Capitolo 30
Ero in dormiveglia, a metà tra l’incoscienza
e la capacità di aprire gli occhi e iniziare un’altra faticosa e fredda
giornata.
Fredda. Eppure un flebile getto di
aria calda mi faceva venire la pelle d’oca dietro la nuca a intermittenza. Ammetto
che per un po’ fu anche piacevole, ma alla ventesima volta iniziò a
spazientirmi. E solo in quel momento feci caso allo strano peso che gravava sul
mio fianco destro, ma muovere il gomito tendando di capire cosa fosse non mi
aiutò né a spostare l’oggetto ignoto né ad indentificarlo.
Mi voltai sull’altro fianco,
arrotolandomi nelle coperte e lasciando mezza scoperta la schiena, quando
scontrai contro qualcosa di morbido e caldo. Aprii gli occhi di scatto, ma la
vista era appannata, le ciglia ancora appiccicate, impedendomi di mettere a
fuoco quella macchia rosa e nera, causa del mio brusco risveglio.
«Che diavolo…» senza la forza di tirarmi su, mi
passai due dita sugli occhi nella speranza di togliere quel fastidioso appanno
e Dio mi è testimone –nel caso fosse esistito- che per poco non caddi dal letto.
«Gesù Cristo!» Charles Lee. Charles Lee a poco
più di cinque centimetri da me, con la punta del suo naso a un millimetro dal
mio, i suoi baffi troppo vicini alla mia bocca e, cielo, il braccio comodamente
appoggiato a me, come fossimo una coppia di sposini alla loro prima notte di
nozze.
Lo allontanai con una spinta
stizzita, una mano sul petto nudo e vigoroso e il piede contro una coscia.
Rotolò supino, finendo nella sua metà di letto senza svegliarsi. Dio, parlavo
di metà di letto riferendomi a Charles.
Mi si chiuse la bocca dello stomaco nell’esatto momento in cui Lee pensò bene
di riprendere a russare come un cinghiale. Già, ancora, perché quella notte
avevo chiuso occhio sì e no tre ore, alternando sbuffi esasperati a gomitati
nelle costole di Lee.
Gli lanciai un’occhiata,
invidiandolo mentre ronfava beato, raggomitolato e ignaro di tutto.
Scostai le coperte e mi alzai,
tanto non avrei più preso sonno e poltrire a letto non era nella mia indole,
quindi mi avvicinai al catino pieno d’acqua, poggiato a terra nello stanzino
adiacente. Aprii la tenda sgualcita per far entrare quella poca luce che l’alba
mi concedeva, giusto per darmi una sciacquata senza stare al buio, quindi
iniziai a pensare alle cose serie. A ciò di cui un Gran Maestro doveva
occuparsi, insomma, e stavolta non avevo nulla a distrarmi, non avevo il
continuo russare di Charles a tenere la mia mente occupata ad inventare nuove
bestemmie. Stavolta c’era solo il buon Washington nella mia testa. Che onore,
vero comandante? Non è da tutti essere il pensiero principale di un uomo che si
sbottona la camicia prima di lavarsi.
Patetico, ecco cos’era quella
situazione. Era tutto patetico. Lo ero io, che ogni momento libero lo dedicavo
a quel vecchio sconclusionato. Avevo pronto anche un piano per farlo fuori, ma
avevo bisogno della piantina dell’accampamento, quindi dell’aiuto di Charles.
Aiuto anche pratico, a dirla tutta, e convincerlo su quella parte del programma
non sarebbe stata una passeggiata. Lui doveva salvare Jenny e bla bla.
Afferrai la vecchia spugna
appoggiata sull’unico ripiano e la immersi nel catino, rabbrividendo al
contatto con l’acqua gelata.
Il fatto era che il senso di colpa
iniziava a farsi sentire. Era lì, come uno spillo invisibile a pungermi il
petto dall'interno, e continuava a ripetermi che qualsiasi cosa fosse accaduta,
Charles ne sarebbe andato di mezzo. E lo sapevo, cristo, sapevo che la mia
maledetta coscienza aveva ragione, ma che altro potevo fare? Non avevo nessuna
certezza che avrebbero ucciso Lee per un sospetto -quanto ero drammatico,
magari l'avrebbero solo punito-, al contrario vedevo già le nostre lapidi se
non avessi fatto nulla per togliere il comando a George.
D'altra parte non volevo vederlo
in pena in quel modo, speravo capisse che rischiavamo entrambi, che lui un
alibi avrebbe potuto crearselo, a differenza di me. Speravo capisse che tanto,
prima o poi, con Washington al comando saremmo morti nel giro di qualche mese.
Tanto valeva rischiare, no?
Charles comparve sulla soglia
dello stanzino con addosso solo i calzoni, i capelli scompigliati, gli occhi
mezzi chiusi e la mano destra impegnata a grattare l'inguine con uno stile che
tanto mi ricordava Thomas Hickey.
Lo guardai interdetto per qualche
secondo, la pezza ancora appoggiata alla spalla sinistra. «Buongiorno, principessa.» Mi guardò male, degnandomi di
poca attenzione con le palpebre socchiuse come a dire "una principessa si
gratterebbe le palle in questo modo?".
«Devo usare il catino.» Sbiascicò. Glielo indicai con un
cenno del capo, riprendendo a strofinare mentre Lee mi passava davanti per
raggiungere il secchio nell'angolo. Lo sentii trafficare coi calzoni, e gli
lanciai un'occhiata mentre il getto di urina s'infrangeva contro il metallo del
recipiente vuoto.
Schioccai la lingua contro il
palato. «Non ho chiuso occhio stanotte» come se gliene fregasse qualcosa.
Charles girò di poco il viso,
guardandomi da sopra la spalla. «Posso immaginare. Tutto questo
stress per Washington deve avervi provato molto»
«Per una volta quell'imbecille non
c'entra» rimbeccai infastidito. «È colpa tua, hai russato tutta la
notte. Vorrei tanto sapere con che coraggio mia sorella ti dorme accanto» fosse solo per il russare.
Lo vidi sogghignare. «Si addormenta prima di me da
quanto è sfinita»
«Oh-oh, se ti sentisse Hickey farebbe una battuta sul tuo uccello» Charles si richiuse i calzoni,
continuando a parlare rivolto verso il muro.
«Tom si atteggiava da grande
intenditore, come se fosse l'unico ad aver visto un paio di tette a differenza
di noialtri. Tsk, idiota.» In effetti aveva ragione, Hickey non aveva mai perso occasione per sottolineare
quante donne avessero avuto il privilegio di mettere la testa fra le sue gambe,
cosa che a Charles dava terribilmente fastidio. Non tanto per invidia,
suppongo, diciamo che pranzare immaginando l'uccello di Thomas non era tra le
mie priorità. E nemmeno tra quelle di Lee, che in tutti quegli anni,
poveraccio, un giorno sì e l'altro pure si era sentito chiamare frocetto inglesino del cazzo o verginello
da quattro soldi. Sorrisi malinconico. Mi mancavano un sacco quei momenti,
quando eravamo ancora tutti insieme, quando ancora andava tutto bene.
«Ti ricordi quando Tom ti chiamava frocetto inglesino del cazzo?» Gettai la pezza sul ripiano
vicino alla porta e mi alzai dallo sgabello, afferrando il panno asciutto e
passandolo su petto e schiena. Charles si voltò con una smorfia in viso e
trafficando ancora con la cintura. «Se ti avesse beccato lui, quella
notte, si sarebbe complimentato dandoti una pacca sul culo» dissi riferendomi a quando beccai
Lee e Jenny intenti a scopare come conigli.
«Sì, per poi chiedere di unirsi a
noi» si richiuse la cintura con uno
strattone. «Che
figlio di puttana, gliene ho fatte passare troppe. Forse avrei dovuto fargli
capire fin da subito chi era il coglione tra i due.»
Fissavo la bottiglia di rum che mi
ero fatto portare in camera da una decina di minuti, indeciso se aprirla o
meno. Ubriacarsi prima di un omicidio non era esattamente indicato nel manuale
dell'assassino perfetto, però avrebbe diminuito la tensione, cosa che ci
avrebbe fatto sicuramente bene.
Tanto ormai l'hai pagata. Giusto, tanto valeva non avere ripensamenti. La stappai
tenendo bloccato il sughero tra i molari per poi lo sputarlo di lato. Mandai
giù sei sorsi come se stessi bevendo acqua, abbandonandomi alla sensazione di
pace e al silenzio, rotto solo dal rumore dell'alcool che scivolava giù, fino
al mio stomaco. Sul letto, accanto a me, c'era un abbozzo dell'accampamento di
Valley Forge, datomi da Charles qualche ora prima. L'avevo convinto a farla,
sentendomi un po' in colpa per averlo trascinato in qualcosa in cui non voleva
immischiarsi. Allora non avrebbe dovuto
unirsi all'Ordine, direbbe chiunque. Vero, ma Charles non era un membro
qualunque, lui era semplicemente Charles Lee, quello odiato perché il preferito
del Gran Maestro, quello privilegiato che avrebbe preso le redini di tutto,
quello che anche se sbagliava -quelle rare volte- non veniva punito. Lui era
diverso, e nonostante mi consolassi ripetendomi che i compiti dei Templari
erano uguali per tutti e non ammettevano repliche, mi sforzai in ogni modo per
trovare una soluzione a tutto, anche se non c'era. Non c'era modo di dimostrare
l'innocenza di Charles se avessi ucciso George Washington. Avrebbe potuto avere
l'alibi più credibile di questo mondo, ma il beneficio del dubbio che avesse
assoldato un mercenario non potevo toglierlo a nessuno. E il cattivo rapporto
tra i due avvalorava le probabili accuse che avrebbero mosso contro Lee.
«Non offrite?» Alzai lo sguardo, osservando
l'uomo che era diventato e sorrisi. Sorrisi perché nonostante la discussione
del giorno prima, non aveva fatto altro che rendermi orgoglioso di lui.
Rischiava la carriera, la vita, la donna che... amava?, non ne ero certo, solo
per me, per non voltarmi le spalle. Potevo chiedere di meglio? Potevo
desiderare un amico migliore?
Gli porsi la bottiglia,
riabbassando gli occhi sulla calligrafia frettolosa di Charles che indicava i
lati dell’accampamento meno sorvegliati dai soldati.
Lo guardai ancora, mentre si
asciugava i baffi col dorso della mano sinistra.
«Il fianco a nord ha solo dei
tronchi appuntiti piantati nella neve e qualche cane, non sarà difficile
entrare da lì.»
Osservai di nuovo il foglio scarabocchiato, puntando la tenda di George,
identificata con una X, all'estremità
dell’ala ovest. Fortunatamente il giorno prima avevo fatto attenzione alla
disposizione delle tende, infiltrarmi di soppiatto con la notte a mio favore
sarebbe stato piuttosto semplice.
Ripresi la bottiglia e bevvi un
paio di sorsi. «Grazie.» Dissi senza guardarlo. Mi prese la bottiglia di mano e
ingoiò altro liquore, appoggiandola poi sul sedile della sedia, tra le gambe. «Non dovete farlo, era mio dovere.
Sono un Templare, no? Gli ordini valgono anche per me.» Picchiettò le unghie sul vetro e
sorrise, consolandosi.
«L'ultima cosa che voglio è
metterti in pericolo, lo sai. Ma questa faccenda va risolta. Lo volevi anche
tu.» Lo fissai, mentre dondolava la
bottiglia per far oscillare il liquido al suo interno. «Lascia perdere Jennifer, lei non
corre rischi. Se è questo che ti frena, puoi stare tranquillo. Se c'è
dell'altro, parla.» Arricciò le labbra ed espirò pesantemente, poi bevve ancora.
«C'è la mia carriera, ecco cosa, ma
tanto è rovinata comunque con quell'incapace al comando.» Aveva gli occhi lucidi, e non era
una crisi di pianto come la sera prima.
«Charles, dammi la bottiglia» scosse la testa, ma non per ciò
che gli dissi.
«Perché hanno scelto lui?» Alzò il viso nella mia direzione,
era stanco e affranto, quindi pensò bene di trovare conforto in altri tre sorsi
di rum. «Solo perché io sono Inglese» ridacchiò istericamente, perché
altrimenti avrebbe spaccato qualcosa. Charles era fatto così, aveva un
carattere impulsivo molto scomodo per l'Ordine, ma negli anni aveva imparato a
controllarsi, accumulando stress senza potersi sfogare con nessuno. Quello era
il prezzo da pagare. Sopporti il più possibile, ma poi scoppi. E Charles era
vicino all'esplodere.
Gli feci cenno di passarmi la
bottiglia con la scusa di voler dare un paio di sorsi, ma mi ignorò, portando
alle labbra il vetro scuro e freddo. «Potrei aiutare questo paese più di
quanto credete...» Borbottò con la voce impastata, «potrei farlo davvero»
«Lo so, Charles. Lo so» mi allungai sul materasso e gli
sfilai la bottiglia di mano, provocandogli una smorfia contrariata. «Ora basta bere, mettiti a letto» lo aiutai ad alzarsi dalla sedia
e lo portai a piccoli passi fino al letto, assicurandomi che stesse fermo e che
fosse abbastanza lontano dal rum, poi mi allontanai per prendere redingote e
tricorno, appoggiati con cura sulla scrivania.
«Non sono ubriaco» continuava a ripetere girandosi
su un fianco, «sono
solo stanco.»
«Allora dormi e non fare casini» non ricevetti risposta, quindi mi
voltai per capire il motivo per cui mi ignorasse.
Dormiva. Era crollato come un
moccioso di sei anni dopo aver trascorso un pomeriggio stancante al parco. Lo coprii
con la sua giacca, poi mi calai il cappello in testa ed uscii dalla stanza,
scendendo le scale con una calma surreale. La bozza dell’accampamento era al
sicuro nella tasca interna della veste. La sentivo bruciare, mi sentivo
colpevole, temevo che chiunque potesse scovarla attraverso la stoffa e
denunciarmi con l’accusa di voler uccidere il nostro amato comandante.
Mi portai una mano al petto con la
scusa di stringermi il cappotto per non patire il freddo, poi spalancai la
porta ed uscii, venendo travolto dal vento gelido e dal buio, affondando nella
neve fino alla caviglia. Imboccai il sentiero che portava a sud, camminando
svelto più che altro per non morire assiderato.
Stavo facendo la cosa giusta? Aveva
la priorità la vita di Charles o l’Ordine? Charles o il Nuovo Mondo?
Mi portai le mani alle tempie e
sospirai. Calmo. Stai per compiere un omicidio, mente lucida e sangue freddo. Avrei
dovuto essere abituato, eppure non riuscivo a calmarmi. Il pensiero che il mio
pupillo potesse andarci di mezzo non ne voleva sapere di abbandonarmi,
sussurrandomi di voltarmi e tornare indietro, di andare da Charles e dirgli che
avevo cambiato idea, che ucciderlo non era l’unico modo che avevamo per vincere
la guerra. Prima che fosse troppo tardi, prima di scorgere in lontananza, tra i
fiocchi, il portone sorvegliato dal ragazzo e dal tizio diffidente che credeva fossi
un impostore. Prima di gettare merda sulla carriera di Lee, prima di scatenare
un putiferio, prima che lo accusassero di omicidio.
Intravidi le due guardie davanti
all’ingresso e svoltai rapidamente a destra, passando tra alberi e cespugli. La
neve iniziò ad arrivarmi fino al ginocchio, impedendomi di avanzare
velocemente. Strizzai gli occhi e mi guardai intorno, poi tirai fuori dalla
tasca interna il foglio stracciato su cui avevo le indicazioni di Charles. Ero nel
posto giusto, nonostante il buio e la neve mi impedissero di vedere ad un palmo
dal naso, riuscii a vedere i tronchi appuntiti piantati in un cumulo di neve,
pronti ad infilzare il primo idiota che si fosse lanciato all’assalto.
Mi avvicinai piano, non c’era
traccia di cani e oltre la piccola collina gelata sembrava tutto tranquillo. Probabilmente
dormivano tutti come ghiri. Scivolai dall’altra parte, nascondendomi dietro una
delle tende, poi controllai ancora la mappa di Charles: ad occhio e croce avrei
dovuto percorrere ancora un centinaio di metri per trovarmi il regale culo di
Washington davanti. Quale onore, eh?
Rotolai di lato, proseguendo verso
ovest costeggiando il perimetro. Che gli avrei detto una volta lì? Magari stava
dormendo anche lui, ma così sarebbe stato troppo semplice, no? Sarebbe bastato
tagliargli la gola e svignarsela.
Uscii da dietro la tenda e
attraversai il piccolo piazzale che portava all’ala ovest, e corsi
silenziosamente verso la capanna di George.
Mi tornò in mente Charles, ma
strinsi i denti e mi feci coraggio, scostando un lembo di stoffa che mi
divideva da Washington. Se ne stava lì, in piedi davanti al tavolo con le
spalle rivolte all’entrata, come quando ero venuto il giorno prima in compagnia
di Lee. Entrai di soppiatto, avvicinandomi con due falcate e premendogli una
mano sulla bocca e pungendogli la schiena con la lama celata.
«Ci si rivede, comandante» un gemito morì contro il palmo
della mia mano, che fece più pressione sulle labbra fredde e tremolanti di
George, «com’è stare dall’altra parte, mh?» Girò di poco il capo, incrociando il mio sguardo con la coda
dell’occhio. Impallidì di colpo, mentre una goccia di sudore freddo scivolava
lentamente lungo la guancia destra.
Serrai le dita con più forza sul
suo viso, spingendo la punta della lama celata contro la sua carne,
squarciandola quel tanto che bastava per far sgorgare un po’ di sangue. George gemette
di dolore, tentando di urlare e liberarsi, ma le ginocchia cedettero, facendolo
crollare a terra. Seguii il suo corpo con la soddisfazione che mi invadeva il
petto, come un piccolo fuoco che piano iniziava a diffondere calore in tutto il
corpo. Spinsi la lama con più decisione nella schiena del comandante,
trattenendo a stento l’istinto di farlo a pezzi e bruciarlo, come aveva fatto
con Tiio.
«Ve l’avevo detto che vi avrei
ucciso, no?»
Non rispose, e in quel momento qualcosa di caldo mi bagnò la mano sinistra. Mi sporsi
per capire cosa fosse, sogghignando quando vidi solchi di lacrime sulle guance
di Washington. Per cosa piangeva?, per paura? Dolore? Era pentito per aver
rifiutato l’offerta di Charles? Poco mi importava, sinceramente. Sarebbe morto
comunque, e con la sua morte noi saremmo rinati, come una fenice dalla cenere.
Feci rientrare la lama con un
click e qualche goccia di sangue mi macchiò il polsino della redingote. «Se avessi accettato la proposta di
Charles a quest’ora non saresti inginocchiato con un buco nella schiena. Ne è
valsa la pena?»
Non rispose, deglutendo rumorosamente. Decisi di mettere fine alla sua vita in
un modo rapido e indolore, specialmente perché avevo freddo e il mio pensiero
principale era quello di tornare alla locanda per riscaldarmi.
Gli artigliai i capelli con la
mano destra e con uno strattone gli girai la testa di lato, spezzandogli l’osso
del collo.
Innanzitutto scusate, davvero. Vi avevo detto che avrei
postato con una settimana di ritardo, invece è quasi passato un mese, God, ma ho ripreso possesso della mia vita sociale da poco
più di un paio di giorni, tra esami e studio non sono proprio riuscita ad
aggiornare prima, abbiate pietà.
E siccome qualcuno di voi vorrà sicuramente lanciarmi
qualcosa… *lancia in aria biscotti caldi e fugge*, lol.
Graaaazie mille a chi legge e
segue, aw, siete l’amore.