fosse paura.
Forse era molto più simile ad un profondo senso di desolazione, un'emozione languida che le scavava il vuoto nel petto con le dita e con le unghie.
Trovare il mondo deserto non era stato affatto semplice. Aveva frugato ogni angolo delle dimensioni per trovare un rifugio isolato e inarrivabile.
Pensava di esserci riuscita.
In quel mondo sembrava che un alito di morte fosse sceso su tutte le cose, lasciandole immobili e vuote. Non c'era il sussurro del vento, e non aveva mai sentito il frullo leggero delle ali degli uccelli.
Ogni cosa in quel luogo rifletteva la solitudine di un mondo abbandonato.
Ed era quello che lei voleva. Era solo una questione di volontà, non di desiderarlo davvero.
Abbassò lo sguardo sul palmo liscio delle proprie mani, perdendosi nel reticolo delle linee sottili che lo percorrevano, come un libro pronto per essere letto.
Quella era davvero la scelta migliore.
La desolazione, per quanto apparentemente dolorosa, le appariva come la scelta migliore per un esilio voluto.
Era sempre e solo una questione di volontà, non certo di desiderio.
Lei conosceva bene la consistenza dei desideri. Poteva essere soffice, umida, graffiante, ma non era mai arida come sabbia tra le dita. E lei, in quel momento, sentiva la bocca impastata di granellini fini ed insidiosi.
Silenzio, immoto come un'attesa.
Le rimaneva solo l'eco di stupore di un bisbiglio fangoso che le si era appiccicato addosso.
Strega.
Certo non c'era orrore nel modo in cui quelle parole erano state pronunciate – in un altro mondo, un tempo lontano dal cuore – ma un rispetto onesto e sincero. Il potere che le vibrava dentro era stato visto come un'opportunità di prestigio e onore.
Tutti sapevano che nonostante la giovane età sarebbe cresciuta come una donna forte e possente e ne erano felici, dotati della lungimiranza di un popolo saggio e sapiente.
Eppure lei aveva avvertito le dita dell'angoscia penetrarle le viscere, stringendo la loro consistenza umida in uno strattone doloroso.
Perché il suo modo di essere non era più una questione di volontà, ma solo di desiderio.
Le era sempre bastato allungare il collo in un moto di curiosità, nella spinta giocosa di non essere nulla più che una bambina, per buttare un'occhiatina nel cuore profondo di chi la circondava. Il quel luogo buio e umido, tra i filamenti della carne, riusciva a trovare la felicità trepida dei desideri, il loro veleno, tutto il mondo che si trascinavano dietro.
Era una ragazzina di indole allegra. Le piaceva indugiare nell'osservazione delle cose, avvicinando tanto gli occhi a quello che le interessava da sentire la testa girare come il fluire rapido del tempo. Non riusciva ad impedirsi di rovistare tra i desideri e di fare quello che poteva per esaudirli, di allungare una mano per dare un colpetto al destino.
Eppure, nel momento in cui aveva sentito quelle voci osannarla, aveva capito che c'era qualcosa che non andava. Un dettaglio le impediva di essere contagiata dalla felicità di quel mondo e del suo popolo.
Lo aveva capito solo qualche tempo dopo, in un modo così innocente e banale che avrebbe potuto anche non accorgersene.
Camminava lungo la strada accompagnata dai propri servitori. L'abito sontuoso da sacerdotessa le frusciava intorno alle gambe ad ogni passo come una musica e le monete d'oro che ornavano la gonna accompagnavano quella melodia con un vago tintinnio.
Erano passati accanto a delle rozze casupole, attorno alle quali pascolavano gruppi di animali ed erano disseminate rottami di ogni tipo. Lei aveva gettato un'occhiata in mezzo a quell'operosità confusionaria, tra le donne indaffarate che correvano con ceste ricolme di panni lavati e brocche d'acqua.
La figura sparuta della bambina aveva catturato la sua attenzione, ritagliata come una macchia di colore sbiadito in mezzo a tutto quel movimento laborioso. Aveva gli occhi immensi spalancati di meraviglia su un faccino schiacciato e sporco di polvere. Lei aveva incrociato quello sguardo adorante e aveva letto, con una spontaneità naturale, il suo desiderio.
Era qualcosa di piccolo e quasi scontato, qualcosa che lei aveva già sentito in passato, mille volte. E chiunque avrebbe potuto intuirlo con facilità, anche senza alcuna magia.
Si era scostata dalla piccola processione e le si era avvicinata, mentre il corpo della bimba veniva scosso da un tremito di timore. Poi si era tolta la sottile stola di seta bianca che faceva parte dei suoi paramenti sacri, lasciando che i capelli scuri le scivolassero lungo la spalla mescolandosi al biancore della stoffa, e glielo aveva porto, adagiato a cavallo del palmo della mano.
«Prendilo. So che lo desideri.»
La bambina aveva indugiato per un attimo sul velo, poi aveva alzato uno sguardo di sconforto su di lei.
«Avanti, cosa aspetti? So che lo vuoi.»
Aveva visto le ciglia della piccola imperlarsi di lacrime, mentre la manina le risaliva lungo il povero vestito e se lo stringeva al petto.
Lei aveva osservato quel gesto apparentemente insignificante. Inclinando appena la testa sopra la spalla, mentre i capelli di notte le scivolavano sul vestito con un fruscio soffice, aveva guardato quelle dita rosee e paffute serrarsi all'altezza del cuore e un dolore, vivido e risentito, deformare l'espressione della ragazzina.
Aveva sbattuto le palpebre, perplessa e incuriosita. Le sembrava quasi che quella mano cercasse di schermare il cuore dalla sua attenzione involontaria, da quel potere tanto profondo e predatore.
Entrambe conoscevano la vanità di quel desiderio. La bambina non sarebbe mai potuta diventare una sacerdotessa, e dare alla sua famiglia l'agiatezza e il prestigio sociale che questo avrebbe comportato. Non aveva alcun potere, neppure la più piccola scintilla di magia. Era una ragazzina qualsiasi al centro di un'esistenza insignificante.
Un rossore violento aveva imporporato le guance della bambina, quasi un moto di vergogna per quel desiderio tanto sciocco e per essersi permessa di pensarlo, quasi quelle considerazioni fossero arrivate chiare alla sua mente. Era stato stupido volerlo, ancora più insensato permettere che la strega se ne accorgesse e le facesse la carità in quel modo.
Lei si era ritratta, tornando a stringere la stola nel palmo della mano. Non si sentiva ferita da quel comportamento, ma comprendeva la gravità che si nascondeva sotto la superficie del suo faccino imbronciato. Nel mondo in cui le sembrava di aver vissuto fino a quel momento, il suo potere si era inserito come un artiglio in una ferita aperta.
Il giorno dopo se n'era andata.
Non aveva portato nulla con sé, sebbene fosse circondata da oggetti preziosi, da abiti creati appositamente per lei, da animali di compagnia e servitori. Non c'era nulla che potesse rappresentare un ricordo o uno struggimento.
Nel suo cuore non c'era tristezza. La fragilità di ogni più piccolo essere umano le si era presentata di fronte come la traccia inevitabile di ogni loro azione e sentire, ed era una bava mucosa che condannava i loro gesti a rimanere invischiati nel nulla.
Non era stato semplice trovare il mondo deserto.
Aveva dovuto attraversare molte strade e conoscere persone incatenate come lo era stata lei. A volte era un corpo morto e una voce crudele nella testa, altre volte una gabbia all'interno della quale poter solo cantare tristemente sognando le fate. In altri casi era un amore tanto forte da avere i contorni di un odio orlato di sangue e petali di ciliegio, altri ancora era un cuore che ne conteneva un altro e che desiderava disperatamente non sentirsi inutile.
La vista di quelle esistenze le era parsa intollerabile e un disgusto sottile le si era insinuato nell'animo. Non avrebbe mai permesso al proprio potere di governare le sue azioni, trasformandola in un riflesso maligno e osceno. Sapeva che il seme di quella oscurità si trovava dentro di lei, lo sentiva pulsare piano quando tutto, intorno, era silenzio. Era nulla più che un sussurro, un alito freddo tra i capelli.
E la solitudine era parsa la soluzione migliore. Immergersi in una dimensione senza respiri, senza aneliti.
Nel mondo deserto tutto sembrava senza vita e perciò non le sarebbe stato possibile ferire le sue creature. Anche le piante, pur non avendo la consistenza putrida della morte ma ampie aperture smeraldine, erano vuote.
Era così tanto tempo che non avvertiva un desiderio, fuori o dentro di sé, che poteva quasi pensare di averne dimenticato la forma, quell'alone sinuoso e morbido come le spire di un serpente.
Dal castello di macerie in cui viveva non si vedeva neppure il cielo. Le piante erano così alte che invadevano l'aria di un'ombra vibrante.
Era sola al centro di un nulla immenso.
Non un suono, né musica nell'aria. Non esistevano animali e non soffiava il vento.
I suoi abiti non facevano rumore e i suoi gioielli non tintinnavano.
Un'attesa sospesa la avvolgeva.
Quando poi lo sentì, si chiese se non fosse stato il suo cuore ad essere così ricolmo di desiderio da volere follemente anche solo un piccolo suono.
Il fruscio era stato impercettibile ma il ghigno sommesso, quello lo aveva avvertito benissimo.
Nulla più che una risatina dispettosa, come il graffiare di due pietre tra di loro.
Alzò lentamente gli occhi dalla contemplazione annoiata delle trame del proprio vestito consunto e li puntò nella foresta.
Nient'altro che un verde umido e profondo.
Poi un fremito improvviso delle foglie la colse di sorpresa, bloccandole il respiro sommesso.
Forse era una semplice illusione. Era consapevole di quanto fosse semplice ingannare la mente e sapeva di non potersi sentire esclusa da quel genere di debolezza. Respirava come ogni altro essere vivente. La fragilità era quindi un male inevitabile.
Distolse lo sguardo da quell'angolo scuro di felci ombrose. Era decisa a non cedere alla menzogna della propria solitudine.
Ancora un fruscio e la risatina maliziosa.
La curiosità accesa in lei la costrinse a volgere di nuovo il viso in quella direzione.
Due occhi gialli e tondi la fissavano quasi con sfida, mentre la bocca irta di denti candidi e aguzzi sogghignava in una smorfia di dispetto.
Non aveva mai visto una creatura simile. Non tanto per l'aspetto buffo e il piccolo corpo peloso che appariva sgraziato mentre dondolava sulle zampe posteriori. Era la magia che irradiava nell'aria ogni volta che i suoi baffi avevano un fremito.
Era rimasta così a lungo lontana dalla vita, nel mondo deserto, che quella vitalità improvvisa l'aveva sedotta quasi fosse stata la prima volta che assisteva a un prodigio.
Si mosse ancora prima che potesse avvertire coscientemente il desiderio. I piedi scalzi fecero un passo davanti all'altro, sporcandosi della povere impalpabile che ricopriva ogni cosa nel mondo deserto. Avvertì che la creatura seguiva con attenzione e intelligenza ogni suo movimento, mentre le pupille oblunghe si muovevano sullo sfondo giallo delle iridi immense.
Quando si trovò a poco meno di una decina di passi da lei, l'essere ebbe un guizzo repentino e scomparve nel folto delle piante dimenando le sue due lunghe code.
Lei allungò una mano per scostare le foglie ampie mentre i passi affondavano nella terra tenera. In fondo all'oscurità di quel buco umido sentiva la risata dell'animale invitarla a oltrepassare la soglia. Proseguì, lasciando che la tenda del fogliame si richiudesse dietro di lei sommergendola di tenebre.
Non c'erano dubbi su dove quel cammino l'avrebbe portata. Quando sentì la morsa stringerle le viscere, capì dove stava andando.
Un altro mondo e un'altra incapacità di comprendere.
Era inevitabile.

Crateri che io non avevo visto mai
dove si annidano i demoni e gli angeli.


***


Oggi io e te siamo comete instabili,
luci intrecciate che fendono l'oscurità.


Appena la vide, credette che un altro animale fosse riuscito ad intrufolarsi nel giardino della grande casa immersa nella quiete, attratto fin lì dal profumo dei fiori o dal silenzio tranquillo.
Eppure quegli occhi rossi, che lo fissavano quasi fosse stato lui l'intruso, non gli lasciarono alcun dubbio. Forse era una creatura selvatica, ma quella forza indomita era chiusa nell'aspro corpo di una ragazzina vestita di un abito stracciato e impolverato, che un tempo doveva essere stato di una sontuosità superba.
Le sorrise, socchiudendo i piccoli occhi scuri. Lei sembrò non avvedersi di quella smorfia gentile e rimase immobile osservandolo con lieve curiosità, per nulla spaventata.
«Ti sei persa?»
Prima che lei potesse rispondere, i loro sguardi vennero attratti da un rumore sordo. Lui poté vedere un grosso gatto a due code balzare fuori dall'erba alta per arrampicarsi su uno degli alberi adombrati dalla luce viola del crepuscolo.
L'uomo si lasciò sfuggire una risatina sommessa.
«Ah, è stato il nekomata [2] a portarti qui. Ultimamente sta recuperando ogni genere di oggetto dai posti più impensabili.» scosse la testa, sollevando gli occhialini sul naso con una spinta del dito affusolato «Devi perdonarlo. È un gran dispettoso, ma non fa del male quasi a nessuno.»
Lei non si mosse, rimanendo a fissare il gatto che si leccava pigramente una zampa, ma sulle sue labbra fini comparve un sorriso mesto, che destò in lui curiosità.
«È davvero riuscito a raggiungere un posto impensabile.» la vide raccogliere tra le mani la gonna dell'abito e avanzare fendendo l'erba del giardino verso di lui, che era rimasto immobile per tutto il tempo sotto la pergola che circondava l'esterno della casa.
Fu in quel momento che comprese la portata del suo potere e della sua unicità. Non nella semplice prospettiva che lei fosse dotata di capacità speciali e straordinarie, o di bellezza e intelligenza sopra la norma.
Lei era unica, e questo non era un vago accessorio del suo essere, ma la sua stessa essenza. In ogni mondo, in ogni piega che il tempo e lo spazio ricamavano avvolgendosi l'uno sull'altro, lei non avrebbe mai potuto trovare un altro viso su cui riflettere la propria sorte o l'illusione di un destino diverso. E così anche lui.
Quando gli fu accanto, lui abbassò lo sguardo scuro sul sorriso che lei gli rivolgeva.
«Se hai difficoltà a tornare indietro, spero di poterti dare una mano a ritrovare la strada di casa.»
Si sentì sciocco per aver avuto bisogno di riempire il silenzio con una frase tanto vuota.
«Se non ti dispiace vorrei rimanere qui ancora un po'. È molto tempo che non vedo un cielo così bello.» lo aveva raggiungo sotto il riparo fresco delle canne di bambù della tettoia, e aveva posato le mani candide sulla ringhiera per potersi sporgere con un gesto infantile verso il giardino. I suoi piedi nudi sbucarono dall'orlo della gonna e lui sentì il respiro che gli si bloccava per l'imbarazzo.
Il suo non era un problema con le donne.
Nei decenni che erano scivolati tra le sue dita come acqua, aveva conosciuto numerose principesse, veggenti potenti, algide sacerdotesse. Sebbene alcune di loro fossero molto potenti, non si era mai sentito sopraffatto dai loro sguardi o dalle parole taglienti. Riusciva a capire bene, fin dal primo sguardo, quando fragile fosse la maschera che calzavano sul viso per sostenere il peso di tanta forza. Era arrivato al punto di credere che la bellezza e l'intelligenza, nel corpo di una donna, fossero un male incalcolabile.
E ora arrossiva per due piedi impolverati che scalciavano una veste morbida mentre lei, la ragazzina dagli occhi fulvi, si protendeva a guardare il cielo indaco punteggiato di stelle.
Lei rivolse la testa verso l'alto e i capelli scuri le scivolarono sulla spalla mescolandosi alla notte.
«Perché sei venuta fino a qui?»
Lei non diede segno di averlo sentito. Sorrise mentre guardava il cielo e lui vide la luce pallida delle stelle scintillare lungo il suo profilo sottile.
«Lo hai detto tu. È stato lui a portarmi qui.» rispose accennando al nekomata che li osservava ancora dal buio fitto del giardino.
Lui indietreggiò di un passo. Rimase impettito sotto il peso dell'imponente veste sacerdotale di seta in attesa che lei parlasse ancora.
«Ero sola.» lei si voltò di scatto e si appoggiò con la spalla ad una delle colonnine scolpite del pergolato. Ripiegò il braccio sul ventre e lasciò che la mano cadesse abbandonata verso il basso, con le dita inermi come frammenti di giada «Le persone come noi a volte soffrono la solitudine, non trovi?»
Lui abbassò lo sguardo.
Non aveva alcun dubbio che anche lei avesse compreso tutto fin dal primo momento e questo lo fece sentire inaspettatamente sollevato.
Capì che stava camminando dal lieve tintinnio che le frange del suo vestito dorato spandevano tutto intorno. Rialzò la testa e vide il corpo di lei che si muoveva lungo il portico con la consistenza vana di una bava di fumo, ondeggiando come in una danza. Malgrado la magrezza e l'acerbità del fisico, poté intuire le tracce di un impulso controllato a fatica, stordente come un profumo velenoso.
La vide avvicinarsi alla grande gabbia d'argento che dondolava piano nel buio, in un angolo del portico affacciato al giardino. Lei allungò la mano e indugiò a lungo accarezzando le sbarre insolitamente sottili e fitte, che alla fine si contorcevano in riccioli fini.
Lei inclinò la testa sulla spalla.
«Non è giusto che stiano qui dentro. Sono così belle.»
Lui avanzò di alcuni passi, sempre rigido sotto il peso dei paramenti da mago. Lei lo guardava, intensa e bellissima, e lui desiderò allungare le dita per sfiorarle il mento appuntito. Contrasse la mano all'interno della manica, colpito da quel battito forte, dallo scarto del proprio cuore da anni di immota tranquillità. Lo scorrere del tempo gli era sempre parso come una corrente lenta destinata a fluire sotto la superficie. Ora quelle mani stavano rimescolando tutto ciò che doveva essere fermo e silenzioso, e portavano alle sue orecchie lo sciabordio del cambiamento.
Lei parve scorgere i suoi pensieri. Si accigliò, mentre le sopracciglia si piegavano in una curva dubbiosa.
«Ti sbagli, io non sono come loro.»
La sua risposta era stata brusca, come se quel reciproco osservarsi fosse stato un'indiscrezione insostenibile.
«Sono belle e sono infinitamente fragili, potrebbero morire da un momento all'altro. È per questo che le persone le amano tanto.»
Lui scosse la testa.
«Credi davvero che siano così fragili, dopo che hanno avuto il coraggio di perdere la loro pelle, digrignando i denti per la sofferenza, per diventare quello che sono ora?»
Lui sorrise con indulgenza nel vedere il turbamento di lei risentito di tanta sincerità.
Sollevò la mano verso il suo viso. Poi, con uno scatto improvviso delle dita, spalancò la porticina della gabbia alle sue spalle. Per un attimo sembrò che non dovesse accadere nulla nel silenzio più totale.
Un frullio sommesso riempì l'aria. Lei si scostò di lato, radunando la gonna con le mani, quasi si apprestasse ad un meraviglioso inchino.
Le farfalle nere invasero lo spazio intorno a loro riversandosi fuori dalla gabbia. Le videro turbinare come una densa voluta di fumo, spandendo nell'aria la melodia dei battiti delle loro ali. Le vide danzare intorno a lei come impazzite, sfiorarle la pelle nuda delle braccia, e poi sparire rapide, inghiottite dai buio.
Lui chiuse le mani serrando i pugni, mentre la osservava alzare il viso con un ansito stupito, quasi desiderasse rincorrere tutti quei piccoli animaletti tra l'erba del prato. Sapeva che se avesse allungato le dita per sfiorarla, sebbene lo desiderasse con una forza sconosciuta, avrebbe rischiato di sporcare il pallido luccicore che vedeva sulle sue ali, togliendole la capacità di volare.
Non gli restava che una gabbia, un sottile reticolo di nodi per catturare la prima cosa davvero meravigliosa che avesse mai visto.
«Io mi chiamo Clow.» lei alzò il viso e lo fissò «Qual è il tuo nome?»
Lei non rispose. Si morse il labbro inferiore, sbattendo le palpebre in preda ad un'indecisione nervosa.
Lui comprese che lei aveva sepolto il proprio nome in un luogo in cui nessuno avrebbe potuto trovarlo, per non risvegliare tanto doloroso potere.
Clow socchiuse le labbra in un sorriso. Il primo nodo era intessuto, un laccio sottile fatto di una magia oscura e primigenia, una forza capace di legare un cuore, una mente, un corpo e un destino.
«Allora ti chiamerò Yūko, perché sei unica e sei la prima persona ad essere arrivata fino a qui. Mi sembra un nome molto grazioso, non credi?» [3]

Le tue braccia io riscalderò
Finché avrò fiato
Io soffierò via le tue nuvole.


Tra tempeste ed eclissi,
Le galassie e i riflussi,
Tra deserti e ghiacciai
Il mio sole, il mio sole, il mio sole
Sarai.












[1] Corpo Celeste, bonus track del disco L'Eclissi dei Subsonica.
[2] Nekomata, creatura della mitologia giapponese dalla forma di un gatto con due code e con la capacità di camminare sulle zampe posteriori.
[3] Yūko. Wikipedia disse, significa “prima figlia” e mi sembrava una buona soluzione.

   
 
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