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Autore: Cosmopolita    06/03/2015    2 recensioni
« Se non mi lavo le mani questo colloquio non lo supero, anche se ormai ho cantato “Another one bites the dust” tre volte e il tre di solito mi porta fortuna. Mi agiterò, dirò qualche fesseria e chi è di dovere mi rimanderà a casa senza troppe cerimonie. Ma non posso lavarmele in questo bagno schifoso.»
[Terza classificata al contest "Over the edge" indetto da S_Lily_S sul forum di EFP]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Qualcun altro morderà la polvere





Another one bites the dust
Another one bites the dust

Fa’ un bel respiro e concentrati. Com’è che continuava la canzone?

And another one gone and another one gone
Another one bites the dust, eh
Hey, I'm gonna get you too
Another one bites the dust.


Bravissima, continua così. Qualcun altro morderà la polvere. Continua a ripeterlo, continua. Qualcun altro morderà la polvere. Qualcun altro morderà la povere.

Salto i gradini ad uno ad uno con il rischio di cadere, ma non fa niente; la segretaria mi ha detto che il bagno si trova al primo piano.
Questo posto non mi piace: farsi una rampa di scale per raggiungere i sanitari è scandaloso.
E se uno ne ha un urgente bisogno e si trova, che so, al piano di sotto? Tipo il mio caso?
Percorro il corridoio quasi correndo, l’unico rumore che si sente è il picchiettio delle scarpe col tacco, comprate per l’occasione, sul pavimento.
Il bagno delle donne? Sì, certo. E’ in fondo a destra, al primo piano.
Entro e l’odore di chiuso, nonostante siano le otto di mattina ed io sia praticamente a digiuno, è quasi piacevole.
A destra c’è una lunga sequenza di lavandini metallici, spogli. La luce del tungsteno è talmente fiacca da far sembrare le mattonelle del linoleum sporche e incrostate di polvere.
Storco il naso. Chissà chi c’è già stato qui; qualche sporca stacanovista che non si lava da giorni e che ha vissuto l’ultimo fine settimana in ufficio, oppure una pigra operatrice sanitaria che non ha avuto molta voglia di pulire il bagno. Ha riposto tutta la propria speranza nell’opacità della lampadina per insabbiare la sua oziosità.
Il solo pensiero mi fa stare male: Non potrei mai lavarmi le mani in un posto del genere.
O peggio: Non potrei mai lavorare in questo posto. Lo odio. Mi fa schifo.
Mi chiedo quanti batteri possano mai esserci qui dentro; quella sorta di fastidiosi parassiti invisibili che si moltiplicano a milioni ogni secondo che passa, ovunque, anche sopra di me, anche sulla superfice di questi lavandini sporchi. Malgrado faccia qualsiasi cosa per toglierli, è completamente inutile, perché loro non se ne andranno mai via, e…
Va tutto bene.
Sono solo le otto, il colloquio inizierà tra mezz’ora e ho tutto il tempo per riprendermi.
–Hey, I’m gonna get you too/ Another one bites the dust- l’eco rende la mia voce ancora più gracchiante e penosa.
“Another one bites the dust” mi salvava sempre dai casini, quando ero adolescente. E’ stato tutto merito di quella canzone se ho ottenuto il diploma.
Solo che ora è diverso: non sono più un’adolescente e un colloquio di lavoro non è un esame di stato.
Se non mi lavo le mani questo colloquio non lo supero, anche se ormai ho cantato “Another one bites the dust” tre volte e il tre di solito mi porta fortuna. Mi agiterò, dirò qualche fesseria e chi è di dovere mi rimanderà a casa senza troppe cerimonie. Ma non posso lavarmele in questo bagno schifoso.
Senza pensarci neanche tre volte, apro la porta e rifaccio il percorso a ritroso. Gli uffici mi scorrono davanti come immagini sfocate, non m’importa neanche più di guardarli: non lavorerò mai qui.
Scendo le scale, con la coda dell’occhio intravedo la segretaria che mi ha indicato il bagno. So che mi sta guardando con perplessità, si starà domandando dove io abbia intenzione di andare. In ogni caso, non la rivedrò mai più.
L’odore di fuori mi fa stare già meglio.
Accidenti, sono stata davvero una stupida a non portarmi il disinfettante. E’ tutta colpa di Irene, le ho pregato di comprarmelo, ma lei se n’è dimenticata.
Ecco perché odio gli studenti di filosofia: non si ricordano mai di fare la spesa, persi come sono nelle loro stupide meditazioni.
So già cosa mi dirà appena arriverò a casa e le dirò che il colloquio non l’ho neanche sostenuto: "Dai, Leda, non fa niente!". Fa sempre così. E’ la mia coinquilina da tre anni e non le ho mai sentito dire nulla contro… contro… Lasciamo stare.
In realtà, lei lo odia, tanto quanto lo odio io.
Apro la borsa e prendo una salvietta. Non è il massimo, forse, ma è senza ombra di dubbio meglio questo che il bagno di prima.
Ho lasciato la macchina parcheggiata vicino a quel luogo infernale, forse sarà meglio spostarla da qualche parte, altrimenti…
Mi fermo a guardare una vetrina: ha proprio dei bei vestiti, appena iniziano i saldi potrei convincere Irene ad andarci insieme e… oh, che palle!
Non riesco proprio a non pensarci! Come può un edificio portare sfiga e contagiare una macchina con la sua sfortuna, solo io lo posso sapere.
Faccio marcia indietro e ritorno al mio “non più posto di lavoro”. La mia macchina è lì, parcheggiata accanto ad altre due.
Prendo un’altra salvietta e la sfrego contro la maniglia dello sportello al lato del guidatore per tre volte, non una di più, né una di meno. Una volta ho visto un tizio che la stava alzando ed abbassando su e giù, come se non avesse mai visto una maniglia in vita sua: da quel giorno la pulisco sempre.
–Steve walks warily down the street/ With the brim pulled way down low/ Ain't no sound but the sound of his feet/ Machine guns ready to go.
E’ la quarta volta, nel solo arco di una mattinata, che canto questa canzone.
Forse è ora di porre un rimedio a tutto questo.

Cantavo “Another one bites the dust” anche il giorno in cui ho riavuto il bisogno spasmodico di lavarmi le mani tre volte di seguito, durante il volo d’andata per New York.
Seduta sull’aereo, un pensiero fulmineo mi era passato per la mente: E se l’aereo cade? Con me dentro, intendo. Insomma, se non sbaglio da un’altezza così le speranze di salvarsi sono poche.
Nel giro di pochi secondi ne ero diventata ossessionata. Non è possibile che cada, voglio dire, tra tanti voli che ha fatto proprio quando ci sono dentro io deve giocare questo scherzo? Eppure è possibile, quanti aerei sono precipitati e magari erano pure efficienti? A volte è colpa degli uccelli, non stanno attenti a dove volano e si sfracellano tra le ventole. Anche se, in effetti, siamo troppo in alto per correre questo rischio.
Devo assolutamente lavarmi le mani.
Mi girai verso il mio compagno di viaggio e lo strattonai fino a quando non mi prestò attenzione.
–Tu sai se c’è un bagno nell’aereo?
Davide mi guardò accigliato: lo avevo appena svegliato –Penso di sì.
Mi ero lavata le mani, una, due, tre volte. Ad ogni lavaggio, l’immagine terribile dell’aereo che si fracassava nell’Oceano diventava sempre meno nitida.
Devi rilassarti. Andrà tutto bene.
Mi ricordai che quando avevo quattordici anni, prima che i miei mi portassero da uno psicologo perché, secondo loro, “Farsi la doccia tre volte al giorno non è affatto normale”, cantavo “Another one bites the dust” e tutto andava bene.
La cantai. L’aereo non precipitò.
Tuttavia, Davide ed io ci lasciammo. Non molto male, alla fine, il bilancio, considerato che in alternativa sarei potuta morire.
Anche poco prima di mettermi con lui la cantai. Avevo diciannove anni. Il giorno dopo ero talmente contenta di averlo con me che mi dimenticai di pulire la maniglia della macchina. Il giorno dopo ancora non mi feci la seconda doccia della giornata.
Lo psicologo mi disse che in tanti anni non avevo compiuto un progresso migliore di quello.
Mentre controllo la cassetta della posta, penso che sia davvero buffo che il mio disturbo se ne sia andato con l’arrivo di Davide e sia ritornato dopo che lui è andato via.

Irene sa che non ho fatto quel maledetto colloquio, altrimenti non sarei tornata così presto a casa. Mi dice solo –Alla fine il disinfettante te l’ho comprato- e indica con un cenno della testa un barattolino ricolmo di liquido verde poggiato sulla mensola del salotto.
Vado in bagno, finalmente quello che ho pulito io con le mie mani, e apro il rubinetto. M’insapono, sciacquo, insapono un'altra volta.
-Leda!- urla Irene fuori dal bagno –Ho controllato la posta, dopo che te ne sei andata. C’è una roba per te, una specie di invito.
Risciacquo –L’hai letto?-
-Avrei dovuto? – la sento ridere –No no, figurati, non lo farei mai. Mio Dio, ma che stai facendo lì dentro?
Rinsapono –Nulla, nulla. Sai chi me lo manda?
-Ti prego, almeno diminuisci il numero, la bolletta la pago anch’io, per la miseria!- quando Irene si riferisce al mio problema, non capisco mai se scherza o è seria –Comunque, credo sia di Davide.
Eh?
-Sei sicura?- chiudo il rubinetto. Esco dal bagno e la mia coinquilina è lì fuori che mi fissa sorridendo, quel sorriso così largo che la fa sembrare ancora più infantile di quanto non lo facciano già i suoi lineamenti morbidi.
–Com’è che quando parlo di qualcosa che t’interessa smetti subito di lavarti?- perfino il modo in cui mi porge la busta sembra derisorio.
Gliela strappo dalle mani (“E che modi!” Fa lei, fingendosi offesa).
Irene sarà pure la persona più frivola di questo mondo, ma su questo non mi ha preso in giro.

Sei invitata al matrimonio di Davide e Francesca.

E’ la prima frase che leggo, non appena apro la busta.

Tre, sei, nove, dodici… ripetere i multipli di tre mi fa sempre stare meglio. Mi piace il numero tre, non so perché, mi ha sempre portato fortuna. Un po’ come “Another one bites the dust”, per questo li associo sempre.
Davide si sposa. I due segmenti, “Davide” e “si sposa”, non si amalgamano bene all’interno della mia testa. Sicuramente perché l’ho visto sempre e solo come il mio fidanzato storico.
Ho perso il conto, devo ricominciare da capo: tre, sei, nove…

-Ma va, si sposa?- con la testa infilata tra l’incavo della mia spalla, Irene legge insieme a me –Chi l’avrebbe mai detto?-
Già, chi l’avrebbe mai detto. Non dico che non mi aspettassi che si trovasse un'altra, l'ho fatto anch’io. Io, però, non mi sono sposata.
La voce ormai ovattata di Irene nel frattempo continua –E’ esattamente dieci giorni prima della mia laurea. Che culo, pensa se l’avesse fatto lo stesso giorno in cui discutevo la tesi e…
Strappo il foglio dell’invito in due.
Accanto a me, Irene sobbalza, come se le avessi appena tirato uno schiaffo -Che... cosa ti è preso?- ha gli occhi sgranati.
Mi stringo nelle mie spalle –Non ci vado al suo matrimonio. Non mi va.
Per una volta tanto, lei ha il buon senso di rimanere zitta. Forse perché ha capito che nella sua posizione è meglio tacere.
Il punto è che non mi è mai piaciuto vedere gli altri che vanno avanti senza aspettarmi; Irene si laureerà ed io non ho ancora trovato un lavoro. Davide si sposerà ed io non ho ancora trovato nessuno con cui poter stare davvero.
Tutti vanno avanti con la propria vita, tranne me; sono rimasta chiusa in quel bagno, sul volo per New York City, a cantare “Another one bites the dust” e ci rimarrò per sempre.
-Irene?- la chiamo con voce flebile.
-Eh?
-Non lo volevo quel lavoro. Mi faceva davvero vomitare quel posto, dovevi vedere com’era il bagno! Cioè, non era poi messo così male, però…
Lei m’interrompe –Dai, Leda, non fa niente- come da copione. Questa volta, però, sembra meno scocciata. E’ quasi come se mi compatisse.
Sospiro. Mi giro per guardarla, non l’ho mai vista così seria.
–Vado da uno psicologo.
Non so perché l’ho detto. Mi è venuto naturale guardando il suo volto rassegnato. Ripenso all’invito di Davide diviso in due, è ancora stretto tra le mie mani. Le stringo ancora di più, ormai quei due pezzi di carta saranno diventati due palline irriconoscibili.
Lei non risponde. Sorride e basta e va bene così.

Alla fine non è poi così male.
Lo studio di questo psicologo è caldo, abbastanza pulito. Ha installato una radio per fare in modo che i pazienti della sala d’aspetto non sentino nulla che provenga da dentro lo studio, lo trovo piacevolmente rassicurante.
La sedia è comoda e menomale, mi sa che il paziente prima di me avrà ancora molto di cui parlare.
Prendo una caramella dal vassoio. E’ stato messo lì per i bambini, probabilmente.
La prima volta che sono andata da uno psicologo avevo quattordici anni e ricordo di non aver mai preso una caramella a quell’età.
In tutta onestà, non ricordo quasi nulla di quella fase. Non ricordo neanche com’è iniziato il disturbo. Forse a dieci anni, quando agli scout due ragazzini mi tirarono le uova e i miei capelli puzzavano talmente tanto che vomitai dietro ad un cespuglio, intorno a tutti gli altri che mi guardavano attoniti.
Me li lavai tre volte, in preda al terrore e all’umiliazione, prima che quell’odore insopportabile se ne andasse. A distanza di anni, se li annuso a lungo, mi sembra di poter risentire il loro tanfo nauseabondo ed acre.
Ma chi può dirlo? Forse l’ho sempre avuto.
In ogni caso, non ci sono andata più agli scout.
Scarto la caramella. E’ buona, sa di limone.
Ed è solo adesso che presto davvero ascolto alla radio, catturata da una voce e da alcune parole ormai familiari.

And another one gone and another one gone
Another one bites the dust.

Sorrido.
Andrà tutto bene.



 

N.d.A.

Prima di tutto, ringrazio sentitamente chi è arrivato a leggere fin qui.
Ho deciso di trattare questo particolare disturbo, il DOC, perché lo devo ad una cara persona, oltre che a me stessa. Spero di essere stata precisa e adeguata come mi ero prefissata. Come avrete sicuramente capito, la protagonista, in seguito ad un'idea o un pensiero intrusivo e fastidioso, è portata ad esorcizzarlo tramite un "rituale", per così dire, ben preciso: cantare "Another one bites the dust" (canzone memorabile dei Queen) e compiere una determinata azione per tre volte (soprattutto lavarsi le mani, piuttosto comune da chi ne è affetto).
Ringrazio ancora una volta chi ha letto e, ovviamente, la giudice che ha indetto il contest "Over the Edge", S_Lily_S.
A presto,
Cosmopolita
   
 
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