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Autore: BlueJasmine    01/03/2015    0 recensioni
È una calda giornata di Luglio quando Olimpia Stevens e la sua migliore amica Katlyn Bloom si dirigono a casa Stevens dopo aver appena terminato gli ultimi esami prima del diploma. Olimpia è una giovane ragazza, appassionata di matematica e di economia, la migliore studentessa del suo anno. Proprio a lei è stato chiesto di introdurre con un discorso di presentazione la consegna dei diplomi di quell'anno. La ragazza non si immagina che tra il pubblico ad ascoltarla ci sarà proprio Nathaniel Masen, un ricco imprenditore, ricercatore universitario, sugli studi del quale la ragazza aveva fatto la tesina finale. Poco prima dell'evento i due si incontrano accidentalmente, mettendo la ragazza in un profondo stato di agitazione. Nathaniel Masen non è solo un uomo incredibilmente intelligente, ma è anche bellissimo, austero, affascinante. La situazione si farà più complicata quando scoprirà nuovi, inaspettati, spesso non troppo felici lati del suo carattere, e quando lui stesso le confesserà che per quell'anno sarebbe stato il suo professore. Tra i due si crea immediatamente uno strano, elettrizzante legame e Olimpia si ritroverà ad avere a che fare con una persona ben diversa da come se l'era immaginata
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Universitario
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 ~~Scontri 

Si alzò dalla sedia, sistemandosi, nervosamente, una ciocca ribelle dietro le orecchie.
“Non hai idea di che cosa ho visto, Ol!”, esclamò Jo allegro, avvicinandosi a lei.
Rimasero qualche istante a guardarsi negli occhi, tutti e tre immobili. Nate si alzò in piedi, di scatto, lei prese l'iniziativa. 
“Jo, Nathaniel Masen; Nathaniel Masen, Jonathan Beck”.
Si guardarono, si studiarono, quindi Jo esplose in un sorriso, stringendogli la mano.
Sarebbe riuscito Jo a non dire niente che la mettesse in ridicolo o a disagio?
“Finalmente la conosco! Olimpia mi ha fracassato la testa per mesi parlandomi di lei”.
Ecco, appunto! Evitò appositamente di incrociare lo sguardo con il suo. Grazie, Jo!
“Beh”, disse Nate liberandosi dalla stretta di Jo “immagino abbiate una tabella di marcia, degli impegni...non vorrei trattenervi oltre”. Le sembrava di nuovo immensamente distante, come la prima volta che l'aveva incontrato. Percepiva che in lui c'era molto più di quanto fosse disposto a far vedere. Incredibilmente con lei l'aveva fatto, sebbene per un brevissimo istante. Sorrise di piacere al pensiero.
“Già: dobbiamo ricongiungerci con i nostri genitori. Pensavamo di andare a visitare l'università oggi”, disse Jo, appoggiandosi a lei. Sì, era ora di andare: avevano perso anche abbastanza tempo. Eppure non si decideva a schiodarsi da lì.
“Mi sembra giusto, già che vi trovate qua”, commentò “allora arrivederci, signorina Stevens. Ci vediamo a Settembre”. Annuì in silenzio.
“E' stato un piacere, signore”, e gli strinse la mano.
Si voltò a guardarlo per un'ultima volta, quindi uscirono dal bar.
“Oh! Grazie per il commento imbarazzante”, disse a Jo, una volta usciti “sei un cretino!”.
Gli diede un pizzicotto sul braccio.
“Ma dai! Perché?”, si lamentò, massaggiandosi il punto in cui l'aveva colpito.
“Secondo te?”, chiese sarcastica “Olimpia è da mesi che mi fracassa la testa parlandomi di lei”. Scimmiottò il tutto, tentando di imitarlo.
“Io non parlo con quella voce!”, protestò, ridendo.
Scosse la testa, desolata: era davvero un'impresa tenergli il muso per più di cinque minuti.
“Dai vieni! Voglio farti vedere questa cosa!”. La prese per una mano trascinandosela dietro.
“Jo! Fai attenzione! Chi accidenti ti ha insegnato ad attraversare la strada in questo modo!”, protestò lei, mentre cercava di tenersi giù il vestito che non ne voleva sapere di starsene giù “Ah! Ah! Stupido vento!”.
La cosa entusiasmante che voleva farle vedere altro non era che un accidenti di modellino di aereo super pregiato, super raro, e via dicendo. Alzò gli occhi al cielo. Perché a me?  Magari se se ne fosse restato lì a fissare estasiato il suo benedetto modellino un po' di più, avrebbe potuto parlare ancora un po' di più con Nathaniel.
“Sono talmente estasiata che a momenti non svengo per l'emozione”, disse, sarcastica.
Le tirò una ciocca di capelli. Scemo del cavolo!
“Jo! Stai buono con le mani!”. Si misero a ridere come due scemi.
Ad un certo punto, Jo piegò leggermente la testa. Che c'è? Si limitò a indicare con lo sguardo un punto indistinto dietro le sue spalle.
“Mi perdoni, signorina Stevens...”. Era Nate.
Spalancò gli occhi, stupita.
Jo la guardava con un enorme punto di domanda stampato in faccia come se si aspettasse delle spiegazioni. Onestamente, nemmeno lei poteva dargliene.
“Mi è venuto in mente che io ho un amico qua, insegna arte alla Portland, e che conosce molto bene l'università, la sua storia e tutto il resto. Visto che non avrete molto tempo per visitarla, ho pensato che potrebbe esservi utile avere una guida che vi indichi le cose più interessanti. Lui sarebbe disponibile: l'ho già sentito”.
Jo sembrava entusiasta all'idea. “Papà sarà felicissimo”. 
Piegò leggermente la testa, arricciando le labbra in un sorriso: perché stava facendo tutto questo? Era molto gentile e delicato da parte sua, e non faceva altro che renderle il suo carattere più difficile a capirsi. Insomma chi era quest'uomo che passava da momenti di totale freddezza a simili gesti?
“Sarebbe molto gentile da parte sua”, si limitò a dire, inumidendosi il labbro inferiore. Aveva la gola completamente secca. “Lei che fa?”, chiese con esitazione.
Rimase qualche istante a fissarla, in silenzio; Jo era intento a parlare con il padre al telefono.
Guardò Jo, poi di nuovo lei. Si voltò a fissare Jo, poi di nuovo lui, confusa. Che stava pensando? “Verrei con voi, se non è un problema. Oggi pomeriggio non ho niente da fare”, disse, infine.
“Allora, perfetto! Mio padre è felicissimo!”, disse Jo, lanciando il cellulare nello zaino.
“Grazie”, disse sorridendogli “è un gesto molto premuroso e gentile”.
Inarcò le sopracciglia, “dipende dai punti di vista”, si limitò a commentare, concentrando la sua attenzione sui modellini esposti. E con questo cosa voleva dire? Improvvisamente era tornato freddo e impassibile.

L'appuntamento era fissato per le due e trenta di fronte alla Portland. Prima lei, Jo e i loro genitori andarono a mangiare qualcosa per pranzo in un delizioso bar vicino all'università.  Lei non riuscì a mangiare molto: aveva lo stomaco chiuso. Perché aveva accettato la sua proposta? L'agitava il pensiero che questa volta non sarebbero stati soli, ma che anche sua madre sarebbe stata presente. E se si fosse accorta dell'ascendente che quell'uomo aveva su di lei? E se avesse finito per dire qualcosa di stupido o fuori luogo, come le capitava spesso ultimamente? Per il momento cercò di non pensarci troppo, ingegnandosi nel mantenere un atteggiamento sereno e impassibile.    
Quando si presentarono al portone principale, lui era già lì che, insieme al suo amico, li aspettava. Rallentò leggermente il passo: aveva una voglia matta di nascondersi dietro a sua madre. Si era cambiato: ora non portava più i jeans e le scarpe da tennis, ma vestiti più formali. Era sempre lui, ma sembrava così diverso da come le era apparso al mattino: più rigido, più contegnoso, meno rilassato. Quando incrociarono gli sguardi, rimase colpita  dalla freddezza con cui la guardò, quasi fossero due sconosciuti.
“Immagino che lei sia Drew Crane, la madre della signorina Stevens. Piacere, Nathaniel Masen”.
Si chiedeva ancora perché avesse fatto loro una simile proposta. Per un brevissimo momento aveva anche pensato che glielo avesse proposto per farle un piacere. Ma, da come la guardava ora, sembrava davvero si fosse sbagliata in pieno.
“Finalmente la conosco, signore”, disse sua madre, stringendogli la mano.
Dopo le dovute presentazioni, iniziarono la loro visita. L'amico di Nathaniel si chiamava Ector Stone: per quel che era riuscita a capire, leggendo su internet, non solo teneva diversi corsi alla Portland ma  era anche un rinomato critico d'arte, un vero e proprio genio, a quanto si diceva.
Quando entrarono nel cortile principale, rimase colpita dalla grandezza e dalla bellezza di quei giardini. C'erano chiostri disseminati qua e là, bacheche piene zeppe di numeri di telefono e di inviti a feste, diversi monumenti in bronzo e in metallo. Finalmente poteva vedere un vero e proprio campus universitario: le foto sul dépliant non rendevano giustizia.   Rimase estasiata dalla bellezza che lì regnava sovrana e per un istante si dimenticò di tutto e di tutti.
“L'università è stata fondata nel settembre del 1901 dall'arcivescovo di Portland, Alexander Christie, con l'assistenza finanziaria della congregazione “Holy Cross”. Inizialmente chiamata Università della Columbia, nel 1930 prende il nome di Università di Portland: nello stesso anno viene fondato il dipartimento di economia; nel 1925 quello di arte e di scienze, nel 1948 quello di ingegneria. Attualmente l'università continua ad essere guidata dalla congregazione fondatrice ed è tra le prime dieci università della costa occidentale”.
Il campus era semi deserto: c'erano pochi studenti che si aggiravano qua e la, probabilmente reduci degli ultimi appelli d'esame prima delle tante agognate vacanze. Sospirò: aveva già messo in conto che iniziando l'università avrebbe dovuto dire addio a certi lussi di cui godeva ora come il sonno, le vacanze o il tempo libero. Eppure, nonostante questo, non stava nella pelle all'idea di iniziare questa nuova avventura.
Sotto l'ombra di un'enorme quercia, protetti dai raggi solari, ascoltavano le interessanti spiegazioni del signor Stone. Era davvero bravo a tenere desta la loro attenzione: si vedeva che amava ciò che faceva e studiava.
Nathaniel se ne stava leggermente in disparte, staccato da loro: il sole giocava con i suoi capelli, dando vita a deliziosi riflessi rossi che non si era mai accorta avesse. Anche vestito di tutto punto non perdeva il suo irresistibile fascino. Voltò leggermente il capo dalla sua parte: che si fosse accorto che lo stava guardando? Concentrò tutte le sue attenzioni su Stone, ma la cosa le sembrò più difficile di quanto pensasse nonostante fosse davvero interessata a quello che diceva. “Ora, se volete seguirmi, vorrei farvi vedere un altro particolare interessante del campus”.
Si mise in fila al gruppo: la metteva a disagio l'idea di stargli così vicina, ciononostante sentirlo così distante. Voleva assolutamente ritrovare la concentrazione per non perdersi nemmeno un particolare di quella visita. Che si fosse sbagliata? Eppure quella mattina le era sembrato che tra loro fosse scattata una silenziosa intesa, che tutti e due avessero per un istante abbassato le loro difese. Si comportava così solo perché non erano soli oppure si era immaginata tutto e basta?
Rimase leggermente in disparte, quando un tipo, seduto su una panchina, abbandonò il suo libro, guardando con fare interessato le sue gambe. Gli lanciò un'occhiata disgustata, ma poi si bloccò distogliendo immediatamente lo sguardo dal suo. Sentì un brivido gelido percorrerle la schiena, il cuore le si strinse in gola: quel ragazzo gli assomigliava terribilmente. Tenendosi la gonna schiacciata sulle gambe con le mani, per evitare che si alzasse correndo, raggiunse il gruppo. Sapeva che non era lui (insomma l'avrebbe pur riconosciuto, no?), ma come accidenti aveva fatto a dimenticarsi che lui stava frequentando il suo ultimo semestre proprio alla Portland?!? Una delle ragioni che l'avevano spinta a depennare l'università di Washington dalla lista dei college papabili, nonostante Seattle fosse più vicina a casa, era stato proprio lui. Quando si erano conosciuti stava appunto pensando di andare a frequentare lì. -Ho saputo una cosa-, le disse un giorno Kat, mentre stavano studiando -ma non so se dirtela o meno-. Praticamente, lui aveva deciso di passare l'ultimo semestre alla Portland per scrivere la tesi: in quei giorni lei stava appunto prendendo in considerazione la possibilità di iscriversi lì. Ma visto che, probabilmente, quando lei si fosse iscritta lui si sarebbe già laureato e che non aveva nessuna intenzione di mettere a repentaglio la sua istruzione per lui, decise di iscriversi comunque. Per quanto le riguardava poteva anche essersi laureato prima che l'estate iniziasse ed essere tornato a Tacoma in pianta stabile, ma se così non fosse stato? Se le sue vacanze estive non fossero ancora iniziate e lui si fosse trovato proprio lì? E se l'avesse visto? L'incertezza la mandava completamente in paranoia. Ormai erano passati due anni da che si erano lasciati: non sapeva bene quale sarebbe stata la sua reazione nel rivederlo. Certo, non sentiva più niente per lui, ma l'idea di affrontarlo la faceva morire dentro.
“Olimpia, che ci fai ferma lì? Vieni!”, le disse sua madre, “stai bene piccola? Hai una faccia”.
Quello non era decisamente il momento giusto per spiattellarle tutte le sue ansie.
“Sì, sì...”, tagliò corto. Inoltre, non aveva nessuna intenzione di rimestare nel passato, soprattutto con sua madre: non era stato un periodo felice quello, per nessuna delle due. La gente a volta sapeva essere davvero caustica e crudele quando ci si metteva d'impegno e con loro due dovevano averne messo tanto. “Tutto bene, davvero”, ripeté cercando di tranquillizzarla. Sperava sinceramente di non doverlo incontrare né ora né mai. Chissà se sarebbe stata così fortunata.
“Signorina Stevens, finalmente la conosco”, disse Ector, quando accidentalmente lo affiancò. Jo, il signor Beck e sua madre se ne stavano più indietro a chiacchierare: persa nei suoi pensieri com'era, non si era accorta di averli distanziati e di essere finita tra Ector e Nate. La sua voglia di chiacchierare le era completamente morta in gola, ora che si trovava in quel confuso stato di agitazione. Stuzzicò Nate con lo sguardo cercando il suo, ma aveva l'aria di chi fosse da tutt'altra parte.
“Mi chiedevo chi potesse essere la ragazza che è riuscita a far scomodare Nathaniel Masen  chiamandomi”. Doveva esserci una certa intimità tra i due visto il modo in cui parlava: certo sembrava che Nate non avesse affatto apprezzato il commento.
Allora quello non era il suo modus operandi: forse l'aveva davvero fatto per farle una  gentilezza. Sorrise sommessamente.
“Allora, economia, eh?”, commentò, mettendosi le mani in tasca “è proprio sicura della sua scelta?”. Aveva un fare decisamente bonario, accomodante. Peccato non fosse stato lui il suo futuro professore di economia: sarebbero andati molto più d'accordo di lei e Nate. 
“Direi di sì”, rispose alzando le spalle “a me piace”.
“Sa, la sua fama la precede: a quanto si dice lei possiede un intuito eccezionale”. Arrossì dall'imbarazzo, sorridendo.
“Non saprei”, disse sistemandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio “chi le ha detto una simile cosa?”. Che fosse stato lui? Ma le sembrava molto strano, visto il giudizio che aveva dato alla sua tesina. Cercò il suo sguardo, ma niente. 
“Il signor Brookcs, il suo ex professore di matematica: io e lui abbiamo fatto l'università insieme e ora siamo in buoni rapporti. Mi ha detto che una sua studentessa, una certa Olimpia Stevens, sarebbe venuta a frequentare qui”. Sorrise beata ripensando al suo professore di matematica: gli sarebbe mancato molto.
“Il signor Broocks è sempre stato così magnanimo nei suoi giudizi, in particolare con me”.
La guardò, incuriosito.
“Lei non crede di meritarsi queste lodi?”. Alzò le spalle.
“Non tanto da farmi precedere dalla mia fama, da parlarne, insomma. Anzi la cosa, in realtà,  mi mette un po' a disagio: la gente poi si aspetta di incontrare chissà chi e, invece, eccomi qua: non sono niente di che. Alcuni direbbero addirittura che la mia intelligenza sia appena... discreta”.
Chissà se aveva colto questa frecciatina?
“Per quanto mi riguarda, ho piena fiducia dei giudizi di Broocks”, disse.
“Forse è il caso che riprendiamo la visita, non trovi Ector?”, chiese Nate. A quanto sembrava la frecciatina l'aveva colta, eccome. Le scagliò contro uno sguardo cruento: non stava certo facendo pensieri felici, ma per lo meno l'aveva un po' smosso.
“Lascia che si riposino ancora un po', Nate”, disse lui, riferendosi a Jo, il signor Beck e sua madre “vorrei parlare ancora un po' con la signorina Stevens. Lei sa che, una volta iscrittasi, potrà scegliere di frequentare un corso al di fuori del suo ambito di studio? Che ne direbbe di cimentarsi nell'ambito artistico?”. Si strinse nelle spalle: l'arte non era decisamente il suo forte.
“Non saprei: so molto poco di arte e lo so molto male. Mia madre, invece, è una grande appassionata, dipinge anche”. Incrociò le braccia, sorridendo.
“Non la facevo così umile, non crede di essere troppo dura con se stessa?”.
“Quando vuole sa essere anche molto saccente”, commentò Nate.
Si sentì gelare il sangue. Perché l'aveva fatto? Che bisogno c'era di dire una cosa simile? Lo guardò sinceramente amareggiata, mordendosi un labbro. Lui, d'altro canto, ricambiò il suo sguardo, fissandola con aria di sfida. Per fortuna Ector non si era accorto di niente.
“C'è qualche artista o opera in particolare che le piace?”, le chiese. Era difficile dirlo...
“Non saprei”, disse, onestamente “credo Rodin”. Alzò un sopracciglio, profondamente colpito.
“Che cosa di Rodin in particolare?”. Su quello non aveva dubbi!
“Il bacio. Trovo che sia incredibile il modo in cui lui riesca a dar vita alla materia: sembra quasi che quella statua debba prendere vita da un momento all'altro, che sia realmente viva. Trovo affascinante come da qualsiasi punto di vista la si guardi, il bacio sembra sempre diverso, come se i due amanti fossero letteralmente in movimento”. La guardò di sottecchi.
“L'avrei detta più da neoclassicismo”. Scosse la testa. Assolutamente, no!
“Direi proprio di no. Non so molto a proposito, però ho in mente Canova. Le sue statue mi fanno paura: sono così semplicemente perfette da sembrare finte, sembrano morte, senza vita. Sono come il limone liofilizzato che si trova nella cheesecake già pronta: quando la vedi ti sembra una bella torta, ma poi la mangi e ti rendi conto che è solo una pallida rappresentazione di quello che una torta o un limone dovrebbero sapere”. Sorrise infilandosi le mani in tasca.
“Sei ancora sicura di volerti iscrivere a economia?”, chiese ridendo “perché puoi sempre cambiare idea e venire a studiare arte raffigurata”.
Nate se ne stava irrigidito, leggermente distaccato da loro. Aveva l'aria di chi non avesse molta voglia di scherzare, mentre Ector sembrava così a suo agio, allegro. Dovevano avere si o no la stessa età, intorno ai trenta, eppure Nate aveva un atteggiamento, un modo di fare molto più sostenuto, distaccato. Per come si comportava sembrava molto più vecchio di quanto in realtà fosse. A che cosa stava pensando? Perché sembrava così diverso da quella mattina? Che cos'era successo da che si erano separati? Avrebbe voluto prenderlo per la giacca e scuoterlo con forza.
“Ad ogni modo ha le idee molto chiare sull'arte per una che ritiene di saperne molto poco e  male”, commentò Ector, sorridendo. Accidenti! Forse aveva parlato troppo, di nuovo!
“La signorina Stevens sa un sacco di cose su un sacco di roba, visto quanto dice...e scrive”.
Era impossibile non cogliere il riferimento al suo elaborato, così come non era possibile soprassedere al  tono sarcastico. Abbassò lo sguardo umiliata, impallidendo improvvisamente. Perché le stava facendo questo? Perché la metteva in ridicolo, a disagio? Perché aveva perso qualsiasi tipo di sensibilità? Chissà che impressione si era fatto di lei, ora, Ector. Trattenne a stento le lacrime.
“Io trovo che sia un'ottima qualità sostenere con decisione le proprie tesi”, disse sorridendole affabilmente “tra l'altro nemmeno io sono un grande appassionato di neoclassicismo”.
Almeno lui non aveva dato peso alle sue parole.
“Ma, ora, forse è davvero il caso di andare”, disse “intanto vorrei scambiare due parole con sua madre”. E se ne andò.
Rimasero soli, lui e lei, fermi immobili, senza guardarsi.
Fece per andarsene, le bloccò leggermente la strada. La guardava con insistente durezza.
“Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato, per caso?”, chiese ad un certo punto, non riuscendo più a sopportare quello sguardo “Perché lo hai fatto? Perché hai detto quelle cose?”.
Spalancò leggermente gli occhi: era la prima volta che gli dava del tu.
“Le ricordo, signorina Stevens, che sarò presto un suo professore: stia attenta a quello che dice e sopratutto non mi dia del tu”. Sembrava profondamente irritato, irrequieto. Che cosa voleva da lei?
“Tu non sei ancora il mio professore, fino a prova contraria”, disse, stringendo i denti.
Era la prima volta che rispondeva in quel modo a una persona più grande di lei: aveva sempre avuto un grande rispetto per l'autorità. Ma le si era letteralmente spento il cervello.
“Olimpia...”, ringhiò, afferrandole un braccio e spingendola più verso di sé “non mi parlare mai più così”. Aveva lo sguardo accecato ma non capiva da cosa. Per la prima volta aveva pronunciato il suo nome e non più quel fastidioso signorina Stevens. Aveva un suono bellissimo il suo nome pronunciato da lui. Cercò di liberarsi dalla presa (che cosa avrebbero pensato se li avessero visti?), ma sembrava irremovibile. Era la prima volta che si toccavano, che lui la toccava: le sue mani erano calde e avvolgenti e, per quanto potesse farle male, provava uno strano piacere nel sentirlo così vicino.
“Perché? Perché sei stato così tremendamente freddo con me oggi? Perché hai voluto a tutti i costi mettermi a disagio davanti al tuo amico?”. Strinse la mandibola.
“Mi hai provocato apposta e lo sai”, si limitò a dire.
“Ti ho provocato non per farti arrabbiare, ma per vedere un minimo di emozione: è tutto il giorno che mi tratti con indifferenza e non lo sopporto”. Lasciò la presa. Aveva un segno rosso sul braccio, le sue dita. Si mise il golfino prima che qualcuno lo vedesse.
“Ti tratto come devi essere trattata, Olimpia”, disse tenendo lo sguardo fisso nel suo “come meriti di essere trattata”. Okay, quindi lei meritava di essere trattata con freddezza?
“E come merito di essere trattata, precisamente?”, chiese.
Sospirò, facendo un passo indietro e passandosi le mani sul volto. Sembrava molto stanco, affranto. Che cosa stava pensando? 
“Mi dispiace, per il braccio: non avrei dovuto toccarti”, disse, desolato “non avrei proprio dovuto, perdonami”. E se ne andò.

Di tutti i modi in cui potevano concludere quella conversazione, quello era il peggiore. Per un istante, nel momento stesso in cui aveva lasciato la presa, pensava di aver visto qualcosa dietro a quell'espressione granitica: dolore, fatica, rabbia? Ma poi niente, se ne era semplicemente andato. C'era qualcosa di insano nel modo in cui si relazionavano, al limite della didattica, anzi, ben oltre. E non era ancora iniziata l'università. Come avrebbe fatto a sostenere la sua presenza per un intero anno? Come avrebbe fatto a mettere da parte quell'evidente chimica che li legava? Che li rendeva  empatici, e, poi, immediatamente dopo, li faceva scontrare? 

   
 
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