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Autore: marmelade    05/03/2015    4 recensioni
Ashton e Margareth si sono appena laureati, appena conosciuti, hanno appena finito di fare l'amore.
Nella stanza di lei aleggia ancora l'odore dell'ultima sigaretta fumata da lui, mista all'odore del sesso.
Si abbracciano forte l'uno con l'altra in un minuscolo letto dalle lenzuola sporche, come per aggrapparsi a quegli ultimi momenti della loro giovinezza.
Non si conoscono, eppure è come se la vita li avesse fatti incontrare da sempre. Sono convinti che non si rivedranno mai più, ma non è così: sono strettamente legati tra loro.
Cadranno insieme, rideranno, piangeranno e si diranno addio molte volte, senza mai riuscirci davvero.
Resteranno per una vita intera ad amarsi, anche lontani, fino a che non vorranno tornare indietro nel tempo e ricominciare tutto dall'inizio.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV
 
“Volevo solo scivolarti tra le braccia e sentirti dire che tutto passa, tutto passa, pure se non era vero,
tutto passa tranne noi,
certo, tranne noi”.
Giulia Carcasi
 
 
 
 
 
 
 
 
2 AM and she calls me 'cause I'm still awake, 
"Can you help me unravel my latest mistake? I don't love him.
Winter just wasn't my season"
 
 
 
 
 
 
 
Ottobre 2005.
 
«E’ nata».
E Margareth, dopo quella telefonata, aveva chiuso velocemente il cellulare, attraversato metà della città a piedi per arrivare alla fermata della metro, per poi cambiare corsa ben due volte e prendere un autobus che la portasse ad un chilometro di distanza dall’ospedale, che dovette percorrere correndo e scansando infinità di persone davanti a lei.
Alla fine –due ore e tredici minuti dopo – era arrivata a destinazione.
Sudata, sconvolta, stremata, ma felice.
Salì la rampa scale a due a due per arrivare al terzo piano, quello di neonatologia, per vederla. Sbagliò stanza ben due volte a causa dell’ansia – era entrata nella 208 e nella 210 – prima di entrare finalmente nella stanza 214, quella giusta.
E la trovò lì.
I capelli biondi racchiusi in una coda alta leggermente scompigliata, le gote arrossate per lo sforzo e il viso completamente stravolto per la fatica eppure, negli occhi, aveva una luce diversa, Margareth riuscì a notarla anche da lontano; quella stessa luce che ti si forma quando ti accade qualcosa di veramente sublime, meraviglioso.
La luce della maternità.
Margareth picchiettò dolcemente le nocche contro la porta, sorridendo. «E’ questa la stanza della neomamma?».
 Subito, gli occhi luminosi si voltarono verso di lei, con la testa ancora appoggiata al cuscino, aprendosi poi in un sorriso grande quanto l’oceano.
«Margareth» sussurrò piano, quasi sorpresa di trovarla lì, sicuramente felice di poterla avere accanto.
Lei continuò a sorridere, entrando nella stanza lentamente, quasi come se non volesse provocare nessun tipo di rumore per disturbarla.
«Ciao, Susie» la salutò, avvicinandosi al suo lettino. Man mano che si avvicinava, poté notare quanto quella luce meravigliosa la rendesse così diversa dalla Susie che conosceva lei.
Era cresciuta, ed era mamma, adesso.
«Non dovresti essere a scuola, al momento?» le domandò, quasi severa, aggrottando di poco le sopracciglia in segno di estrema curiosità.
Margareth fece spallucce. «Sono uscita prima appena Quentin mi ha chiamata. Ho detto che mia sorella era stata ricoverata in ospedale».
Susie ridacchiò leggermente, scuotendo il capo. «Sei sempre la solita pallista. Non avresti dovuto».
«Sei già entrata nello spirito mammesco, Susie?» la canzonò, gonfiando le guance. «E poi, è quasi vero che ho una sorella in ospedale. Quindi, ho detto una mezza bugia» si difese, alzando nuovamente le spalle.
«L’avrei capito se fossi venuta nel pomeriggio, non me la sarei di certo presa» aggiunse «lo so meglio di te che hai un lavoro e che hai dei ragazzi a cui insegnare» la guardò, aggrottando ancora una volta le sopracciglia, assumendo un cipiglio da ramanzina.
Margo sbuffò ancora, sorridendole. «Oh, tranquilla, a loro non importerà e non gli causerà alcun danno psicologico, credimi. Anzi, potrei averli salvati dalla mia ira funesta, quindi, dovrebbero solo ringraziarmi!».
Susie rise piano per evitare di apportarsi ancora più dolore. Si portò una mano alla bocca, nascondendo la smorfia di fastidio che le si era appena creata sulle labbra, mentre Margo prese posto su una sedia situata accanto al lettino dove, precedentemente, era sicura ci si fosse seduto Quentin.
Poggiò entrambe le mani sulle lenzuola fresche del lettino di Susie quando, quest’ultima, gliene strinse una leggermente con la sua, fredda ed esile, facendo alzare lo sguardo a Margareth nei suoi occhi luminosi.
«Sono così felice che tu sia qui» sussurrò sorridendole, con la voce quasi rotta dal pianto.
Margareth ricambiò il suo sorriso, accarezzandole dolcemente il dorso della mano, stando attenta a non stringergliela troppo forte per evitare di apportarle dolore.
«Anche io sono felice, Susie – asserì, cercando di trattenere le lacrime di felicità – ancora non posso crederci che tu sia diventata mamma».
A quelle parole, Susie non riuscì a contenere un singulto di gioia che subito si tramutò in una cascata di lacrime di felicità. Annuì impercettibilmente col capo, mentre Margo le teneva ancora stretta la mano.
«Sono una mamma, Margareth» ripeté incredula e felice allo stesso tempo, forse più a se stessa che alla sua migliore amica.
E Margareth non riuscì proprio più a trattenersi di fronte a tale felicità.
Scoppiò a piangere anche lei tra i sorrisi felici di entrambe che, poco dopo, iniziarono tramutarsi in risate tra i singhiozzi e i singulti frequenti. Era come se il tempo si fosse fermato a quando avevano diciassette anni e giuravano a se stesse la felicità e la libertà eterna. Ma in quel momento, almeno Susie, sapeva cosa significasse davvero la felicità: era sua figlia.
«Siamo troppo emotive, cazzo» esclamò Susie, asciugandosi le guance con il dorso della mano libera dalla presa della mora. Margo annuì in risposta, alzando gli occhi al cielo e tirando su col naso, poi guardò nuovamente Susie, spalancando gli occhi e portandosi una mano al petto con fare fintamente sconvolto.
«Susan Marie Wilden in Jefferson, non dovresti parlare in questo modo!» esclamò riprendendola, mentre cercava di imitare in malo modo la voce della madre di Susie. Le puntò l’indice contro, arricciando le labbra, «sei una madre, adesso. In quale modo oserai tirare su tua figlia, eh? A mo di pappette e parolacce?!».
Susie scoppiò in una risata fragorosa, piegandosi in due nel minuscolo e scomodo lettino d’ospedale mentre altre lacrime fuoriuscirono dai suoi occhi castani. Margareth la seguì a ruota, strizzando gli occhi e scuotendo il capo.
«Oh, che palle!» esclamò la bionda, una volta smesso di ridere «scommetto che, appena tornerò a casa, mi toccheranno le varie lezioni intensive su come si infila adeguatamente un pannolino ad un bambino!» e roteò gli occhi al cielo.
«Allora buona fortuna» le augurò scherzosamente Margareth «mi inviterai alla tua laurea?».
«Certamente» annuì Susie «ti avvertirò anche quando prenderò il master in pappette di spinaci frullati ed omogeneizzati!».
Margareth scoppiò nuovamente a ridere, facendo versi strani, cosa che suscitò ilarità anche in Susie, che la seguì a ruota.
Si sentivano davvero minuscole: quando erano insieme, avevano sempre diciassette anni e non ventotto. Erano ancora quelle ragazzine libere dalla convinzione del grande amore e furbamente astute da creare scompiglio a scuola senza mai farsi beccare. Avevano ingannato il mondo, insieme, perché non ingannare anche il tempo?
«Ehi, voi due, sempre a fare casino eh?».
La voce divertita di Quentin Jefferson sovrastò le loro risate facendo capolino da dietro la porta della stanza 214. Entrambe, ancora con le lacrime agli occhi, si voltarono verso di lui, poi Susie gli fece un’occhiataccia.
«Ci stavamo solo divertendo» ammise, gonfiando le guance come fosse una bambina capricciosa.
Quentin, intanto, si era avvicinato al lettino, un sorrisino faceva da protagonista sul suo volto, gli occhi ancora lucidi per l’emozione.
«Lo so» disse, sporgendosi verso sua moglie «ma dovete capire che non ci siete solo voi due in questo ospedale. Vi si sente dall’inizio del corridoio!» detto questo, le lasciò un bacio delicato sulla fronte, facendole rilassare di poco il viso. Quentin alzò lo sguardo e salutò Margareth con un cenno della mano, che ricambiò con un sorriso, tenendo ancora stretta la mano di Susie.
«Oh, andiamo Quen, non essere noioso!» esclamò quest’ultima «stavamo solo immaginando la faccia di mia madre quando si accorgerà che avrò messo male un pannolino alla bambina!». Detto questo, entrambe non riuscirono a contenere un risolino divertito. Se la signora Wilden fosse stata lì, in quel momento, sarebbe rimasta sicuramente sconvolta dalla vivacità della figlia subito dopo il parto.
Quentin incrociò le lunghe braccia al petto e, nonostante si sforzasse per non darlo a vedere, sorrise leggermente. «Beh, io sto immaginando quando l’avremo per casa ventiquattr’ore su ventiquattro per sette giorni su sette!». Scosse il capo con fare esasperato, facendo ridacchiare Susie.
«Vedi?! Mia madre è una maledizione. Dovremmo incrementare i sistemi di sicurezza per non farla entrare...»
Sotto lo sguardo divertito di Margo, Quentin sorrise severo a sua moglie «Susie...» la richiamò, con una nota divertita nel tono della voce. Quest’ultima gli rivolse uno sguardo dolce per farlo intenerire, poi annuì col capo e si portò un dito alle labbra, come se avesse avuto un’illuminazione.
«Hai ragione Quen, basterà semplicemente cambiare la serratura di casa nostra!».
Sia Quentin che Margareth ridacchiarono dopo la geniale idea di Susie, la quale buttò la testa all’indietro sul morbido cuscino dell’ospedale, sospirando.
 «Ma quando porteranno la bambina?» domandò impaziente, sbuffando leggermente.
Quentin le si sedette accanto, poggiandosi leggermente sul lettino. «Tra poco sarà qui, vedrai» l’assicurò, circondandole un braccio intorno alle spalle per poi darle un altro bacio, questa volta sulla nuca.
Margareth le strinse ancora di più la mano, rivolgendole un sorriso comprensivo. «Se tua figlia ha preso da te, scommetto che starà già frignando da ore perché vuole del cibo!».
Susie le fece una smorfia, mentre Quentin ridacchiò divertito. «Margareth ha ragione. Scommetto che, quando arriverà, ti guarderà e penserà “dammi del cibo, donna, sto morendo di fame!”».
La bionda gli mollò una dolce gomitata che lo fece gemere, guardandolo poi soddisfatta della propria opera. Quentin, in risposta, scosse il capo per poi attrarla di più verso il suo petto per abbracciarla.
Susie si lasciò andare a quel contatto, poggiando il viso nell’incavo del collo di suo marito, sospirando piano e lentamente mentre quest’ultimo le carezzava dolcemente i capelli, poggiato con il viso sulla sua nuca.
Margareth lasciò la presa della mano di Susie ed assistette a quella scena in silenzio. Non poté fare a meno di sorridere di fronte alla felicità di quella famiglia che era appena cresciuta: provò un senso di gioia misto alla nostalgia dei vecchi tempi passati insieme a Susie. Con lei poteva anche sembrare una diciassettenne vivace ma, quando era con Quentin, Susie era un misto tra una quindicenne innamorata per la prima volta e una venticinquenne che ha già provato l’amore quello vero. Alla fine – in quel preciso istante – Susie era una ventottenne sposata da tre anni, innamorata come non mai dell’amore vero, e neomamma, innamorata per la prima volta.
Margareth osservò Quentin sussurrare qualcosa, con occhi emozionati, nell’orecchio della sua migliore amica, che sorrise dolcemente e chiuse gli occhi, stringendosi ancor di più al petto del marito.
Erano la coppia perfetta, pensò, una di quelle coppie che sono l’emblema dell’amore vero e che ti fanno venire voglia di innamorarti sul serio, anche se sei la più cinica delle donne.
Margo, infatti, sentì l’impellente necessità – forse quasi il bisogno – di innamorarsi sul serio.
Scosse il capo un microsecondo dopo che quel pensiero le era balzato in testa. Lei era già innamorata.
O almeno, doveva forzarsi di esserlo.
«Signora Jefferson?».
Una voce mite alle loro spalle fece voltare tutti e tre. Susie si staccò dal petto del marito con occhi ancor più luminosi dopo aver capito cosa volesse da loro quella donna vestita completamente di blu e con un dolce sorriso sulle labbra.
Gli occhi di Susie si aprirono come due fontane e ripresero a lacrimare incessantemente, mentre Quentin si era alzato di scatto, mostrando completamente la sua slanciata figura. Fece dei lunghi passi verso l’infermiera, che rivolse un altro enorme sorriso a Susie la quale, intanto, aveva stretto nuovamente la mano a Margareth.
L’infermiera si era avvicinata ancor di più al lettino di Susie, seguita a ruota da Quentin, il quale non riusciva a distogliere lo sguardo emozionato dal minuscolo granellino di sabbia presente in quella culla.
La donna sorpassò leggermente Margareth e prese delicatamente il corpicino della bambina tra le braccia che, intanto, aveva preso ad emettere dei leggeri versetti, cosa che fece singhiozzare Susie.
L’infermiera le fece un altro sorriso emozionato, rivolgendolo anche a Quentin, adesso dietro le spalle di sua moglie.
«Eccola qui, la vostra meravigliosa bambina» disse, porgendo ancor più teneramente la piccola tra le braccia di Susie. «Ancora congratulazioni».
A quel punto, la donna uscì dalla stanza e Quentin non seppe trattenere le lacrime e avvicinò ancor di più il viso al corpo di sua figlia, beatamente sonnecchiante tra le braccia di sua moglie, che aveva preso ad accarezzarle il viso arrossato con le dita affusolate.
«Ciao, amore mio» aveva sussurrato Quentin tra le lacrime «ciao, amore di papà», poi si era sporto verso Susie e le aveva lasciato un lungo bacio sulle sue labbra bagnate di lacrime emozionate. Quest’ultima, dopo quel bacio, aveva ripreso a guardare la piccola creatura tra le sue braccia e aveva continuato ad accarezzarle il viso.
Margareth si alzò di poco dalla sedia e si sporse verso la minuscola bambina vestita con una tutina dai colori chiari che faceva da contrasto con la sua pelle ancora arrossata. La guardò intensamente, prima che qualche lacrima scendesse silenziosa sulle sue guance, senza che se ne accorgesse minimamente: era la cosa più bella che avesse mai visto.
Era piccola - poco più grande della sua mano – e sembrava un batuffolo con gli occhi di chi, al mattino,  ancora non vuole saperne di svegliarsi e vorrebbe vivere di sogni ancora per un po’. Le labbra erano grandi – proprio come quelle di Susie – e le sue manine stringevano teneramente il pollice della madre, come a voler creare quel primo contatto indissolubile con la persona che le sarebbe stata accanto per tutta la vita, e che l’avrebbe amata nonostante qualsiasi cosa.
Susie singhiozzò ancora, poi si voltò verso la sua migliore amica e le sorrise. Alzò di poco la testa della piccola, come se volesse voltarla verso Margo, e le alzò delicatamente la manina che teneva stretta il suo pollice.
«Fai ciao a zia Margareth, Lily» sussurrò, la voce rotta dall’emozione «fai ciao».
Margareth allungò una mano verso la bambina, sorridendole, poi le accarezzò dolcemente una guancia arrossata. «Ciao, Lily» bisbigliò dolcemente, incurante delle lacrime «benvenuta al mondo».
La piccola Lily mugolò ancora una volta, quasi come se avesse voluto salutare davvero Margareth, e Susie sorrise. «Zia Margareth è speciale, Lily» disse, accarezzando ancora una volta il volto della bambina e guardandola intensamente negli occhi semiaperti.
Margo rimase interdetta per quelle improvvise parole sussurrate dalla sua migliore amica a sua figlia, ma un sorriso fece capolino sulle sue labbra. Provò a chiederle il perché stesse pronunciando quelle parole, ma fu interrotta dal continuo del suo discorso.
«Vedi, Lily, zia Margareth è la mia migliore amica, la mia anima gemella... che non me ne voglia tuo padre» e ridacchiò, seguita a ruota da Quentin, sotto lo sguardo incuriosito di Margo.
«Imparerai tanto da noi, me e tuo padre, che ti ameremo sempre per ciò che sei e per tutto quello che farai, ma imparerai tanto, forse di più – e lo spero – anche da zia Margareth. Spero che tu acquisisca da lei la libertà, il modo di pensare e la sua stessa indipendenza. Io ti insegnerò a camminare, ma zia Margareth – stanne certa – ti insegnerà a volare con i tuoi stessi piedi; tuo padre potrà insegnarti a parlare, ma lei ti insegnerà come esporre le tue idee senza che qualcuno te le distrugga e ti faccia sentire minuscola così...»e diminuì la distanza tra pollice ed indice. Margareth, in silenzio, si lasciò scappare qualche lacrima.
«Quando crescerai...» riprese Susie, senza smettere di guardare la figlia «noi saremo lì, a sostenerti. Anche se tu ci odierai – perché, a un certo punto, ci odierai, stanne pur certa – corri da zia Margareth. Parlane con lei, sfogati, piangi con lei, perché le sue orecchie e il suo animo sono le uniche che sanno ascoltarti davvero, e dalla sua bocca non uscirà nessuno dei segreti che le confesserai. Fallo, Lily, è tua madre che te lo impone.
Ti imporrò tante, tantissime altre cose, fino a che non ti sanguineranno le orecchie e magari tu, per ripicca, non mi starai a sentire e mi manderai a fanculo – non dire alla nonna che ti ho appena detto una parolaccia – ma, credimi, questa sarà l’unica cosa che io voglio che tu faccia davvero, sempre. E guai a te se non lo farai!». Quentin ridacchiò e Margareth provò a chiedergli il perché di quelle parole, ma lui si portò l’indice accanto alla bocca e le sorrise.
«Lily, amore mio» continuò Susie, dolcemente «hai molte più cose da imparare da zia Margareth che da me. Io sono una pazza svitata che, molte volte, cela insicurezza dietro quella finta sicurezza che mi creo. Zia Margareth, invece... lei è sicura di se sempre e comunque, anche se non ci crede più così tanto. Se ti consiglio lei come un punto di riferimento, è perché io stessa la considero in tale modo. Quando sarai un po’ più grande, scoprirai cosa sono i fari e quanto sono utili per le barche durante la notte. Ecco, zia Margareth per me – e anche per te – è questo: è la luce durante la mia notte buia.
Ne ho passate tante con lei, e chissà quante altre ancora ne passeremo insieme, e io voglio davvero che tu cresca con lei: impara da lei Lily, così come ho fatto io. Vivi come lei e pensa come lei. Combatti per le cose che ami e, anche quando ti sentirai giù, non abbatterti. Sogna, Lily... sogna tanto, sogna in grande, così come ha fatto lei: lascia che i tuoi sogni diventino ciò per cui vivrai, perché sono l’unica cosa che ti alimentano il cuore, e lascia che la tua passione sia conciliata al tuo futuro lavoro. Impara a sognare come zia Margareth, Lily».
Gli occhi di Margareth, ormai, erano talmente sommersi dalle lacrime, che non riusciva più a vedere nulla. Li sentiva gonfi e doloranti e, sicuramente, erano completamente rossi. Quentin le fece un mezzo sorriso comprensivo, mentre Susie continuava a guardare sua figlia, accarezzandole il viso.
«Soprattutto, Lily... innamorati come si è innamorata lei».
A quelle parole, Margareth spalancò ancor di più gli occhi, facendo scivolare quelle lacrime che erano rimaste intrappolate nelle sue iridi. Vide Susie sorridere dolcemente, per poi sospirare.
«Vedi, Lily, ad innamorarci siamo tutti bravi. Crediamo che il vero amore sia la persona che ci faccia ridere, che ci faccia stare bene e che ci procuri solo pensieri felici. Indubbiamente è anche questo, perché bisogna saper scegliere la persona che ti faccia sentire giusta te stessa e con il resto del mondo. Non voglio propinarti la storia di come io e tuo padre ci siamo innamorati, perché è banale, semplice, piena di cliché, anche se per noi e piena di significati, anche perché, il nostro amore, ha fatto nascere la cosa più bella della nostra vita, ovvero te ...» detto questo, Quentin le lasciò un bacio sulla nuca, mentre il cuore di Margo aumentava sempre di più a palpitare.
«Lily, innamorati della persona che ti farà maledire il giorno in cui l’hai incontrata. Innamorati di chi sa amare le tue lacrime, innamorati di qualcuno che vorresti fosse diverso ma che non vorresti mai cambiare perché, con quei suoi mille difetti, riesce a rendersi perfetto per te; innamorati di qualcuno che sappia farti ridere e piangere allo stesso tempo anche dall’altro capo del mondo. Innamorati del modo in cui ti sorride e del modo in cui i suoi occhi si incastrano alla perfezione con i tuoi. Innamorati di chi ti fa urlare, di chi ti fa anche bestemmiare, di chi ti fa palpitare il cuore anche quando vorresti solo prenderlo a sprangate... innamorati fino a negarlo. Innamorati come si è innamorata zia Margareth, Lily. Lei, che è innamorata persa di chi la fa incazzare, e continua ancora a negarlo a se stessa...».
A quel punto, Susie alzò lo sguardo verso la sua migliore amica, seduta accanto a lei. Alzò di poco gli angoli delle labbra, quando vide Margo con gli occhi gonfi ed arrossati e le lacrime salate che scendevano copiosamente sul viso.
Si sentì soddisfatta di se stessa – e non per averla fatta piangere – per averle procurato quella reazione.
Era stato l’unico modo per farle capire quanto fosse innamorata di un paio di occhi dal colore differente dal suo: se farla piangere era una via d’uscita per farglielo comprendere, allora anche meglio.
Era sicura che una dose non indifferente di lacrime le avrebbe potuto solo far bene.
«Margareth...» sospirò Susie, richiamandola.
Quest’ultima alzò lo sguardo – precedentemente nascosto dietro la sua mano – verso Susie, che ancora aveva il pollice incastrato tra la piccola manina di sua figlia.
Margareth guardò Lily – solo in quel momento si rese conto che era sua nipote, anche se acquisita – e la vide ancora sonnecchiare tra le braccia di sua madre. La sentì emettere gli stessi versetti che aveva fatto precedentemente, e sorrise tra le lacrime.
Lily le aveva dato la forza di ricominciare a sognare e a credere ancora una volta.
Le aveva dato la forza di ammettere i suoi veri sentimenti e mai, mai, sarebbe stata più grata ad una persona in quel modo. Insieme a Susie, ovviamente.
«Susie...» sussurrò Margareth, alzandosi in piedi. La bionda inclinò di poco il capo, e lei le sorrise grata.
«Lily è una meraviglia».
Susie ridacchiò e scosse il capo, stringendo a se quel piccolo batuffolo dalla tutina chiara, ancora tra le sue braccia. «Corri a chiamarlo, cretina. Dall’altra parte del mondo non aspettano te!».
E Margareth non poté fare a meno di abbracciarla forte –anche se goffamente per non fare male alla piccola – e lasciarle milioni di baci sulla guancia, facendola ridere di gusto. Salutò Quentin con un cenno di una mano e si sporse anche verso la piccola Lily facendole un’ultima carezza e promettendole che sarebbe tornata a trovarla il giorno dopo.
Uscì dalla stanza 214 più piena e felice che mai.
La piccola Lilian Reene Jefferson era nata.
E, insieme a lei, era rinata anche Margareth.
 
 
 

Mise piede in casa sua alle quindici e trentacinque in punto.
Era ormai troppo tardi per ritornare a scuola – le lezioni erano finite da un pezzo – e non aveva voglia di girovagare come una nomade per i vari parchi della città.
Aveva bisogno di tornare a casa sua. Anche perché, finalmente, non doveva condividerla più con nessuno.
Da qualche mese a quella parte, ormai, Margareth aveva traslocato in un appartamento leggermente in periferia: aveva aperto un mutuo - da pagare in comode rate – e viveva comodamente, senza più il costante odore del cinese in casa (era arrivata al punto di odiarlo, quando abitava nella vecchia casa) e, soprattutto, senza più mutande sparse in giro su tutto il pavimento.
Certo, l’appartamento non era una reggia con sette bagni e dieci camere da letto, ma per lei e Jaden andava bene così.
D’altronde, ci vivevano solo loro due.
O meglio, inizialmente doveva viverci solo Margareth ma, da quando Jaden era stato sfrattato dal monolocale in cui viveva prima, lei non aveva potuto lasciarlo in mezzo ad una strada. Era pur sempre il suo ragazzo e, se non l’avesse aiutato, sarebbe passata per la stronza della situazione e se ne sarebbe pentita amaramente.
Jaden lo definiva il loro “nido d’amore”, ma Margareth dissentiva. Tuttavia, per non farlo rimanere male, gli sorrideva falsamente ogni volta che lo diceva, poi continuava a guardare la televisione con il braccio di Jaden che le cingeva le spalle.
Ogni tanto passavano qualche intervista dei 5 Seconds of Summer in qualche stupido talk show e lei si fermava a guardarli distrattamente, mentre Jaden al suo fianco sbuffava per vedere la partita, o qualcosa che lui riteneva più serio, ovvero qualche altro stupido programma.
Margo lo sapeva che, in realtà, era solo una scusa per non farle vedere il volto di Ashton – anche se da dietro un piccolo schermo rovinato – eppure, quello che Jaden non sapeva, era che a lei bastavano anche solo cinque minuti del suo sorriso per isolarsi dal resto del mondo. Per cui, ogni volta che inciampavano in uno di quei talk show, Jaden sbuffava, lei ammirava il sorriso di Ashton per qualche minuto e poi gli permetteva di cambiare canale, per poi alzarsi dal divano ed avviarsi in camera da letto, sedendosi alla scrivania ed aprendo una vecchia agenda dalla copertina nera. Scriveva tra quelle righe ingiallite dal tempo, con il sorriso di Ashton da protagonista dei suoi pensieri e delle sue parole e, come sottofondo, le imprecazioni di Jaden contro qualche povero giocatore che aveva sbagliato un misero tiro.
Era un continuo bivio, la sua vita: insegnante a tempo pieno ed aspirante scrittrice fallita; fidanzata con Jaden ed innamorata di un altro, lontano sorriso.
Quando tornò a casa, era sicura che Jaden fosse al pub per il turno pomeridiano, quindi – oltre ai suoi calzini sparsi sul pavimento dell’ingresso – non si aspettava che, ad attenderla al suo rientro, ci fosse proprio lui, inginocchiato su quello stesso pavimento tra i suoi stessi calzini, con una camicia bianca abbottonata fino al collo e in un paio di ridicolissime mutande colorate.
«Jaden?!» esclamò sorpresa e confusa, chiudendo la porta alle sue spalle.
Lui abbassò lo sguardo verso le sue mutande, poi le fece un sorriso imbarazzato. «Lo so, scusami. E’ che mi hai preso alla sprovvista, non pensavo tornassi a quest’ora. Così, appena ho sentito le chiavi nella serratura, non ho avuto il tempo di infilare i pantaloni...».
Margo aggrottò la fronte, alzando di poco il capo. «Non dovresti essere al pub, a quest’ora?».
«Ho chiesto qualche ora di permesso a Sean, e a Tilly di sostituirmi» spiegò, grattandosi la nuca. Margo annuì.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, lei senza sapere cosa dire, lui in mutande ed imbarazzato da morire. Jaden tossicchiò, come a voler spezzare quella ambigua tranquillità che si era creata, e Margareth fece un passo in avanti verso di lui.
«Mi spieghi cosa ci fai inginocchiato a terra?» gli domandò, incrociando le braccia al petto.
Jaden chiuse gli occhi e sospirò. «Margareth...»
«In mutande, poi...»
«Margareth...»
«Tra tutti questi calzini puzzolenti, tra l’altro» sospirò, scuotendo il capo. «Per favore, Jaden, levali da qui, fanno schif...»
«Margareth, ti prego, ascoltami».
La voce di Jaden sovrastò stranamente la sua e Margareth capì che si trattava di qualcosa di veramente urgente. Solitamente, Jaden era un tipo tranquillo, pacifico e di rado alzava la voce; contro di lei, poi, non si era nemmeno mai permesso. Margareth si zittì per un secondo e lo guardò negli occhi grandi e castani, ammirando leggermente le sue lentiggini.
Jaden si passò una mano tra i capelli scuri e sorrise, nuovamente imbarazzato. «Margareth, io lo so che non stiamo insieme da molto...»
«Sono due anni e mezzo, Jad...»
«...e che abbiamo poca esperienza in quanto a convivenza» continuò, incurante dei suoi sospiri «ma io sono certo di una cosa dalla prima volta che ti ho vista: tu sei la donna della mia vita, Margareth».
«Jaden...»
«Sono totalmente convinto di voler passare il resto della mia vita con te e costruire una famiglia, in questa casa, nel nostro nido d’amore...»
«Jay...»
«...per cui, Margareth Ulbrier» e cacciò fuori dalla tasca della camicia una scatolina blu.
«Non sta succedendo sul serio...» sussurrò lei, scioccata, portandosi una mano sulle labbra.
«Qui, tra questi calzini sporchi ed in mutande ti chiedo...» aprì la scatolina con gli occhi emozionati e le mani tremolanti, – Margareth lo notò dalla sua difficoltà nell’aprirla -  mostrando un anello che le accecò gli occhi per quanto brillasse.
«Oh mio Dio...»
E Margareth aveva finalmente capito cosa stesse per accadere. E il suo cuore, pur palpitante, non voleva.
«...vuoi sposarmi?».
 
 
 

Jaden era uscito da un pezzo da casa per recarsi al pub per il turno serale.
Margareth era stesa supina nel grande letto matrimoniale della loro stanza, la pancia e gli occhi rivolti completamente verso il soffitto leggermente crepato.
Aveva chiuso le persiane della finestra nella stanza, facendo in modo che la luce non entrasse da nessuna parte.
Voleva stare spenta. Voleva essere buia.
Sospirò amaramente quando il ricordo di poche ore prima – Jaden in mutande, inginocchiato sul pavimento con un anello tra le dita – si fece largo nella sua mente. Si voltò su un fianco, immergendo completamente il viso nel morbido cuscino, quasi come se volesse soffocare.
L’aveva presa alla sprovvista e lei, già confusa di suo, non aveva saputo cosa rispondergli.
Era rimasta ferma, immobile al centro del salotto, lasciando che  il silenzio prendesse nuovamente il sopravvento tra di loro e s’instaurasse gelido per tutta la casa.
Jaden non era stupido, e aveva capito.
Le aveva sorriso imbarazzato, si era alzato dal pavimento e le si era avvicinato, lasciandole un bacio sulla fronte. “Ti ho presa alla sprovvista, scusami. Pensaci” , le aveva detto solo, poi si era avviato nella stanza da letto –dove si trovava lei ora – e si era vestito per andare al lavoro. Aveva tolto la camicia, infilato un paio di jeans e una maglietta scura, poi l’aveva raggiunta in salotto, – dove lei era ancora pietrificata – aveva infilato il giubbino di pelle ed era uscito nell’aria fresca di Ottobre.
A quel punto, lei, aveva lasciato cadere la borsa sul pavimento – tra i calzini sporchi – e si era recata verso il bagno, dove aveva tolto la giacca verde militare – fin troppo leggera -  il vestito chiaro, il leggins nero, gli anfibi consumati con una lentezza esorbitante, senza preoccuparsi minimamente del disordine.
 Aveva lasciato che l’acqua si riscaldasse un minimo, prima di buttarcisi sotto per cercare di abbandonare i pensieri.
Ma quelli erano ancora lì, bastardi ed irremovibili, e sembravano non volerle lasciare un minimo di pace psicofisica. Era uscita, gocciolante e pensierosa, aveva avvolto l’asciugamano intorno al corpo ed era rientrata in camera da letto, dove aveva infilato un vecchio maglione bianco – fin troppo largo – e un altro paio di leggins puliti. Era stato a quel punto che aveva chiuso le persiane, si era stesa sul letto e non si era più mossa da quella posizione.
Jaden le aveva chiesto scusa. Ma scusa di cosa?! Era lei quella che doveva scusarsi con lui, lei quella che era rimasta immobile di fronte alla sua – seppur bizzarra – proposta di matrimonio.
Era una stronza, ecco cos’era. Una codarda. Una vigliacca. Una che non meritava alcun tipo di amore.
Prese a pugni il cuscino più volte per evitare di piangere ancora.
Che le versava a fare, quelle lacrime, se si sentiva così finta e di pezza, in quel momento?
Strinse ancora una volta il cuscino prima di tirarsi su di botto e respirare immensamente, facendo entrare quanta più aria possibile nei polmoni. Accasciò di poco la testa in avanti, poggiando la fronte su una mano e scuotendo il capo: era arrivato il momento di ammettere a se stessa cosa provasse davvero e cosa voleva seriamente.
Afferrò di scatto la cornetta del telefono posto sul comodino e compose rapidamente il numero, quel numero che conosceva a memoria. L’aveva chiamato così tante volte, quando aveva bisogno di aiuto, ed ora più di adesso sentiva la necessità di rivolgersi a quell’unica persona che, probabilmente, le avrebbe voluto bene anche se fosse stata ancora più orribile in quanto ad umanità.
Ed era l’unica persona che lei avrebbe amato sempre, nonostante tutto.
Attese per un infinito silenzio il primo squillo, lento ma assordante, tamburellando di poco le dita su una gamba piegata.
Al secondo squillo le venne quasi la voglia di chiudere la telefonata ed abbassare la cornetta, ma non lo fece.
Al terzo squillo, pensò che non avrebbe risposto e che era inutile continuare a sperare.
Al quarto squillo, si diede mentalmente della stupida mentre torturava il labbro inferiore.
Al quinto squillo, la sua voglia di chiudere quella telefonava cresceva, ma ancor di più aumentava la speranza che rispondesse.
Al sesto squillo, scosse il capo, rassegnata, mentre le lacrime pungevano dolorosamente contro gli occhi.
Non avrebbe risposto.
Settimo squillo.
Rispose.
«Pronto?» .
La voce – la sua voce – impastata dal sonno. Margo lo immaginò con i capelli biondi scombinati e una mano tra di essi, mentre con l’altra teneva svogliatamente la cornetta del telefono ancora con gli occhi chiusi.
«Pronto?!» ripeté ancora assonnato, stavolta più impaziente.
«Non lo amo».
Le lacrime non ce l’avevano fatta più ed erano scappate via dalle sue iridi scure, bagnandole dolcemente il viso, scendendo copiosamente sui suoi zigomi rosati. Si portò una mano sulle labbra, come se volesse nascondere i frequenti singhiozzi, come se non avesse far voluto trapelare quella dolorosa verità che aveva appena confessato.
C’era stato un attimo di silenzio dall’altra parte della cornetta, smorzato solo dai singhiozzi di lei.
«Margo?!» la richiamò Ashton, la voce un po’ più sveglia «Margo, sei tu?».
Lei, in risposta, annuì col capo, come se lui fosse in grado di vederla dall’altra parte del mondo.
«Sì» rispose solo, la voce ovattata a causa della bocca nascosta dietro la sua mano.
«Tutto bene, Margo? Stai male? E’ successo qualcosa di grave?» le domandò freneticamente, sinceramente preoccupato.
Margareth singhiozzò ancora. «Niente di grave... non sto male... non va tutto bene...» rispose a scatti.
Dall’altro lato della cornetta, Ashton sospirò. «Margo, che succede? Dimmelo, ti prego, mi stai facendo preoccupare...».
Le lacrime di Margareth continuarono a scendere copiosamente lungo il suo viso, incorniciandolo di tristezza, mentre lei cercava di asciugarli con il dorso del maglione, ormai sporco di mascara e bagnato della sua infelicità.
«Non lo amo, Ash...» sussurrò ancora, singhiozzando «io non lo amo».
Sentì Ashton sospirare ancora una volta. Lo immaginò mentre si passava nuovamente la mano tra i capelli e poi la poggiava sulla fronte, con le dita intorno alle tempie, come faceva ogni volta che era nervoso o quando, semplicemente, qualcosa lo turbava.
«Non piangere, Margo, ti prego...» la supplicò, mentre i singhiozzi di lei si facevano più frequenti.
«Scusami, Ash... io... non volevo nemmeno svegliarti, scusa...» balbettò in difficoltà «io... non so che ore siano lì e... cazzo, mi dispiace, sono sempre la solita egoista, scusa... attacchiamo, torna a dormire, io sto bene, davvero...».
Ashton fece un mezzo sorriso dall’altro capo del telefono. «Qui sono le due del mattino, Margo. E non mi disturbi affatto, non sei egoista, smettila di farti mille paranoie. L’unica cosa che voglio è che tu smetta di piangere...».
Margo annuì col capo, tirando su col naso. «Okay, ci proverò» sussurrò, e sentì Ashton sorridere.
«Spiegami che è successo, adesso. Con calma...».
Margareth fece un lungo sospiro per far entrare l’aria nei polmoni poi, quasi affranta, accasciò nuovamente la mano contro la sua fronte e scosse il capo.
«Jaden... lui... mi ha chiesto di sposarlo...» sussurrò piano, quasi come se non volesse farglielo sapere.
Ancora una volta, il silenzio fu protagonista tra di loro, interrotto solo da qualche sospiro pesante di lui e qualche altro singhiozzo involontario di lei.
«E tu... tu cosa gli hai risposto?».
Le pose quella domanda in un flebile sussurro impercettibile che, se ci fosse stato casino, probabilmente lei non avrebbe nemmeno sentito.
Margareth sospirò ancora una volta. «Io... io...» tentennò, poi prese un grosso respiro e chiuse gli occhi.
«Non gli ho risposto, Ashton».
Un altro lungo silenzio insopportabile, ancora una volta.
«Margo...»
«Io non lo amo, Ash»ripeté ancora, più a se stessa che a lui, singhiozzando. Non riusciva più a trattenerli.
«Forse non l’ho mai amato e gli ho sempre mentito. Ho sempre mentito a me stessa. Mi sforzavo di amarlo, ma non ci riuscivo, non ci riesco. E’ qualcosa di troppo grande per me, non lo sopporto più... non posso più fargli credere altre bugie, non posso più raccontarmi bugie. Devo smetterla di torturarlo in questo modo... ho giocato col fuoco, e adesso mi sono bruciata. Sono una stronza immatura egoista, cazzo!».
Scoppiò nuovamente in lacrime che, seppur silenziose, Ashton riuscì a cogliere come se fosse stato lì, accanto a lei. Lo sentì sospirare amaramente, nonostante fosse troppo occupata ad ascoltare i suoi singhiozzi frequenti.
«Margo, prendo un aereo e vengo da te» le disse improvvisamente, in un modo talmente sicuro e convinto di se stesso, che a Margareth fece quasi spavento. Alzò di scatto il capo, mentre il cuore prendeva a palpitarle forte. «C-cosa?! No, Ashton, no!» esclamò sconvolta. «Devi continuare il tour e poi... tornerai a casa tra due mesi Ash, no, non esiste!».
«Non ce la faccio a sentirti così, Margo» insisté lui «gli altri capiranno, davvero».
«Non se ne parla nemmeno!» quasi urlò «non tornerai a casa per colpa mia e per la mia stupida crisi amorosa. Non ci pensare nemmeno. Due mesi passano in fretta, ce la posso fare da sola, ce l’ho sempre fatta. Non mandare a puttane il tuo lavoro per...»
«Te» concluse Ashton, e Margareth poté sentire il suo caldo sorriso anche dall’altra parte del ricevitore, anche lontano chilometri e chilometri. «Per te, Margo. Per te prenderò un aereo e, in meno di qualche ora, mi avrai accanto. Non ci metto niente a prenotare un volo».
«No, Ashton»ripeté lei, decisa, tirando leggermente su col naso, nonostante quella proposta le avesse fatto perdere milioni e milioni di battiti. «Mancano solo due mesi. Non farlo, ti prego. Tu sei sempre accanto a me, anche quando sei lontano. Io ti porto sempre dentro di me, Ashton, lo sai...».
Ashton non poté fare a meno di sorridere. «Anche tu sei sempre con me, Margo...» si ravvivò i capelli con una mano. «Ma non riesco a rimanere qui se so che tu stai male».
«Lo lascio, Ashton» disse improvvisamente.
Si asciugò le ultime lacrime col dorso del maglione e tirò su col naso. «Lascio Jaden. Non lo amo, non voglio più mentirgli. Non voglio sposarlo e rendere infelici entrambi».
«Sei davvero sicura, Margo?» le domandò lui, sospirando forte.
Lei annuì. «Mai stata così sicura in vita mia».
Un altro lungo silenzio si interpose tra loro, diventando protagonista di quella telefonata e, i loro sospiri frequenti erano i personaggi secondari.
«Ehi...» sussurrò improvvisamente Ashton. «Stai bene?».
Margo trattenne le lacrime ancora una volta, intrappolando il labbro inferiore tra i denti.
«No» roteò gli occhi al cielo e fece un sorriso amaro «ma tutto passa, prima o poi, no?».
Ashton sospirò, e Margo lo immaginò sorridere ancora una volta. «Certo, tutto passa. Tutto, tranne noi».
Margareth sorrise, stavolta sinceramente, mentre un’altra lacrima abbandonava lenta la sua iride sinistra.
Proprio lì, in quella parte dove il cuore non smetteva di battere, alimentato dall’amore vero.
«Tranne noi?»
«Tranne noi».
Aveva confermato quella promessa in un sussurro, Ashton, in un sussurro che solo loro avrebbero potuto sentire chiaramente anche in mezzo ad una folla, anche tra il baccano di un concerto, anche lontani chilometri con l’oceano a separarli.
Era stata una promessa indistruttibile, quella. Loro lo sapevano, così come i loro cuori.
«Ashton?» lo richiamò improvvisamente Margareth.
«Sì?».
E Margareth avrebbe tanto voluto dirgli tutto, per una buona volta; avrebbe voluto svuotare il sacco pieno di parole non dette che si portava dietro da anni e che non aveva mai fatto uscire dal suo cuore. Avrebbe tanto voluto dirgli che lei, con Jaden, ci si era messa solo per ripicca e si era promessa di imparare ad amarlo quasi come se volesse dimostrargli qualcosa, come se fosse una sfida contro se stessa, ma non ci era mai riuscita, perché il suo cuore era già occupato da un’altra persona.
Quella stessa persona lontana chilometri che sentiva vicina più di chiunque altro.
Ma, ancora una volta – e chissà per quanto – stette zitta. E negò nuovamente a se stessa la verità.
«Buonanotte».
Ashton sorrise. «Non piangere più, Margo. Buonanotte anche a te».
 
 

Era passata una settimana esatta da quando Jaden era uscito da casa sua.
Quella notte – quella stessa notte – era rientrato in casa alle due del mattino, stanco morto e maleodorante di cipolla fritta. L’aveva trovata sul divano, sveglia e con un plaid sulle gambe, gli occhi rossi e gonfi dal pianto.
E aveva capito.
Margareth si era alzata e gli era andata incontro lentamente. L’aveva guardato negli occhi e si era alzata sulle punte per lasciargli un’ultima, tenera carezza, che lui aveva quasi percepito come uno schiaffo.
Uno di quelli schiaffi che colpiscono anche il cuore e che, con quest’ultimo, poi ci fanno a pugni per tutta la vita.
“Scusami tu”, gli aveva sussurrato, altre lacrime amare avevano solcato il suo volto rosato ed illuminato solo da qualche raggio della luna.
Jaden aveva scosso il capo, le aveva preso la mano e l’aveva allontanata da suo viso, come se non volesse farle sentire quanto dolore stesse provando in quel momento, come se non avesse farle voluto percepire le lacrime che, prima o poi, avrebbero solcato anche il suo, di volto.
Così come era entrato, era uscito di casa, senza nemmeno preoccuparsi della roba da impacchettare, per poi uscire definitivamente da quella casa e da quella vita.
Solo qualche giorno dopo – forse dopo essersi riempito del coraggio necessario – era rientrato mentre lei era a scuola – o forse in ospedale da Susie - e aveva preso tutta la sua roba, lasciandole la sua copia delle chiavi di casa sul tavolino accanto all’ingresso senza dirle altro.
Nessun biglietto, nessuna parola, niente di niente.
Si erano lasciati così, in un modo assordantemente e fastidiosamente silenzioso.
E adesso Margareth era sola, nella casa che aveva comprato unicamente per se stessa, della quale continuava a pagare il mutuo in comode rate e, nella quale, non vi erano più né la puzza del ristorante cinese, né calzini sporchi sparsi per il salotto.
Era diventata una casa silenziosa, interrotta solo dal vociare della televisione o da qualche cd buttato distrattamente nello stereo, giusto per ricevere quel minimo di compagnia giornaliera.
Andava spesso da Susie – soprattutto dopo che era stata dimessa dall’ospedale – per stare insieme a lei e alla bambina, per distrarsi da tutto quello che era successo e, soprattutto, per distrarsi da un amore più grande di lei.
La casa era talmente vuota e, certe volte, quasi senza vita, che le era sembrato quasi strano il rumore improvviso del citofono quello stesso pomeriggio. Aveva aperto al postino e preso il pacco a suo nome in tuta e con i capelli disordinati, senza preoccuparsi minimamente di chi potesse o non potesse vederla.
Salì le scale a due a due dopo aver firmato velocemente la raccomandata senza nemmeno salutare l’omino vestito di giallo, troppo curiosa di sapere cosa contenesse quel pacco misterioso.
Non poteva essere sua madre con le sue solite marmellate d’arancia: sapeva benissimo che le odiava e che sarebbe stata in grado di rimandarle indietro.
Scartò velocemente il pacco con il seghetto appuntito di un coltello e lo aprì avidamente, infilando entrambe le mani all’interno, troppo curiosa di scoprire cosa contenesse.
Quello che ne uscì fu totalmente inaspettato: cacciò fuori un cd, ermeticamente chiuso in un contenitore di plastica trasparente, sul quale vi era scritto semplicemente “Margo” con un pennarello indelebile.
Sorrise teneramente. Avrebbe riconosciuto quella calligrafia disordinata tra mille.
Oltre al cd, nel pacco vi era anche un bigliettino, scritto con una penna blu dalla stessa, identica calligrafia.
Lo prese tra le mani, avviandosi in salotto con quello e con il disco, sedendosi poi sul pavimento freddo della stanza di fronte allo stereo.
Lo aprì velocemente per poi immetterne dentro il cd e premere play, leggendo il bigliettino mentre le prime note musicali le entravano dentro, penetrandole le ossa e immergendosi nel suo animo come la migliore delle cure.
 
“Questa è per te, per ogni volta che sono lontano. Ricordati che sono sempre con te.
Ti voglio bene, Margo.
Ashton”.
 
Rilesse il bigliettino più volte, prima di portarselo contro il cuore, mentre le voci di Luke Hemmings e Calum Hood si fondevano tra loro, intonando la più bella melodia di sempre, che le fece palpitare il cuore a ritmo di quella musica e spuntare un dolce sorriso sulle labbra.
Due mesi, mancavano solo due mesi.
E poi, finalmente, l’avrebbe avuto accanto a se.
 
I wish I was, I wish I was... beside you. 

 
Hello everybody! :D
Here I am con un altro capitolo! *nessuno se la caga* *i grilli canticchiano allegramente e manco loro se la cagano*
Sì, okay... cccciao! :D
Allooora, che dire di questo capitolo? Diciamo che questo è stato il capitolo decisivo per me, ovvero quello che mi ha dato l'ispirazione per scrivere questa storia (e sì, lo so che adesso penserete "ma non era meglio che ti stavi ferma e non la scrivevi proprio, 'sta cagata?" "ma perché non ti metti vergogna e ti dai all'ippica?" "perché non ti ritiri, che ci fai un grande favore?") e diciamo che c'è un bel po' di fluff sparso qua e là (forse ce n'era molto di più nel capitolo precedente, ma vaaabbè)
Prima di tutto, Susie che dà alla luce una bellissima bambina di nome Lily che fa aprire un po' gli occhi a Margo! Aaaawww, tenera Susie che fa tutto quel discorso che, sinceramente, mi sono emozionata a scrivere :)
Poooooii, l'assurda proposta di matrimonio: vabbé, non so come mi sia venuta, sinceramente, la mia mente sforna cose malate, si sa.
Ma passiamo alla cosa più importante: la telefonata e la canzone. 
Non so perché, ma è una cosa che io ho trovato estremamente carina e mi andava tanto di scriverla :) ora, credo di averla scritta una schifezza (e quando mai!) però Beside You è una delle mie canzoni preferite e l'ho trovata azzeccatissima per Ashton e Margo! Spero vi piaccia come idea :D
Poooi, che altro dire?
La canzone a inizio capitolo si chiama Breathe, di Anna Nalick, e vi consiglio assolutamente di ascoltarla se non l'avete mai fatto, perché è meravigliosa, tratta da un film mooolto carino che si chiama Sballati d'amore (a lots like love in inglese che, sinceramente, trovo nettamente superiore al titolo in italiano. Ovviamente, noi italiani storpiamo sempre i nomi -.-)
E nuuulla, credo di aver detto tutto! 
Vi lascio, come al solito, i miei contatti di twitter facebook ed ask e, inoltre, i link di due oneshot che ho pubblicato recentemente, una su Ashton (la mia rovina personale, non si era capito?! Falling in love) ed una appena sfornata su Calum (L'amore è un'altra cosa)  
Spero che il capitolo vi piaccia! :D
E io ho straparlato, come al solito.
Vado via, và, che è meglio u.u 
Come al solito, grazie mille anche solo per esservi fermate a leggere!
Un bacione grande :*
Mary 
  
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