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Autore: Nat_Matryoshka    07/03/2015    2 recensioni
Stato di Thervan, Terre Antiche.
Finna è una giovane nobile destinata a sposarsi e a portare onore alla sua famiglia come altre Rivervale prima di lei, Gaerys è un elfo nato per essere mago ma desideroso di diventare un guerriero. Entrambi desiderano cambiare la loro vita… e il torneo organizzato nella vicina regione di Naithara potrebbe aiutarli a ritrovare loro stessi.
Dal testo:
"L’aria profumava di resina, di muschio umido, di quell’odore di vento sospeso tra il freddo e un lieve tepore che caratterizzava ogni primavera e che, anche quell’anno, era tornato… ma, su tutti, dominava l’odore dell’acciaio. Un’armatura che le premeva sulla schiena, ben nascosta nella sua bisaccia. La promessa di qualcosa di nuovo, di diverso, che sarebbe nato proprio quella notte.
Finna sorrise, inspirando l’aria fredda nel buio. La sua vita di cavaliere era iniziata."

Seconda classificata al contest "La Caduta dell'Inverno Boreale - Viaggio nel Fantasy Medioevale" indetto da Silvartales sul forum di EFP.
Genere: Avventura, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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|| Questa storia ha partecipato al contest “La Caduta dell’Inverno Boreale, e altre storie – Viaggio nel Fantasy medievale” indetto da Silvar tales sul forum di EFP e si è classificata seconda. ||
 
 




Cronache di una primavera di gelo
 
 

 





Autunno
Terzo anno della Quinta Era dalla Conquista di Doren l’Impetuoso
 
 
 


Ogni abitante di Orva, dal più giovane al più anziano, aveva imparato ad amare l’autunno: era la stagione più bella dell’anno, quella in cui le piogge dell’estate si decidevano a lasciare finalmente il posto ai raggi solari d’oro caldo, che cadevano sulla terra in tante frecce luminose, come se Alynora, la dea della Caccia e del Sole, avesse deciso di scoccarle dal suo arco per donare ai mortali quella luce che sembravano desiderare disperatamente. L’inverno era rigido, pretendeva dagli uomini più di quanto desse effettivamente in cambio, e la primavera non si fermava mai abbastanza perché potessero imparare a conoscerla… ma l’autunno era speranza, era calore. Era la Festa del Raccolto e la fioritura dei frutteti tardivi, la ragione del sorriso sulle labbra della giovane Jona, che passeggiava per il giardino del castello accarezzandosi il ventre, pensierosa. Per quanto suo marito l’avesse rassicurata innumerevoli volte e anche le levatrici non la perdessero mai di vista, una gravidanza restava pur sempre una gravidanza: aveva già dato alla luce un figlio, ma l’evento la riempiva di un’ansia mista a trepidazione sottile, un sentimento che, prima o poi, afferrava tutte le madri in attesa. Nonostante tutto, quella mattina era serena, il sole brillava tiepido, i suoi alberi preferiti la salutavano muovendo dolcemente le chiome. Cos’altro avrebbe potuto desiderare per iniziare al meglio la giornata?
Tese la mano e accarezzò uno dei pruni tardivi, una pianta che fioriva proprio in autunno e regalava i suoi frutti solo all’inizio dell’inverno, come a voler alleviare un po’ le fatiche e il freddo patiti dagli uomini con dei frutti di un viola tenero, pastoso. La mano era poggiata sui fiori, ma la mente vagava, lontana, verso sentieri che solo ultimamente si era accorta di esplorare.
Se mi nascesse una figlia, aveva pensato tra sé la giovane donna, vorrei che fosse graziosa. Bionda di capelli come me, gli occhi vivaci di suo padre, mi piacerebbe insegnarle a cantare, a suonare l’arpa, a ricamare. So che Asbjorn vorrebbe un altro maschio… ma a me piacerebbe una bambina. La mia piccola Finna. 

Nove mesi dopo, la sua preghiera fu esaudita. 

La giovane donna non riusciva a trattenere la gioia: la sua seconda nata era una femmina, proprio come aveva desiderato! Perfino suo marito, l’austero Asbjorn Rivervale, lord delle Terre Antiche nello stato di Thervan, si era sciolto in un sorriso orgoglioso quando gliel’avevano presentata, bianca e delicata, piccola come una bambola e altrettanto fragile, preziosa. L’avevano chiamata Finna, la bella, come voleva sua madre, e Finna Rivervale era stata allattata e coccolata come si doveva ad una bambina del suo rango, adorata dal padre e dalla madre, che ringraziava con tutta se stessa gli Déi per aver concesso loro un’erede proprio come la desiderava.
Gli anni passavano, ma la sorte sembrava aver preso direzioni impreviste: a quattro anni Finna preferiva giocare col suo piccolo arco piuttosto che con le bambole che le portavano le ancelle, mentre a sei si era dimostrata completamente disinteressata alle lezioni di musica che la madre cercava di farle prendere. Come se non bastasse, il suo migliore amico era il figlio dell’alchimista di corte, un ragazzino scalmanato di nome Gaerys che si era messo in testa di diventare un guerriero nonostante l’eredità magica della sua famiglia e che non esitava un attimo quando si trattava di cacciarsi nei guai insieme a Finna. Era talmente diversa da suo fratello Fergus, così posato e tranquillo, da far chiedere a tutti da chi potesse aver ereditato quell’indole vivace, forse troppo vivace per una ragazza.
Sua madre sospirava ogni volta: magari era solo questione di tempo, Finna doveva ancora crescere, innamorarsi, trovare la sua strada. Magari un giorno sarebbe tornata sorridendo e le avrebbe chiesto lezioni di arpa, attenta a non sporcare il suo vestito, desiderosa di imparare le buone maniere che rifiutava con tanta caparbietà… forse era troppo presto, pensava. Non doveva preoccuparsi, anche se ad Asbjorn quella principessina poco femminile sembrava piacere molto.  Se lo ripeteva come una sorta di preghiera, cercando di portare pazienza, anche se l’amore per sua figlia restava forte, come può esserlo solo quello di una madre.

Quando, a sedici anni ormai compiuti, la ragazza le aveva annunciato di voler diventare un cavaliere, la Regina Jora si era chiesta dove avesse sbagliato esattamente con Finna.

 

* * *
 

Primavera
Diciannovesimo anno della Quinta Era
 
 

 
“Sai benissimo che si tratta di una pessima idea. E no, non smetterò di dissuaderti solo perché sono tuo amico,Finna. Proprio per questo dovresti renderti conto di quanto sia sconsiderato il tuo comportamen-…”

“Senti, Gae, piantala. Se avessi voluto essere rimbrottata mi sarei portata dietro mia madre, o al massimo Hela e le sue stupide lezioni di arpa, buone maniere e tutte quelle cose noiose che le donne adorano… sei il mio migliore amico e ti trovi di fronte ad una persona stufa di essere costretta a diventare quella che non è. Per una volta potresti chiudere un occhio, no?”

Due ragazzi galoppavano lungo un sentiero lastricato costeggiato da alberi frondosi: davanti a loro sorgeva la fortezza di Asbjorn Rivervale, un mastodonte di pietre accucciato ai piedi della montagna, in paziente attesa di inghiottire le due figure all’interno del cortile. La ragazza cavalcava a briglia sciolta, accaldata, il vento che le spettinava la chioma bionda arruffando l’acconciatura di treccine che la sua cameriera personale aveva realizzato con tanta cura solo poche ore prima: già le sembrava di sentire le urla della madre, ma le bastava stringere le briglie per lasciarsi alle spalle qualunque pensiero, inebriata dalla libertà che solo in quegli istanti le sembrava di provare. Accanto a lei si faceva strada Gaerys, il suo migliore amico, un ragazzo magro, la pelle bianca come la prima nevicata dell’inverno e un ciuffo di capelli castano scuro che gli copriva gli occhi e le orecchie sottili e appuntite, molto più lunghe di quelle della ragazza. Un elfo, come se ne vedevano tanti nella regione di Thervan, per quanto non molti di loro potessero vantare un’abilità simile a cavallo e un’amicizia tanto stretta con una ragazza di rango elevato.
Il cortile della fortezza li accolse stringendoli tra le sue fauci di pietra, mentre i due giovani frenavano gli animali e li conducevano alle stalle per farli riposare un po’ dopo la cavalcata attraverso i boschi e i villaggi. Gaerys riprese la parola, come a voler rispondere alla domanda che gli era stata posta qualche minuto prima.
“Non chiudo gli occhi quando si tratta della tua sicurezza. Sai benissimo che se tuo padre ci scoprisse ti spedirebbe nella capitale per farti sposare a qualche signorotto che nemmeno conosci… in quanto a me, sarei un ottimo complemento d’arredo per la Sala dei Trofei: scommetto che lord Asbjorn non ha ancora una testa di elfo da aggiungere alla sua collezione.”
Era serio, ma Finna non riuscì a trattenere comunque una risata. Per quanto gli elfi fossero una categoria sociale non vista di buon occhio – orecchie lunghe, incantatori da quattro soldi, gentaccia che usa troppo la magia e dalla quale bisogna restare alla larga, così mormoravano tutti – suo padre stimava Gaerys e di certo non lo avrebbe mai voluto vedere appeso accanto alle teste degli alci e degli orsi nella sua stanza della caccia. D’altra parte, però, aveva ragione: i suoi genitori avevano atteso fin troppo che la figlia decidesse di “sistemarsi”, mostrando una pazienza inaspettata, quasi sospetta. Era più che sensato immaginare che avessero qualcosa in mente, se non altro per quanto riguardava la sua trasformazione da ragazzina armata di pugnale e perennemente spettinata a vera lady di Thervan, accompagnata solo da eleganza e buone maniere.
Lei, però, non glielo avrebbe permesso. Assolutamente no. Erano anni che meditava di chiedere a suo padre il permesso per intraprendere un viaggio di formazione attraverso le regioni di Orva, e quel torneo di cui tutti parlavano al villaggio sembrava essere l’occasione più adatta. Se anche gli araldi non si fossero presentati al castello, avrebbe sempre potuto partecipare come cavaliere errante… le serviva solo che lord Asbjorn chiudesse un occhio e accettasse le sue richieste, tutto lì. E che Gaerys la smettesse di blaterare di punizioni e disgrazie, se anche il caso – bisognava stare in guardia, non era un’ipotesi tanto assurda – le avesse posto davanti la fuga come unica possibilità. Tutti i ragazzi di buona famiglia partivano per un viaggio attraverso il continente di Orva… per quale ragione avrebbero dovuto precluderle quella possibilità?
Gli stallieri salutarono la ragazza con un inchino e il suo accompagnatore con un gesto della mano, guardandoli sparire all’interno delle cucine. L’ora di pranzo si avvicinava e Finna sapeva bene che, se fosse stata abbastanza svelta e silenziosa, un bel pezzo di arrosto sarebbe potuto arrivare tra le sue mani anche prima di venire servito in tavola, magari accompagnato da una fetta di pane appena sfornata. Sua madre non ne sarebbe stata felice, ma d’altronde ci era abituata.
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Nelle cucine, tra le filatrici, nelle stalle e perfino tra le guardie delle segrete non si parlava d’altro: uno degli araldi della regina di Naithara era appena arrivato al castello per annunciare qualcosa di importante, o almeno così sembrava, visto che aveva richiesto espressamente di vedere lord Asbjorn per conferire con lui a quattr’occhi, senza lasciare il messaggio a dei legati. Tutta la fortezza era preda di un fermento straordinario, un po’ per la curiosità – i nobili di Naithara erano uno spettacolo inusuale, coperti com’erano di sete e gioielli, diversissimi dai guerrieri di Thervan e dai loro abiti ben più sobri – un po’ per l’idea che qualcosa di grande stesse per succedere. Quegli araldi erano portatori di storie e di avvenimenti destinati a cambiare la vita di tutti, dai nobili al popolino, per cui il loro arrivo era sempre salutato con fervore, sia che venissero in pace, sia quando le loro intenzioni erano bellicose. Non che fosse possibile saperlo in anticipo, comunque.
Finna Rivervale viveva di storie: l’avevano nutrita fin da bambina insieme al latte della sua balia e avevano continuato a plasmare la sua infanzia e adolescenza, sia sotto forma di canti e gesta epiche raccontate dai bardi che si fermavano al castello durante le feste sia grazie ai racconti con cui Yerand, il padre di Gaerys, intratteneva i bambini quando erano ancora delle piccole pesti chiassose che scorrazzavano per le sale del castello fingendosi cavalieri e maghi delle leggende. Non c’era da stupirsi, quindi, se i suoi occhi saettassero vivacemente al solo sentir pronunciare le parole “torneo” e “un cavaliere per ogni regione” uscite dalle labbra di una delle sguattere, che chiacchierava animatamente con Amara, la loro capocuoca. Le due donne sembravano particolarmente indaffarate, altro particolare che solleticò l’attenzione della ragazza, portandola ad accostarsi all’ingresso della cucina, le braccia ancora cariche di frutta e pane, ben nascosta dall’ombra dell’andito.
“… un damerino ben vestito, si vede che viene da Naithara, laggiù anche i nobili decaduti sono coperti di broccati e sete. Non ho udito quello che aveva da dire, ma Rowan, l’attendente del lord, ha detto che ha sentito parlare di un torneo, qualcosa riguardo la scelta di un cavaliere e un premio consegnato dalla principessa ereditaria a chi vincerà tutte le giostre indette da suo padre, Re Arion… i soliti divertimenti da nobili. Lord Asbjorn potrebbe anche lasciarlo andare come se nulla fosse, non mi pare sia mai stato un tipo da frivolezze… pensa solo a quando è nata lady Finna, ti pare che abbia organizzato cerimonie sfarzose come si usa qui vicino? No, ovviamente. Per cui tutta questa storia…”

La mia occasione… eccolo qui, l’araldo. Appena in tempo.

Non le servì ascoltare altro: un attimo dopo Finna si era già fiondata lungo i corridoi, Gaerys che le correva dietro per non perderla di vista borbottando qualcosa sul cibo sprecato che le stava cadendo dalle braccia. Dopo mesi, anni in cui si era ostinata a cercare anche un minimo sprazzo di avventura, ecco che il brivido della novità arrivava direttamente da lei… e contro ogni sua aspettativa. Non voleva perdere un istante di quell’incontro.
Sfortunatamente per Finna, quando fece il suo ingresso trionfale (e punteggiato da briciole e pezzettini di carne sparsi ovunque, che sua madre per fortuna non vide) nella sala grande del castello non trovò più l’araldo: se n’era già andato, portandosi probabilmente dietro il disinteresse totale del lord. La servitù aveva ragione: Asbjorn Rivervale era un uomo tutto d’un pezzo, un guerriero prima che un lord, uno che non amava particolarmente i balli e i tornei che, invece, andavano tanto di moda in altre zone di Orva. Neppure a lei i balli erano mai interessati granché, ma i tornei… la sola idea di poter cavalcare con indosso un’armatura con il simbolo della sua Casata, battersi con altri cavalieri e risultare vincitrice della giostra la riempiva di eccitazione, come se stesse vivendo un enorme sogno ad occhi aperti. Perché suo padre non lo capiva? A volte le sembrava di parlare a se stessa quando gli raccontava i suoi sogni e le sue aspirazioni, nonostante lord Asbjorn fosse lì presente. Poteva amarla, sicuramente le voleva bene ed era grato di averla, ma probabilmente non l’aveva mai capita davvero.
Si era ripromessa di affrontare il discorso con diplomazia, senza lasciare che il suo lato più irruento si palesasse, ma la corsa e i pochi minuti trascorsi dall’arrivo di quella notizia l’avevano decisamente caricata di entusiasmo.  Corse in mezzo alla sala, dirigendosi verso il trono che suo padre occupava durante le udienze e piantandogli i grandi occhi azzurro cupo sul viso, un fremito di impazienza e anticipazione che la scuoteva da capo a piedi.
“Un emissario! Un emissario da Naithara! Padre, avete scelto i cavalieri da inviare al torneo?”
Asbjorn Rivervale non si chiese come facesse sua figlia a conoscere quelle informazioni, ma decise di lasciar perdere in partenza: Finna era una ragazza piena di sorprese e, soprattutto, era dotata di un buonissimo udito.
Decise di concludere in fretta la questione.
“No. E non intendo dissuadere i miei feudatari migliori dai loro impegni per partecipare ad una stupida festicciola tra nobili… la regione di Thervan è culla di guerrieri onorevoli, non di pupazzi da giostra incipriati e tronfi. Che bussassero ad altre porte, se vogliono trovare qualcuno che li accontenti, io non ho tempo da perdere. Re Noah potrebbe aver bisogno delle mie truppe in qualunque momento.”
Come volevasi dimostrare, suo padre era sempre lo stesso, tutto d’un pezzo, di un’integrità così assoluta da rendere impossibile qualunque compromesso. Cos’altro poteva aspettarsi? Eppure, decise di non arrendersi e avanzò ancora, tentando il tutto per tutto: ormai non aveva più nulla da perdere.
“E se fossi io, il vostro cavaliere? Padre… sapete bene quanto ami cavalcare, mi avete vista in azione con la lancia e ho anche preso lezioni di spada (sua madre sussultò e fissò il marito con espressione sdegnata: sua figlia che prendeva lezioni di spada a sua insaputa?), nessun nobile di Naithara o di Argona potrebbe farmi sfigurare… perché non provare? Potrei diventare l’Eroe di Orva! Su di me narrerebbero leggende! Se solo…”
“Finna.” Suo padre alzò il braccio per fermarla, il tono diventato improvvisamente più severo. Quando lord Asbjorn si alzava e sollevava una mano, tutti i suoi cavalieri e alfieri sapevano che era il momento di inchinarsi e restare in silenzio: la magnanimità dell’uomo era conosciuta ovunque, ma era anche vero che il lord più gentile della regione poteva trasformarsi in un attimo nel più severo e ordinare punizioni terribili. La ragazza amava suo padre e la sua forza, per quanto non sopportasse quell’atteggiamento duro e inflessibile, ma in tanti anni ancora non aveva imparato a cogliere il momento giusto per non aggiungere nulla e lasciarlo parlare.

“Vi giuro, vi porterei onore! Se ci pensas-…”

“Finna Rivervale, basta così! La mia decisione è legge, come ben sai: se ho deciso che non invieremo cavalieri, così sarà, e basta. E poi, dove vorresti andare? Sei di famiglia nobile e per giunta una donna, non avresti possibilità di gareggiare nel torneo, che è riservato ai maschi. Vuoi che ti umilino pubblicamente o, che gli Déi ce ne scampino, che ti uccidano? Sai bene cosa succede a chi osa sfidare le loro regole, Yerand ti ha raccontato tante storie, se non sbaglio.”

La ragazza lo fronteggiava, stoica, trattenendo le lacrime. Sapeva di perdere la battaglia in partenza, ma non aveva intenzione di ritirarsi… da qualcuno doveva pur averla presa, quella testardaggine.
“Forse tua madre ha ragione” sospirò l’uomo, e parve davvero stupito, quasi deluso dalle sue stesse parole. “Forse dovremmo iniziare a trovarti un buon partito, sei grande abbastanza da conoscere un promesso sposo e iniziare a pensare alla tua famiglia, invece che ai tornei. Avevo sperato di poter agire diversamente, ma mi rendo conto di aver confuso anche te, lasciandoti così libera… rimedierò, in qualche modo. Una ragazzina non può giocare per sempre a fare il guerriero. Quello è un compito che spetta a tuo fratello.”

Sua madre l’aveva educata ad aspettare sempre il permesso per congedarsi, ma la rabbia ormai pervadeva il cuore e l’animo di Finna, rodendolo, spingendola a voltare le spalle al trono e a scappare via, diretta alla sua stanza. Rabbia mista a tristezza, e alle lacrime che finalmente si fecero strada sul suo viso, ora che nessuno poteva guardarla e giudicarla per quella che era: una stupida ragazzina che si fingeva un maschio, spettinata e rossa in viso, ridicola anche per se stessa.
Ignorò la voce di Gaerys che le gridava dietro richieste di spiegazioni e i suoi passi incalzanti per correre verso la sua stanza, sbattendo la porta alle spalle e gettandosi sul letto, sfinita. La sua mente turbinava di pensieri e di desideri scombinati e furiosi, ma non aveva la forza per cercare di dipanarli, distenderli uno dietro l’altro e dar loro un minimo senso logico: aveva bisogno di riposare. E così fece, abbandonando la testa sul cuscino, chiudendo fuori qualunque immagine di guerrieri, armature e nobili la sua mente volesse propinarle.
                                                                           
                          * * *                        
 

La notte di solito portava consiglio, ma nel caso di Finna aveva fatto molto di più: aveva fatto nascere una soluzione, un’idea esaltante e terribile che aveva iniziato ad abitare la sua mente portando la ragazza a rimuginarci su giorno dopo giorno. Sarebbe scappata. Nessuno le avrebbe fatto cambiare idea.
Quali alternative le erano rimaste? Suo padre sembrava voler mantenere la promessa di trovarle subitoun’occupazione da lady, tanto che aveva mandato un messaggio a lord Errin di Picco delle Nuvole il giorno dopo il loro litigio perché tenesse un posto libero per la figlia nel suo castello. Lady Anita, la sua consorte, era una donna raffinata e intelligente che sapeva sia usare la spada che ricamare e cantare come un usignolo: tempo prima – durante un incontro tra lord della regione alla presenza di re Noah – aveva già proposto ad Asbjorn di prendere Finna sotto la sua protezione per “istruirla un po’” e trovarle un buon partito da sposare, anche se il momento giusto per organizzare quel soggiorno all’epoca sembrava essere ancora lontano. La sola idea di restare chiusa in un castello, costretta a ricamare, cantare e imparare a danzare riempiva la ragazza di un formicolio fastidiosissimo, rafforzando in lei un’idea che le sembrava di giorno in giorno sempre più assurda e invitante.
Era come se due voci abitassero la mente di Finna: una continuava a suggerirle di restare, lasciar perdere e sperare che suo padre dimenticasse tutto e lasciasse correre, come magari avrebbe fatto; l’altra – una voce incalzante, agitata – la spingeva alla fuga. Voleva scoprire il mondo, giusto? Beh, se non avesse ottenuto il permesso con le buone, allora era il momento di conquistarsi la libertà con le azioni, come facevano le eroine delle storie che tanto le piacevano. Non sarebbe stato facile, avrebbe rischiato grosso, ma la prospettiva di una vita infelice non era forse peggiore di qualunque viaggio faticoso?

La scintilla, però, non era ancora scoccata.

Ogni incendio, prima di divampare, ha un’origine precisa: una pietra focaia che, inavvertitamente, lascia cadere un piccolo frammento incandescente su un mucchio di paglia. Una freccia dalla punta accuratamente infiammata, un colpo preciso che la dirige verso il suo bersaglio e ha cura di farle distruggere quanto deve essere bruciato. O un semplice invito, come nel caso di Finna Rivervale, la presenza di un ospite che bastò a far suonare un campanello d’allarme nella sua testa: non era di certo un caso se lord Errin e lady Anita erano venuti a visitare il castello proprio dopo l’annuncio di suo padre di volerla trasformare in una vera lady. E non era neppure un caso il fatto che la dolce lady Anita avesse chiesto espressamente di vederla, riempiendola di complimenti e chiedendole se non le sarebbe per caso piaciuto “prendere una boccata d’aria di montagna” e seguirli su al Picco delle Nuvole, neanche fosse una bambina di dieci anni che non si rendeva conto di ciò che succedeva attorno a sé. Tutto concorreva a rafforzare la sua decisione, come una serie di stille incendiarie che saltellavano attorno al pagliericcio della scelta, pronte a far scoppiare un incendio al minimo cenno… di nuovo, bastò una frase. Un semplice “nostro figlio sarà felice di conoscerti… ne avrete di tempo, prima delle nozze” perché il fuoco divampasse, distruggendo tutto.
Finna Rivervale non avrebbe mai pensato di poter diventare brava a fingere: era fondamentalmente una persona sincera, non le piaceva ricorrere alle bugie per ottenere ciò che voleva, né imporsi di provare emozioni che le erano estranee, ma in quel caso la sincerità andava messa da parte. Indossò l’espressione felice più convincente possibile, salutò il lord e la lady con la sua serie migliore di sorrisi di circostanza, ma una volta congedati gli ospiti e giunta l’ora di andare a letto fu il momento di attuare quello che considerava il suo piano, per quanto sconclusionato e folle potesse sembrarle. Ora non fingeva: era se stessa, completamente e drammaticamente se stessa, pronta a calarsi nella prima, vera avventura che avesse mai vissuto in vita sua. Dopotutto, i viaggi più epici iniziavano senza che i loro protagonisti se li aspettassero, no?

Non sentì il rimorso pungerle la bocca dello stomaco mentre raccoglieva in una sacca alcuni vestiti. Neppure quando sgattaiolò nelle cucine, pronta a radunare provviste – avanzi di cibo, qualche frutto, pane in grande quantità, l’acqua se la sarebbe procurata lungo la strada – provò nulla, se non un ronzio di fastidio causato dal sangue che le rimbombava nelle vene, rabbioso. Solo quando varcò la porta dell’armeria e posò la mano su una delle armature che mastro Hervald le aveva fatto usare per quei brevi allenamenti all’insaputa della madre, un piccolo tarlo iniziò a roderle il cuore, lasciando posto al dubbio… ma il ricordo dell’espressione decisa del padre e quello ancora più sgradevole del sorriso compiaciuto di lady Anita riuscirono ad eliminare qualunque resistenza. Afferrò con decisione la corazza d’acciaio brunito e la trascinò via con sé, buttando alla rinfusa nella bisaccia anche le gambiere, i bracciali e un grosso elmo malmesso che sembrava essere stato posato lì distrattamente, come se il buon Hervald lo avesse relegato a quell’angolo dell’armeria prima di gettarlo definitivamente altrove, forse in fonderia. Quella che ad un qualunque cavaliere ben addestrato della regione di Thervan sarebbe sembrato solo un ammasso di ferraglia ammaccata per Finna era una speranza, l’unica armatura sulla quale avrebbe mai potuto mettere le mani: avrebbe dovuto cancellare o modificare il simbolo della sua Casata perché nessuno lo riconoscesse, ma era pur sempre un punto di partenza. Un trampolino di lancio verso Naithara e il suo sfavillante torneo.
Caricò la bisaccia sulla sua giumenta e la sellò, guardandosi sempre attorno, spaventata dall’idea che sua madre o suo padre potessero apparire da un momento all’altro, allertati da un rumore sospetto o avvertiti dal loro sesto senso di genitori preoccupati, ma ebbe fortuna. Riuscì a convincere Andruil a restare tranquilla e a farsi condurre senza far rumore verso l’accesso posteriore al parco che circondava il castello, pieno di passaggi segreti tra il fogliame che Finna conosceva bene e che avrebbe potuto sfruttare a suo favore: aveva una notte intera per mettere più distanza possibile tra sé e la fortezza dei Rivervale, a meno che un ostacolo qualsiasi non l’avesse rallentata prima. In quel caso avrebbe dovuto solo…

“Vedo che ho fatto bene a seguirti dopo il banchetto, Finna Rivervale. Per fortuna ti conosco abbastanza da capire che, quando ti mordi il pollice, stai architettando qualcosa... il mio sesto senso mi ha suggerito di indagare, ed eccomi qui. Dove te ne vai di bello a quest’ora di notte?”

Una risata limpida la scosse come un terremoto, facendola sussultare: seduto su uno degli alberi che costeggiavano l’ingresso al parco, Gaerys la osservava divertito, come se aspettasse il suo arrivo e avesse deciso di attenderla lì per osservare la piega che gli eventi avrebbero preso. Non sembrava arrabbiato o agitato, notò Finna, ma aveva con sé una bisaccia simile alla sua e si era legato un pugnale alla spalla, ben trattenuto dalla custodia di pelle rosso scuro e da una cinghia robusta. Appena la vide scese dall’albero, avvicinandosi a lei con passo leggero.

“Lo sai benissimo dove sto andando. Il torneo è tra meno di un mese, per arrivare alla capitale di Naithara ci metterò almeno due settimane, a meno di non essere rallentata da qualche lord alfiere mandato da mio padre… devo sbrigarmi, Gae. Non intendo lasciare che siano loro a decidere della mia vita, sarò io a scegliere ciò che è meglio per me stessa, in un modo o nell’altro. Lasciami passare.”

Spinse Andruil davanti a sé, attenta a spostare man mano i rami che occludevano il passaggio, così tesa nel suo intento di raggiungere un punto sicuro da non accorgersi che un altro cavallo brucava placidamente l’erba del sottobosco, poco lontano da lei: il baio dell’amico, Brezza. Gaerys le ostruì la strada, piantandosi di fronte a Finna, gli occhi scuri resi brillanti dalla luna, un’espressione sul viso che non prometteva bene. Probabilmente le avrebbe fatto una lavata di capo per poi trascinarla dai suoi genitori, come minimo. La ragazza si preparò ad affrontarla per difendere le sue ragioni, ma il sorriso e le mani tese dell’amico la spiazzarono completamente.
Gaerys stringeva una spada, per metà ancora nel fodero di cuoio nero pesante. Una lama lunga e sottile, l’elsa decorata da piccole onde eleganti come merletti di Naithara, le stesse onde che ornavano il suo stemma di famiglia: una spada da Rivervale, probabilmente una di quelle che suo padre donava ai lord alfieri come pegno per ringraziarli dei loro servigi. Il giovane allungò le mani e la poggiò tra quelle di Finna, un sorriso completamente nuovo che gli modellava le labbra. Incoraggiamento.
“Un cavaliere ha bisogno di uno scudiero, non credi? E un elfo che desidera diventare un guerriero invece che un mago come tutti i membri della sua famiglia potrebbe fare al caso tuo, Lady Finna Rivervale delle Terre Antiche, cavaliere errante. Che ne diresti di ingaggiarmi?”

Il peso tra le dita era freddo, le piegava come una promessa e una minaccia fuse assieme, una decisione che aveva preso e dalla quale le sembrava impossibile ritrarsi. Dietro di lei non c’era nulla, davanti la strada era aperta, il vento della notte soffiava, la invogliava a infilare quella spada alla cintura e a balzare sul suo cavallo per allontanarsi e impugnare finalmente la penna che le consentisse di aggiungere nuove parole alla sua storia. Gaerys si era inginocchiato nella buffa imitazione di un giuramento di cavaliere e la osservava, le orecchie puntute tatuate dalla luna, piccoli arabeschi di luce e ombra che si spostavano assieme alle foglie mosse dal vento.
Come aveva potuto anche solo pensare di allontanarsi da sola?, rifletté, restituendogli lo sguardo. Se c’era una persona che poteva capirla davvero e condividere il suo destino di ribelle, quello era proprio Gaerys, l’elfo che voleva rompere una tradizione millenaria per essere semplicemente se stesso, non quello che la gente si aspettava che fosse: un altro mago da temere, da odiare. Nei suoi accessi di rabbia egoista non aveva pensato minimamente a lui, come se non fosse compreso in quel quadro perfettamente costruito… ma ora i pezzi iniziavano a ricomporsi, il piano assumeva un aspetto più completo, più complesso. Più giusto, forse.
Gli tese una mano, aiutandolo ad alzarsi. La luna brillava sul fogliame e sui loro mantelli, avvolgendoli di una luce brillante, misteriosa. Perfetta per benedire la loro avventura.
“Allora andiamo, scudiero. Il torneo di Naithara certo non aspetterà noi per iniziare!”
Il brivido che la accompagnò mentre si issava sulla schiena della giumenta era nuovo, mai provato prima: un misto di eccitazione, ansia e una fitta sottile di rimorso (quello non sarebbe andato via facilmente, se lo sentiva), stretti insieme con tanta forza da impedirle di distinguere nettamente quei sentimenti. Di certo, la Finna Rivervale che spronava Andruil attraverso il fogliame e si lasciava il castello alle spalle non era la stessa che aveva discusso con il padre solo pochi giorni prima. Aveva lasciato nella sua stanza quella bambina che giocava a fare la guerriera senza capire cosa significasse veramente prendere una decisione, assieme ad un bigliettino vergato con la sua calligrafia piccola e netta, lettere sottili che si arrampicavano sulla pergamena, cantando al mondo il loro messaggio con chiarezza.
Vi voglio bene. Sto solo cercando la mia strada.
Finna.
Gli zoccoli di Andruil solcavano il terreno, lanciando sassolini e piccole zolle di terra dietro di loro. L’aria profumava di resina, di muschio umido, di quell’odore di vento sospeso tra il freddo e un lieve tepore che caratterizzava ogni primavera e che, anche quell’anno, era tornato… ma, su tutti, dominava l’odore dell’acciaio. Un’armatura che le premeva sulla schiena, ben nascosta nella sua bisaccia. La promessa di qualcosa di nuovo, di diverso, che sarebbe nato proprio quella notte.
Finna sorrise, inspirando l’aria fredda nel buio. La sua vita di cavaliere era iniziata.
 

* * *
 
Qualche giorno dopo
In viaggio verso la capitale di Naithara, Valoria.
 

 
“Sei sicuro che ci voglia così poco per arrivare alla capitale? L’ultima volta che mio padre si è recato a Naithara ci ha messo almeno due settimane… ha attraversato il valico del Vorra e poi ha tagliato per le valli, ma è stato via parecchio. Com’è possibile che tuo padre ci abbia impiegato solo dieci giorni? Si è servito della magia, per caso?”

“Niente magia.” Un sorriso indulgente, solo appena beffardo, comparve sulle labbra di Gaerys. “Non è in grado di farsi spuntare le ali, anche se voi umani ci credete capaci di ogni genere di stregoneria… si è affidato alle Nixe. Loro conoscono il territorio meglio di tutti noi e l’hanno indirizzato su scorciatoie che nessuno conosceva. Ci basterà cercare un loro accampamento, se saremo così fortunati da trovarne uno intorno alla zona dei laghi, a ovest.”

Erano in marcia da quattro giorni e la regione di Thervan le sembrava più sconfinata che mai: una distesa enorme di colline brulle, pianure, campi arati e montagne all’orizzonte, dritte e fiere come antiche divinità, quella che i credenti chiamavano la Cintura di Alynora. Viaggiare, però, le piaceva. Non le era mai capitato di visitare quelle terre così lontane, né di fermarsi in villaggi che non aveva mai visto segnati sulle mappe, pieni di storie e di novità. Gaerys, poi, era un ottimo compagno di viaggio, sempre attento a non farle mancare nulla, pieno di racconti coi quali allietare le serate intorno al fuoco: per quanto non approvasse completamente quella fuga, aveva capito quanto fosse importante per Finna seguire i suoi desideri e la ragazza gliene era immensamente grata. La loro amicizia si nutriva di complicità, di cenni del capo, di risate che esplodevano all’improvviso e risuonavano forti nello spazio che li separava, tanto forti e sonore da far venire loro le lacrime agli occhi e il mal di pancia, di confidenze lasciate cadere e raccolte in silenzio, ma soprattutto di fiducia. Una fiducia immensa, la consapevolezza che, dovunque fosse andata Finna, Gaerys sarebbe stato lì ad affiancarla, con la sua sagacia e la furbizia necessarie a bilanciare l’impulsività vivace dell’amica. Si completavano, anche se in un modo tutto loro, poco comprensibile a chi li avesse solo osservati senza conoscerli bene. Due guerrieri allo sbaraglio.
Erano giunti in un piccolo bosco, dove li attendeva una brezza piacevole, delicata: refoli di vento che stormivano tra le fronde e facevano risuonare le campanelle selvatiche – piccoli fiori viola che Jona Rivervale adorava – come tanti strumenti musicali suonati da mani invisibili. Una melodia a cui si aggiungeva il suono dell’acqua che scorreva tra le rocce, un fruscio fresco che invitava a fermarsi per godersi un po’ di riposo. Le zone così verdi erano rare in pianura e un po’ di acqua fresca avrebbe fatto bene sia a loro che ai cavalli: la ragazza si fermò sulla riva e si sedette, slacciandosi i gambali e stirando le spalle dopo essersi sfilata i pesanti spallacci dell’armatura, mentre Gaerys legava entrambi i cavalli ad un ramo più basso e si assicurava che potessero raggiungere l’acqua per dissetarsi senza problemi. Una volta agganciate le briglie, si accomodò su una roccia a pelo d’acqua, sfilandosi uno degli stivali e lasciando che il piede nudo penzolasse sul ruscello, incurante della corrente fredda che i pochi raggi di sole primaverile ancora non riuscivano a scaldare.
Fu Finna a rompere il silenzio della natura, appoggiata alla sua bisaccia, l’armatura che brillava vicino all’acqua riflettendone il riverbero come uno specchio.

“Ci sono davvero delle Nixe libere qui intorno? Ero convinta che fossero state relegate tutte nei bassifondi di Argona, vicino alle paludi… o almeno è quello che ci raccontavano i Sacerdoti del Culto dei Quattro quando arrivavano nella capitale per predicare. In vita mia non ne ho mai vista nemmeno una… hanno davvero una coda di drago che nascondono sotto alla tunica e le branchie dietro alle orecchie?” chiese, curiosa come una bambina. Gaerys riprese a muovere l’acqua con le dita.

“Alcune di loro sono state più fortunate delle altre e si sono ritirate vicino ai laghi, qui nella regione di Thervan, dove i Sacerdoti dei Quattro non avrebbero potuto mettere le mani su di loro. Conosci quella vecchia storia… Astrea, la Dama del Gelo, la dea che pregano, le ha maledette tutte bandendole dai territori abitati dagli umani, e così si sono dovute spargere ovunque non venissero scacciate, soprattutto in queste zone. Non sono così diverse da noi… mio padre conosceva una capotribù, Marea, mi pare si chiamasse così, e mi ha raccontato che aveva un paio di grandi ali bianche dietro la schiena, piegate sotto all’abito perché non le dessero fastidio e non spaventassero gli eventuali visitatori del loro accampamento… però non mi ha mai parlato di branchie. Discendono dai draghi d’acqua delle Isole di Aelbourne ma col tempo hanno assunto un aspetto sempre più umano, a parte le ali e la pelle squamosa. Molte di loro hanno avuto figli con gli umani o gli elfi, degli ibridi che però somigliano alle madri… e sono solo donne.” Gaerys si voltò verso di lei, continuando a spiegare. “Vivono di pesca, ogni tanto vendono i manufatti che realizzano ai viaggiatori e si spostano lungo le zone più selvagge, toccando poco le città. Da un certo punto di vista le ho sempre invidiate… loro, almeno, hanno scelto di allontanarsi, di vivere libere, non come noi elfi. Non tentano di convivere a tutti i costi con gli umani, non impongono la loro presenza come facciamo noi, che restiamo pur sempre vostri ospiti. Ospiti indesiderati, ‘orecchie lunghe’ che praticano la magia e che non si sono mai integrati, nonostante gli anni trascorsi vicino a voi… le Nixe hanno molta più dignità, decisamente. Per quanto mio padre non lo volesse ammettere, nel profondo del cuore pensava che avessero ragione.”

Finna rimase in silenzio. Avrebbe voluto aggiungere altro, ma l’amarezza nelle parole di Gae le impediva di esprimersi, la imbarazzava. L’amico non aveva mai fatto parola a nessuno di quei sentimenti, eppure la ragazza sapeva che sia lui che suo padre soffrivano della situazione in cui versava il loro popolo, tenuto da parte, disprezzato dai più come se la magia che scorreva loro nelle vene non portasse altro che sventure. Solo che Yerand aveva accettato il loro status e continuava ad esercitare la sua professione di alchimista di corte con impegno, facendosi benvolere da lord Rivervale e da tutti i nobili del suo seguito, mentre Gae tentava disperatamente di cambiare quella situazione, aggrappandosi con le unghie e con i denti al ruolo che si era scelto, alla speranza di un destino diverso, magari più glorioso. Tanto che, spesso, riusciva a dimenticare di essere un elfo e di avere per amica una ragazza fortunata, umana e nobile in un mondo che sembrava favorire solo la loro razza, per quanto Finna e la sua famiglia fossero sempre stati cortesi e aperti nei loro confronti.
Se c’era una cosa che ogni bambino imparava ad Orva e negli stati che la componevano, era che ogni creatura doveva mantenere il posto che le spettava. I servi – umani o elfi che fossero – obbedivano agli ordini dei loro padroni, i nani commerciavano e restavano arroccati nelle loro dimore ai piedi delle montagne, le Nixe dominavano i fiumi e tramandavano la loro storia ai viaggiatori che avessero voluto ascoltarle, gli elfi praticavano la magia e gli umani dominavano su tutti, fieri, come se ogni terra fosse appartenuta loro di diritto, che l’avessero conquistata o meno. Ogni tanto, però, qualche membro delle caste inferiori decideva di alzare la voce, di cambiare le cose: l’equilibrio del mondo poteva restare immutato solo fino ad un certo periodo, poi la storia avrebbe avuto la meglio su quell’immobilità, come i libri insegnavano loro… ma due ragazzini in fuga potevano considerarsi agenti del cambiamento?
Chissà. Forse quel viaggio sarebbe stata una ragione in più per scoprirlo.
Finna si alzò e spostò la sua sacca più vicina alla roccia dove sedeva l’amico, accomodandosi accanto a lui. Le parole le nacquero spontanee, come se avessero atteso solo quel momento per venire fuori, il momento giusto per risollevargli il morale.

“Beh, guarda il lato positivo della cosa: se foste andati a vivere in un accampamento come le Nixe non ci saremmo mai incontrati e non avresti mai assistito alla trasformazione della tua migliore amica in un vero cavaliere errante… quale altro elfo può vantarsi di essere non un semplice scudiero, ma lo scudiero di una lady che si finge un cavaliere provetto? Diventerai parte delle leggende anche tu… dici che dovremmo trovarci un nuovo nome?” terminò, in tono talmente melodrammatico da far scoppiare a ridere Gaerys. Una risata vera, sonora, non uno di quei sorrisi finti che si era attaccato al viso per mascherare il disagio che lo pervadeva.
“Come la mettiamo coi capelli, Ser Finn? Forse dovresti accorciarli un po’, almeno per non farti identificare immediatamente come donna…”
“Assolutamente no!” esclamò la giovane, spostandosi alcune ciocche bionde dalla spalla con gesto teatrale. “I capelli restano così, non ho nessuna intenzione di rasarmeli. Al massimo posso legarmeli stretti e disegnarmi un po’ di barba con dell’argilla… l’elmo farà il resto. Parecchi uomini portano i capelli lunghi al giorno d’oggi, no?”
“Si, ma nessuno di loro è dotato di seno” sghignazzò Gaerys, affibbiandole un colpetto sulla testa per farla sbilanciare. “Dobbiamo pensare anche al tuo stemma di famiglia, nell’ipotesi che a tuo padre sia venuto in mente di farti cercare… e ad una presentazione adeguata. Ma c’è tempo, manca ancora un bel po’ al torneo e il viaggio è lungo. Intanto dobbiamo arrivare ai laghi e trovare le Nixe.”
Finna si era distesa di nuovo sull’erba, la mente che vagava senza posa, inquieta. Si concesse un attimo di dubbio per lasciar andare uno dei tarli che la rodevano da troppo tempo.
“Gae… non so se posso farcela. Sono partita armata delle migliori intenzioni, battagliera, decisa a mostrare chi potevo essere davvero, ma ora tutti gli ostacoli mi sembrano insormontabili… e se mi scoprissero? Se davvero mi imprigionassero o mi mettessero a morte per averli ingannati, come ha detto mio padre? Forse ha ragione lui, forse le armi e le armature non fanno davvero per me. Non so cosa fare. Non so davvero qual è il mio posto, a questo punto. E questo smarrimento mi consumerà, me lo sento.”
La mano dell’amico raggiunse la sua e la strinse, solidale.
“Ricordi quanto non approvassi la tua impulsività? Se fossi andata avanti nel tuo piano ad occhi chiusi, tutta tronfia, probabilmente sarei stato il primo a riportarti a casa, volente o nolente… ma fin da subito ho capito che avevi dei dubbi, che dietro alla tua decisione c’era di più di un semplice capriccio da bambina viziata. Ed è stata questa Finna matura, dubbiosa, a convincermi ad appoggiare la tua pazza idea di scappare. Qualunque cosa succeda, te la caverai, ragazza… ce la caveremo. Tu il braccio, io la mente, no? Come sempre.”
Lei restò per un attimo in silenzio, lo sguardo perso sulle fronde degli alberi che oscillavano, come seguendo una melodia che solo loro conoscevano.
Non avrebbe saputo bene con quali parole fargli arrivare la sua gratitudine, la gioia che provava all’idea di poter affrontare quell’avventura con Gae, ma l’amico l’avrebbe capita comunque, anche nel silenzio. Per quanto si considerasse una ragazza forte, quella corazza non era semplice da indossare e lucidare ogni giorno: le pesava sulle spalle, la faceva vacillare. Se Gaerys le restava accanto, anche solo con una parola di fiducia per lei, in qualche modo si sentiva migliore, più solida, più coraggiosa.
La notte arrivò anche per loro, distesi sotto una coperta di stelle e velluto blu, lontani dal castello e dalle sue comodità ma liberi, pieni di quell’ardore imprudente che le responsabilità ancora non erano riuscite a cancellare. Aspettavano il loro momento, come avevano imparato a fare bene in passato.
 

* * *
 

Nei pressi di Valoria, regno di Naithara
Giorni dopo.
 

Valoria, la gloriosa e magnifica capitale del Regno di Naithara, era solo a poche ore di cammino. Si erano lasciati alle spalle i campi ingialliti di Thervan, le sue colline verdeggianti di boschi freschi e ospitali, le vette innevate anche d’estate, ogni aspetto di quella natura selvatica ma tanto familiare a Finna da farla sentire un po’ sperduta in un territorio che non conosceva affatto. La capitale sorgeva su un bassopiano fertile e quelle che incontravano sul loro cammino erano cittadine vere e proprie, non piccoli villaggi formati solo da una decina di case e da un Tempio dedicato alle Due Sorelle come quelli della sua regione. Tutte novità che Finna si beveva con gli occhi, entusiasta, allegra come non lo era da tanto, troppo tempo.
Aveva imparato a sopportare il peso dell’armatura sulle spalle, a muoversi senza far rumore anche mentre cavalcava, ad estrarre la spada in un’unica mossa fluida da seduta, come ci si aspettava da un vero cavaliere. Le lezioni di combattimento che aveva ricevuto e la sua abilità nel cavalcare non erano sufficienti a garantirle la vittoria nel torneo, di quello era praticamente certa, ma sarebbero bastate almeno a non farla sfigurare di fronte agli altri nobili per qualche turno. In fondo, il suo unico desiderio era quello di viaggiare e di scoprire dove si sarebbe spinta la sua volontà… qualunque sorpresa le avesse portato la sorte, l’avrebbe accettata. Sperando che gli déi, o chi per loro, la sostenessero in qualche modo.
Tutta Naithara sembrava in fermento. Non c’era villaggio o strada in cui non passassero signorotti ben vestiti, elfi carichi di mercanzia, addirittura qualche nano che sembrava essere sceso dai monti della cintura di Alynora per commerciare e approfittare dell’onda umana che si riversava lungo le strade, sciamando verso Valoria e il Palazzo Reale. La principessa Nari era una ragazza sulla quale innumerevoli cantori avevano scritto ballate, ma il re suo padre sembrava non volerla mostrare troppo al pubblico: durante le sue rare visite in città era sempre rimasta chiusa all’interno della sua carrozza, protetta da una cortina di seta che la nascondeva alla vista del popolo, mentre in occasione degli eventi ufficiali a corte era sempre protetta da una maschera d’argento finemente decorata e intarsiata, che le copriva la parte superiore del viso e accresceva l’aura di mistero che aleggiava attorno a lei. Anche sulla presenza di quella maschera si raccontavano voci e storie di ogni genere; alla fine nessuno sapeva dire esattamente perché la portasse, né cosa spingesse il re a tenersi stretta la figlia, tanto da non lasciarla nemmeno uscire dal palazzo per passeggiare nel giardino assieme ai cortigiani. Forse anche per quello il torneo richiamava tanta gente: non solo il premio finale consisteva in una grossa somma di denaro, uno splendido purosangue e fama e gloria assicurate, ma il fortunato vincitore avrebbe ottenuto la mano della principessa Nari di Naithara, la donzella misteriosa, diventando il primo ad avere il permesso di svelare ciò che si nascondeva dietro alla sua maschera. L’idea di poter incontrare cavalieri talmente scarsi (o di essere benedetta da una fortuna sfacciata) da garantirle quel premio faceva ridacchiare Finna tra sé e sé: come avrebbe reagito re Arion, una volta che il vincitore del torneo si fosse rivelata una vincitrice?
Ma non era il caso di pensarci. Gaerys voleva che si concentrasse sulla sua presentazione, e lei aveva deciso di ascoltare quei consigli. Il giovane elfo fingeva disinteresse, ma in realtà era eccitato quanto e più di lei all’idea di partecipare ad un evento del genere in qualità di scudiero, di fronte a frotte di nobili che, normalmente, non avrebbero aspettato un attimo prima di chiamarlo “orecchie lunghe” e trattarlo col disprezzo che riservavano ai suoi simili. Avevano calcolato con attenzione la distanza che li separava dalla capitale e utilizzato quei giorni prima del torneo per sistemare ogni dettaglio che riguardasse la gara, dalle abilità che sarebbero state più utili a Finna – parare con lo scudo, cavalcare stringendo un ramo per simulare la lancia da torneo – alla creazione dell’identità che avrebbe assunto una volta iscritta alle giostre, quella di Ser Finn delle Acquechiare, giovane cavaliere errante proveniente dai boschi di Thervan, non di nobile lignaggio ma allievo di un anziano signore che lo aveva preso a benvolere e nominato suo erede. Non avevano neppure dovuto cancellare lo stemma dalla spada di famiglia: il loro incontro con le Nixe aveva risolto anche quel problema, oltre a risollevare lo spirito di entrambi come neppure una pozione rinvigorente preparata dagli alchimisti avrebbe fatto.
Già, le Nixe. Le avevano lasciate solo pochi giorni prima, ma quell’incontro le si era impresso nel cuore, come un sogno ad occhi aperti nebuloso, con qualche vago contorno di realtà.

La zona dei laghi in cui vivevano le donne drago appariva inquietante, irreale: una distesa di pozze d’acqua grigio perla circondate da nebbia lattiginosa, giunchi e altre piante di lago che le punteggiavano come figure spettrali, mentre gli uccelli volavano alti e le evitavano, forse spaventati anche loro da quell’atmosfera lugubre. Finna si era stretta il mantello sulle spalle, avvicinando a sé l’elsa della spada, nervosa. Le Nixe si erano davvero ritirate a vivere lì, in una palude che teneva lontano qualunque visitatore? Non si aspettava un paesaggio del genere e, a dirla tutta, quella vista non l’aveva rassicurata. Ma Gaerys sembrava sicuro delle sue conoscenze, per cui non aveva fatto domande. 
Avevano trascorso la notte al riparo di uno degli scarsi alberi che circondavano la zona paludosa, abbastanza lontani dall’acqua da non rischiare di finirci dentro inavvertitamente ma non tanto lontani da perdere l’orientamento… e la mattina dopo, una volta che il sole era sorto e aveva iniziato la sua passeggiata d’onore nel cielo assieme alle nuvole, avevano assistito ad una metamorfosi straordinaria: la palude brillava di una luce dorata, sfavillante, che tingeva le pozze d’oro zecchino e faceva sparire la nebbia in fili sottili, come se la riponesse in attesa di utilizzarla in un altro momento. I giunchi parevano guardie fiere che osservavano l’orizzonte indossando livree marroni e verdi e, in lontananza, dove lo sguardo dei giovani non era riuscito a spingersi il giorno prima, vedevano una serie di piccole isole, fisse nell’acqua, lontanissime all’apparenza ma collegate le une alle altre tramite piccoli ponticelli di legno. Su ognuna delle isole sorgeva una tenda di tessuto blu scuro, le estremità che fluttuavano appena nell’aria tersa come a voler dare loro il benvenuto in quelle terre sperdute. Erano le dimore delle Nixe, le donne drago di Orva, ultime sopravvissute di una razza sconosciuta, creature quasi leggendarie che in pochi avevano incontrato. Gaerys aveva sorriso nella loro direzione, raggiante, e aveva teso una mano all’amica per aiutarla a raggiungerle insieme a lui. 
Una volta toccata la più grande tra le isolette, l’amico si era inchinato di fronte alla tenda, un ginocchio a terra e la testa abbassata in segno di rispetto, imitato immediatamente da Finna. Davanti a loro, stagliata in piedi e vestita di una tunica dello stesso colore della nebbia opalescente del giorno prima, c’era una bellissima donna dai lunghi capelli argentei, il viso altrettanto chiaro e ricoperto da piccolissime squame iridescenti che catturavano la luce del sole, restituendola arricchita di una sfumatura rosata. La creatura aveva posato una mano sul petto e una alzata all’altezza del viso, un segno di saluto per i visitatori che toccavano la loro terra dopo tanto tempo, ma non aveva detto nulla; era stato Gaerys a parlare, rivolgendo loro un saluto misto tra la lingua comune e una che non aveva mai sentito.

“Veniamo in pace, figlie dei draghi, signore delle paludi: siamo un elfo e una giovane umana che si affidano alla vostra saggezza per proseguire il loro viaggio. Ho l’onore di parlare con Marea, la capoclan di questa zona?”
A Finna sembrò veder balenare un sorriso sulle labbra della creatura, per quanto fosse appena accennato. “Marea era mia madre, giovane elfo. Io sono Shyrea, sua figlia e nuova capoclan, e sarò lieta di ascoltare le vostre richieste, data la gentilezza che ci mostrate. Cosa possiamo fare per voi?”

Li avevano accolti nella tenda della capoclan e Gaerys aveva parlato del loro itinerario, chiedendo aiuto per raggiungere la regione di Naithara sfruttando i passaggi tra le paludi e i boschi di Thervan, attraversando la regione dei laghi senza incappare in pericoli di varia natura. Finna fu lieta di constatare che, al contrario di come le leggende le dipingevano, le Nixe sembravano bendisposte nei loro confronti: forse perché non si erano presentati lì con l’arroganza violenta di chi desidera solo conquistare e piegare popoli al proprio volere, forse avevano letto le buone intenzioni nei loro occhi, fatto stava che li avevano aiutati di buon grado e avevano affidato loro delle informazioni vitali per muoversi nel territorio, le stesse che, anni prima, doveva aver ottenuto anche Yervan in uno dei suoi viaggi. 
Gaerys aveva offerto loro alcune delle sue provviste per sdebitarsi, ed era stato in quel momento – mentre l’amico le porgeva alcuni frutti e una fila di pesci pescati e seccati qualche giorno prima perché li deponesse ai piedi delle donne – che una delle Nixe aveva posato una mano sul polso di Finna, alzando lo sguardo sul suo viso e posando nei suoi un paio di occhi rossastri, caldi e intensi come tizzoni. 

“Tu…  sei una Rivervale delle Terre Antiche. Sei di sangue nobile, ma stai scappando da te stessa e dal tuo destino per trovarne uno migliore… hai un cuore puro sotto alla corazza che porti addosso, lo leggo nei tuoi occhi. Attenta solo che né le lusinghe del potere né gli intrighi del palazzo te lo portino via, bambina… Naithara è una terra di orrori e meraviglie, come ti accorgerai. Anche se a volte ti sei sentita smarrita, la tua famiglia non ti ha abbandonato, te ne accorgerai presto.”

La ragazza non aveva saputo bene come rispondere. Come accidenti faceva quella donna a sapere tutto di lei, se non si erano mai viste prima di quel momento? Aveva deglutito, fissandola negli occhi rossi per quella che le era sembrata un’eternità, fino a che la sua interlocutrice non si era voltata verso Gaerys, sfiorando anche la sua mano, gentile ma sempre criptica, come se stesse annunciando delle profezie rivolte solo a loro.

“Mantieni gli occhi aperti anche tu, Gaerys figlio di Yerand, erede degli Ivlisar. Nelle tue vene sento scorrere una magia potente, antica quanto noi figlie del drago… puoi seguire la via delle armi come ha fatto la tua amica, ma non voltare mai completamente le spalle al tuo sangue, potrebbe salvarti la vita. Vedo l’ombra di Phedra nelle tue azioni, sul tuo viso, anche nel modo in cui ti poni nei confronti delle altre creature… non dimenticare l’eredità di una strega delle lande. E tenete questi paramenti, vi saranno utili durante il vostro viaggio.”

La profetessa aveva porto al giovane una serie di piccoli pezzi di stoffa piegati: delle decorazioni per la guardia delle spade, finimenti per i cavalli, quelle che sembravano due sciarpe, tutte intessute dalle donne drago con quelli che a prima vista si erano rivelati filamenti di una qualche strada pianta di palude mista ad un tessuto più morbido, forse il vello di un animale. Per un attimo le era sembrato di intravedere un guizzo di disagio sul volto di Gae, anche se era difficile esserne certi nella penombra che riempiva la tenda, ma era durato un attimo: avevano ringraziato le Nixe inchinandosi e salutandole, gli occhi della profetessa ancora fissi su entrambi, come se volesse comunicare loro qualcosa che non capivano, o che ancora non avrebbero potuto decifrare. Erano tornati dai cavalli oltre le piccole isole, li avevano slegati ed erano saliti in sella, lasciandosi le paludi e gli ultimi territori di Thervan alle spalle, pronti ad attraversare il confine e ritrovarsi a Naithara, la capitale che li attendeva. Le domande non smettevano di vorticare per la mente di Finna, ma aveva deciso di lasciarle libere di correre, di perdersi con il vento che li accompagnava e si infilava nei loro capelli: ci sarebbe stato tempo per discutere di ciò che avevano scoperto. Eppure, la sensazione che la profetessa delle donne drago sapesse qualcosa a loro ignoto continuava a punzecchiarle l’animo, lasciandola perplessa.
 

* * *
 
“Sei il figlio di una strega delle lande, allora. Perché non me lo avevi mai detto?”
Sulle prime Finna si era sentita tradita da quella dichiarazione inaspettata, ma la delusione di averlo scoperto da altri che non fossero il suo amico era svanita presto. La curiosità, però, continuava a perseguitarla: perché Gaerys avrebbe dovuto nasconderle un’informazione del genere?
“Perché non ne ero certo nemmeno io” sospirò lui, continuando a pulirle l’elmo come avrebbe fatto un vero scudiero. Si erano stabiliti in una locanda a meno di un’ora da Valoria e stavano mettendo a punto gli ultimi dettagli in vista della presentazione al torneo, che sarebbe avvenuta pochi giorni dopo: le indicazioni delle Nixe li avevano davvero aiutati ad accorciare i tempi del viaggio. “Mio padre non mi ha mai detto nulla di lei, se non che era una donna forte e si erano incontrati durante uno dei suoi viaggi in giro per Orva, quando si era perso in una delle lande intorno al valico del Vorra, non so bene dove. Non possiedo altre informazioni, a parte il fatto che praticava la magia e viveva in quelle terre con la sua famiglia, prima di morire durante un disastro naturale… sono state le Nixe a dirmi il suo nome, non sapevo nemmeno che si chiamasse Phedra. A quanto pare, era veramente una strega. Ma questo non fa di me un mago provetto, sarebbe troppo semplice, temo.”
“Però ti rende speciale, in qualche modo. Sei un mezz’elfo… e la magia che ti scorre nel sangue deve essere davvero potente, se anche quella profetessa se n’è accorta. Non pensi che sarebbe utile seguire il loro consiglio? Non so… tentare comunque di apprendere qualcosa da tuo padre? Magari solo per non perdere questo dono…” tentò Finna, ma l’amico scosse la testa.
“Io e mio padre non andiamo tanto d’accordo per quanto riguarda la mia istruzione magica, lo sai bene. Ho trascorso la mia adolescenza a lottare contro me stesso e la mia eredità per tracciare una nuova strada… non so, mi sembrerebbe di tradire quanto ho fatto finora. Non so nemmeno io cosa fare della mia vita, Finna… non sei la sola a volerti ritrovare. È un buono spunto per continuare il nostro viaggio, no?” le sorrise. “Ma posso prometterti che ci penserò. Mia madre… non sapere nulla di lei mi affascinava e intristiva, ma non ci ho mai fatto caso più di tanto: le streghe non sono benviste a Thervan, proprio come gli elfi, e di certo non sono note per essere delle madri amorevoli. Il problema è che mio padre non ha mai voluto parlarmene, per quanto desiderasse comunque che io abbracciassi la magia… forse per quello ho deciso di ribellarmi con tanta caparbietà ai piani che aveva per me e ho abbracciato l’arte della spada senza nemmeno rifletterci su” concluse, terminando con l’elmo e iniziando a pulire la spada.
“Siamo partiti convinti di vivere un’avventura spensierata, di scappare dai nostri destini… ed ecco che ci raggiungono lo stesso, in qualche modo. Magari vogliono metterci alla prova” sospirò Finna, rigirandosi tra le dita un anello che indossava sempre al mignolo destro, un dono da parte di sua madre. Jona la stava pensando? Era arrabbiata con lei per quella fuga, le voleva ancora almeno un po’ di bene?
“Chi può dirlo?” annuì il giovane elfo, sistemandosi una ciocca di capelli dietro ad una delle orecchie allungate. La taverna era silenziosa: gli altri avventori probabilmente erano fuori, a godersi la folla che sciamava per le strade, la confusione colorata del mercato cittadino. “Quel che è certo è che non siamo gli stessi che sono partiti, Ser Finn delle Acquechiare. E chissà cos’altro diventeremo, prima della fine di questo torneo.”
Finna si specchiò nel pettorale dell’armatura, posato sul tavolo accanto a lei: un ragazzetto dai capelli corti, schiacciati sulla testa e trattenuti da due treccine sottili le restituì lo sguardo aggiungendovi un pizzico di furbizia, la barba appena accennata sulla mascella dalla linea morbida, quasi troppo graziosa per appartenere ad un ragazzo.
 

* * *
 
 
Valoria, capitale della regione di Thervan
Inizio del torneo in onore della principessa Nari

 
 
“Avete detto di chiamarvi… Ser Finn delle Acquechiare, giusto? Qual è il vostro status?”
“Cavaliere errante, sono un indipendente della regione di Thervan.” Finna si calcò il cappuccio sulla testa nervosamente, ostentando una sicurezza che non sentiva e cercando di camuffare la voce per renderla più maschile. “Partecipo assieme al mio scudiero, e questa è la mia quota.” Posò sul tavolo un paio di monete d’oro, aspettando che l’uomo al banco delle iscrizioni le pesasse per valutare se erano autentiche e segnasse il suo nominativo sul grosso libro foderato in pelle che teneva aperto davanti a sé. Pregò con tutta se stessa che quell’individuo dall’aria inflessibile non iniziasse a farle domande più precise, chiedendole chi fosse il suo lord protettore e quali signori avesse servito prima e dopo di lui, ma la fila di cavalieri in attesa sembrava scoraggiare qualsiasi analisi più approfondita dei vari partecipanti. L’uomo le rivolse un saluto di congedo e passò al cavaliere successivo, lasciando alla ragazza il tempo necessario a ritirarsi discretamente, ma con una certa urgenza.
Se Finna Rivervale fosse stata più attenta si sarebbe accorta che, nella fila di nobiluomini che la seguivano, spiccava un viso conosciuto, quello di un giovane dai capelli biondo rossiccio, con la barba ben curata e gli occhi azzurro cupo tipici dei Rivervale, scuri come le profondità di un lago di montagna ma screziati di chiaro, scie di spuma che li rendevano più limpidi. Suo padre Asbjorn era passato dalla rabbia per la fuga improvvisa della figlia minore alla preoccupazione, ma non avrebbe mai potuto abbandonare le Terre Antiche: ragion per cui aveva inviato il figlio maggiore, Fergus, a seguirla. E Fergus conosceva troppo bene sua sorella, così bene da capire sia la sua destinazione che l’approccio da adottare per evitare che la situazione degenerasse in una fuga ulteriore. I suoi studi e la buona conoscenza della geografia di Thervan e Naithara, poi, avevano fatto il resto nel portarlo fin lì in pochi giorni, così da osservare ciò che lo circondava e le mosse della sorella, lontana solo pochi metri eppure completamente ignara della sua presenza.
In qualche modo, ammirava Finna e il suo coraggio: erano fratelli, ma non avrebbero potuto possedere caratteri più diversi, come il sole e la luna. Suo padre aveva ordinato chiaramente di riportarla a casa, eppure Fergus aveva intenzione di darle una possibilità; per quello aveva deciso di non interferire, limitandosi a indossare abiti poco appariscenti e a osservare il viavai del torneo da fuori, aspettando l’istante in cui sua sorella si sarebbe presentata… e, a giudicare dal modo in cui si era camuffata, sembrava aver architettato bene il suo piano. Peccato che, per un orecchio allenato alla sua voce, la esse leggermente strascicata dall’accento di Thervan risultasse inconfondibile.
Fergus la osservò allontanarsi con un sorriso. La curiosità aveva decisamente la meglio su qualunque sentimento di preoccupazione, ora che aveva constatato che sua sorella era sana e salva.
 

* * *


Nel corso degli anni, Finna aveva imparato ad associare molti suoni alla paura. Lo sbattere ritmico dei denti, le gambe che tremavano e tendevano i muscoli come le corde di un liuto, le voci attorno a lei che si attutivano e piegavano, inghiottite da un silenzio violento, opprimente: erano costanti che avevano accompagnato quei rari momenti in cui aveva temuto di perdere il controllo di se stessa. Durante il torneo, però, aveva trovato un solo suono da associare alla paura, il più semplice e il primo a passare inosservato, nonostante si fosse già presentato in ogni altra occasione: il pulsare del sangue nelle vene, un rombo cupo quanto quello di un corno da battaglia che risaliva fino al cervello e lo annebbiava, intorpidendo le membra e cancellando qualsiasi pensiero coerente. Il rombo che l’aveva accompagnata il giorno della prima giostra, quando aveva cavalcato contro un giovane lord con lo stemma del grifone sullo scudo e lo aveva sconfitto senza troppi problemi, trovando immediatamente un punto scoperto nella sua armatura e facendovi leva per colpirlo con un’unica mossa precisa. Era riuscita a tenere a freno la sua paura quel tanto che era bastato a cavarsela, ma la giostra successiva l’aveva messa di fronte ad un cavaliere esperto e sicuramente più anziano di lei, un nobile di Naithara dall’armatura riccamente dipinta che aveva impiegato un attimo a spaventare Andruil e a disarcionarla, facendola cadere nel fango. Per quanto Finna non fosse un vero cavaliere e le sue abilità si riducessero a quelle acquisite durante gli scarsi allenamenti dei giorni precedenti, quella sconfitta l’aveva davvero spaventata: l’idea di essere smascherata pubblicamente e messa alla gogna per l’affronto si insinuava con forza nei suoi pensieri e ogni tanto la spaventava, manifestandosi in incubi e improvvise mancanze di respiro… ma, come le ripeteva sempre Gaerys, ormai era in ballo: avrebbe dovuto ballare, cercando di condurre quella situazione dove avrebbe voluto per trarne il meglio. Che senso avrebbe avuto ritirarsi in quel momento?
La sorte, però, sembrava mettercela tutta per far vacillare la sua determinazione. Come quando Gaerys era tornato alla locanda dove alloggiavano trafelato, portandole l’annuncio del ballo che si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni per festeggiare la fine del primo turno delle giostre, ballo al quale erano invitati tutti i cavalieri partecipanti al torneo che erano riusciti a superarne la prima parte.
“Ballo? Un ballo per festeggiare un torneo? Ma… no, non è possibile. I-io non so ballare! Non posso partecipare! Non ci andrò. Nossignore.”
Con sua grande irritazione, Gaerys era scoppiato a ridere, osservando il viso dell’amica passare dal solito colorito pallido ad un rosso acceso. “Non sai ballare? Hai cavalcato contro una decina di sfidanti, ne hai sconfitti cinque, sei finita nel fango altrettante volte e ora ti preoccupi per una festa da ballo? Siano benedetti gli Déi, Finna, se non sei assurda! Si tratta solo di… beh, di essere carina con gli ospiti e di fingerti un giovane cavaliere errante interessato alle meraviglie di Naithara e desideroso di approfondire la propria conoscenza dell’alta società. Non ti servirà nessun allenamento… dovrai soltanto improvvisare. E io cercherò di non lasciarti da sola, anche se temo che gli scudieri non siano benaccetti alla festa, soprattutto se elfi. Pazienza, vorrà dire che troverò un modo alternativo per partecipare” concluse, posandole una mano sulla testa per arruffarle i capelli biondi che avevano deciso di accorciare per rendere più credibile il travestimento. L’amica, però, non gli sembrava ancora convinta.
“Non so ballare. Mi farò scoprire subito” mugugnò, offesa dalla mancanza di tatto dell’amico. Lui tentò di risollevarla, prendendole il viso tra le mani e fissandola negli occhi. “Sei un cavaliere. Hai lottato per arrivare fin qui. Lascerai davvero che una sciocchezza come un ballo ti rallenti?”
La ragazza lo fissò, soffermandosi sugli occhi scuri di Gaerys, chiedendosi da dove nascesse tutta quella saggezza stoica, quella determinazione da persona che aveva affrontato tante difficoltà uscendone sempre con una lezione da apprendere. Forse era un retaggio della sua origine, forse gli elfi avevano nel sangue quella capacità di adattarsi ad ogni situazione traendone sempre qualcosa di positivo… fatto stava che Gaerys non sbagliava, non avrebbe avuto senso vanificare un viaggio come quello per un unico ostacolo che le si poneva davanti. Soprattutto se l’ostacolo in questione riguardava un ballo. In fondo era pur sempre un cavaliere errante, non potevano aspettarsi che fosse una maestra nelle danze… giusto?
Decise di sospendere il giudizio. A volte, i pensieri erano solo un fardello inutile di cui liberarsi.
Quando, il giorno dopo, il banditore aveva annunciato il suo nome prima dell’incontro conclusivo del primo turno, la sua mente era diventata un tutt’uno con la lancia e la spada. Non contavano nulla suo padre, il suo passato, il destino che la aspettava, il ballo, gli altri sfidanti, le possibilità di venire scoperta e di disonorare la sua famiglia, il peso dell’armatura sulle spalle, quello della spada in pugno… erano solo pensieri confusi, si mescolavano al solito rombo che le faceva vibrare la cassa toracica e fremere i timpani, fino a sciogliersi nella foga del combattimento, diventando nient’altro che una serie di bagliori confusi e informi, immagini che si inseguivano in un caleidoscopio di grida e colori. Colpiva, parava, lanciava fendenti e girava, come in una danza frenetica e imprecisa, fino a che la sua asta non fece volare via l’elmo di un giovane della Casa Harring, l’elaborata decorazione a scaglie di pesce che brillava nel sole di quella primavera gelida e cadeva a terra con dolcezza, quasi fosse senza peso, una stella precipitata dal firmamento.

 
* * *
 
Palazzo di Re Arion
Ballo in onore dei partecipanti al torneo
 



Gaerys era stato di parola, dopotutto: era riuscito a seguire Finna anche all’interno del palazzo, nonostante gli scudieri fossero stati esclusi completamente dai festeggiamenti e relegati nei giardini del palazzo, dove li attendeva una festa riservata a loro. A quanto sembrava, gli organizzatori del ballo avevano un bisogno impellente di radunare quanti più aiutanti e domestici possibili perché il banchetto e l’accoglienza degli ospiti riuscissero alla perfezione, bisogno che li portava ad accettare qualunque volontario si facesse avanti per dare una mano: gli era bastato fingersi un ragazzo in cerca di un lavoro e interessato a qualche moneta per farsi assumere come sguattero, così da poter girare liberamente per le enormi sale del palazzo reale e osservare Finna da vicino, pronto ad aiutarla qualora avesse avuto bisogno di lui.
Il travestimento sembrava funzionare a meraviglia: un giro al mercato cittadino aveva permesso loro di trovare un mercante che vendeva abiti di seconda mano, ma solo l’abilità di Gaerys nel contrattare aveva convinto l’uomo a cedere loro un completo giacca e pantalone ad un prezzo tutto sommato vantaggioso per le tasche di entrambi. L’abito – alla moda dell’anno passato, anche se la fattura era eccezionale, non troppo sfarzosa me nemmeno misera – le stava bene, le permetteva di muoversi comodamente e di nascondere le forme: con un po’ di fortuna, nessuno dei nobili lì presenti avrebbe riconosciuto una giovane ragazza nel cavaliere dal viso gentile che stazionava nervosamente poco lontano dal tavolo del banchetto, scambiando qualche parola col servo che le riempiva il calice di vino o di idromele. Quel pomeriggio, alla locanda, si era fatta aiutare dall’amico a disegnarsi la barba con l’argilla e a prepararsi per la festa, raccogliendo le sue raccomandazioni di sorridere sempre e comportarsi gentilmente con tutti gli ospiti, senza rivelare mai il suo lato più burrascoso… e quel consiglio l’aveva aiutata, in effetti, specie quando si erano aperte le danze e una giovane nobildonna vestita di azzurro si era inchinata davanti a lei, chiedendole di ballare. La donna aveva riso con indulgenza all’imbarazzo del giovane cavaliere, piuttosto impacciato nelle danze, ma gli aveva rivolto dei grandi sorrisi e sembrava essere deliziata all’idea di aver ballato con un eroe errante, senza vessilli né casate da servire, tanto da non fare altre domande. Dopo di lei era stata invitata da un’altra nobildonna – più anziana questa volta – e da una giovane serva elfa che, arrossendo come una ragazzina, aveva chiesto il permesso di una rapida danza proibita prima di tornare nelle cucine.
Il palazzo era un autentico capolavoro di architettura, con i suoi saloni di marmo, i tendaggi preziosi e i grandi tavoli da banchetto in legno di Argona, coperti da tovaglie finemente ricamate e di pietanze di ogni genere, così tante che avrebbero potuto sfamare un regno intero per un mese. Ovunque si vedevano cavalieri in armatura scintillante, dame vestite di tessuti sfarzosi, camerieri coi vassoi affollati di calici, musicanti e bardi in abito da festa, serve indaffarate, soldati in alta uniforme… ricchezza e ostentazione da ogni parte, un’opulenza così violenta da frastornare Finna. Quando si faceva “festa” nel Thervan si mangiava, si beveva, qualche bardo allietava il banchetto, suo padre invitava degli ospiti benvestiti, si… ma non così tanti, era tutto più contenuto e sobrio, niente le sembrava così sfarzoso, sfacciatamente ricco. Quel benessere la faceva sentire estranea, una stracciona ridipinta che giocava a fare il maschio vestita di un abito che non le apparteneva, aspettando l’ultimo atto di un torneo che avrebbe deciso la sua sorte. E se lo avesse vinto?
Gli sguardi di tutti sembravano essere rivolti in una sola direzione: l’enorme scalinata di marmo perlaceo che si stagliava alle spalle della sala da ballo, maestosa e illuminata dal grande lampadario di cristallo di fattura squisita, da dove avrebbe fatto il suo ingresso la principessa Nari con il suo seguito di dame e nobildonne di alto rango. Come volevasi dimostrare, poco dopo l’ultima danza di Finna la musica si fermò e il banditore suonò la tromba, introducendo con voce stentorea l’arrivo al ballo della bellissima fanciulla, che anche quella sera indossava una maschera d’argento, cesellata e smaltata in tono con la magnificenza dell’abito da cerimonia. Per quanto avesse deciso di non dare nell’occhio, Finna non riuscì a trattenersi dal sollevare lo sguardo e posarlo dove si era già diretto quello di tutti i presenti, in attesa. Guardare da un’altra parte l’avrebbe aiutata a non pensare ad altro.
La principessa Nari scese la scala con lentezza, come se camminasse nell’acqua, avvolta in un bellissimo vestito di seta e merletti di Naithara nel colori dell’alba, così delicato da sembrare dipinto, irreale. La accompagnavano due ragazze con acconciature che riprendevano la sua e altre re nobildonne le facevano ala scendendo alle sue spalle, ma nessuna di loro indossava una maschera: quella protezione in argento cesellato impediva di cogliere l’espressione degli occhi della ragazza, per quanto Finna potesse sforzarsi di osservarla da lontano, protetta da una delle tende di velluto rosso cupo che schermavano le porte – finestre che davano sul terrazzo della sala da ballo. Sembrava quasi una bambola vivente, immobile e perfetta, una creatura meccanica che veniva spinta giù per le scale da un qualche meccanismo al suo interno, una rotella che le dava vita permettendole di muoversi e offrendo al pubblico la parvenza di una creatura in carne ed ossa, così ben inserita in quella cornice di marmi, sete, velluti e cristallo da rendere ogni altro cortigiano rozzo, impresentabile. Che fosse quella l’intenzione del re suo padre, organizzatore della festa?
L’apparizione della principessa, però, fu momentanea: un attimo dopo essere scesa dalla scala di marmo fu immediatamente inghiottita da una folla di dignitari e nobili in attesa di porgerle i loro omaggi, lasciando a Finna il tempo di sgattaiolare in un altro angolo e dedicarsi al banchetto dove non rischiava di essere vista da eventuali nobili di Thervan accorsi al torneo. Le sembrava addirittura di aver intravisto suo fratello Fergus nella folla che danzava poco prima, ma era stata una visione talmente rapida e fugace da lasciarle addosso l’idea di aver avuto le traveggole.
Al ritorno di Gaerys, stava bevendo vino fingendo una disinvoltura assoluta che non provava. Sulle prime non lo aveva riconosciuto: l’uniforme dei valletti e il cappello schiacciato lo rendevano uguale a tutti gli altri servi, ma il sogghigno divertito dell’amico la fece sobbalzare all’istante.
“Come va, piccolo lord? Ti stai divertendo?”
“Non puoi capire quanto. Cerco di non farmi riconoscere, ballo con giovani dame che mi fanno gli occhi dolci convinte che io sia un uomo, ho delle allucinazioni che riguardano mio fratello e bevo per dimenticare l’imbarazzo di non saper ballare: meglio di così non si può. E tu, piuttosto? La vita del domestico tuttofare ti soddisfa?”
“Naah, meglio essere figli dell’alchimista di un lord stimato e aiutare la figlia nelle sue avventure in giro per il modo, è meno noioso” sorrise, servendole altro vino e sistemando sul vassoio che trasportava le pietanze lasciate a metà dagli ospiti per riportarle in cucina. “A parte gli scherzi, le cose sembrano andare meglio del previsto o sbaglio? Temevo che qualcuno avrebbe sospettato nel vedermi girare sempre intorno a questa parte di sala, ma pare che tutti i nobili siano troppo impegnati a ballare e divertirsi… forse la fortuna è davvero dalla nostra parte. Quale divinità dobbiamo ringraziare per questo? Alynora, o forse sua sorella Deinna, che dimora nell’oscurità della notte?”
Finna stava per rispondergli qualcosa – forse una precisazione riguardo alle due dee, frutto dei mesi di studio folkloristico e religioso influenzato da sua madre – ma un movimento trafelato la fece voltare di scatto: la piccola elfa con cui aveva danzato poco prima era ritornata, l’affanno della corsa e il rossore imbarazzato alla vista di Finna che le imporporavano il viso. La ragazza temette che fosse lì per chiederle un altro ballo e preparò una scusa qualsiasi per rifiutare, ma le intenzioni della cameriera sembravano essere di altro genere.
“Ser… delle Acquechiare? La principessa Nari mi ha chiesto di voi. Desidera parlarvi in privato.”
 
* * *
 
Finna rimase per un attimo immobile, senza sapere bene cosa dire o fare: in effetti, non era nemmeno certa di aver capito ciò che gli aveva comunicato la cameriera. Una gomitata appena accennata da parte di Gaerys la riscosse, aiutandola a svegliarsi da quel torpore incerto.
La giovane restava davanti a lei, gli occhi sgranati e fissi in quelli di Finna, in attesa di essere seguita. Muovendosi lentamente, come se non controllasse il suo corpo, la ragazza la seguì verso l’esterno, oltre la terrazza, giù per una piccola scala seminascosta dalle piante ornamentali, fino a giungere direttamente in un angolo di giardino che la ragazza non aveva ancora visto, delimitato da siepi e con una piccola fontana proprio nel mezzo. La cameriera si inchinò brevemente prima di congedarsi e sparire di nuovo nel buio, mentre Finna si voltava e metteva al fuoco la sua interlocutrice nell’oscurità rischiarata solo dai lumi a olio: la principessa Nari la attendeva su una panca di pietra, le mani in grembo e un sorriso limpido che rendeva il suo viso ancora più grazioso, almeno dal poco che Finna riusciva ad intravedere.
Era come se il suo cervello di rifiutasse di funzionare, inceppato dalla situazione. Cosa avrebbe potuto dire per iniziare la conversazione nel modo migliore, mostrandosi disinvolta e piacevolmente stupita da quella convocazione? Era in momenti come quelli che si pentiva di non aver studiato le buone maniere quel tanto che le sarebbe bastato a scambiare qualche parola con una nobile di rango così elevato… ma, inaspettatamente, la ragazza le venne in aiuto. E la spiazzò completamente.
“È da quando vi ho visto al torneo che desidero parlarvi, ser. Le vostre prove si sono dimostrate notevoli, soprattutto da parte di un cavaliere così giovane… ma non sono state quelle a colpirmi, quanto il vostro aspetto. Chi avrebbe mai detto che una ragazza avrebbe vinto tante giostre da guadagnarsi un posto nel secondo turno del torneo indetto da mio padre, lady delle Acquechiare?”
Finna raggelò. L’aveva scoperta. Quel travestimento che aveva creduto tanto brillante, tanto studiato, era stato smascherato in un attimo… come aveva potuto pensare di poter tirare avanti per le lunghe senza essere scoperta? Eppure, con gli altri nobili aveva funzionato. Perché con lei…?
“Oh, non guardatemi in quel modo smarrito, vi assicuro che non ho usato strani sortilegi per scoprire che siete una ragazza” sorrise la giovane, intercettando un’occhiata di sconcerto. “Mi è bastato guardarvi camminare, osservarvi per un po’, studiare i vostri movimenti… non sarete aggraziata come le mie dame di compagnia, ma possedete una delicatezza tutta vostra, un’irruenza che conserva un seme di eleganza, anche se lo tenete ben nascosto. Ed è stato quello a svegliare il mio intuito, a farmi capire che non sbagliavo… e che sarebbe stato interessante continuare a studiarvi, e poi avvicinarmi a voi. Come ho deciso di fare stasera.”
Finna aprì la bocca, ma sentiva di avere la gola secca. Solo una frase le uscì dalle labbra, lottando contro la lingua fatta di carta, che non voleva saperne di muoversi. “Studiare… me?”
La principessa non rispose, si limitò a sorridere, questa volta con indulgenza quasi enigmatica. Armeggiò con la maschera che portava sul viso e, con un leggero clic, se la sfilò, mostrando il suo viso alla luce della luna: era pallido e bianco come una perla, gli occhi bruni che lo scaldavano come due granati, una serie di scaglie iridescenti che coprivano la pelle del naso, della fronte e delle guance, illuminandole di una luce spettrale ma allo stesso tempo raffinata, tanto che Finna non riuscì a staccarle gli occhi di dosso. Le era capitato solo una volta di vedere quella pelle così particolare, quegli occhi che sembravano bruciare come tizzoni ardenti… ma era stato all’interno di una tenda nelle paludi di Thervan, durante un periodo che le sembrava appartenere ad una vita precedente. La principessa Nari era una Nixe.
“Voi… voi siete…?”
“Stupita, vero? Sì, sono una Nixe, come lo era mia madre, e mia nonna prima di lei… una mezza Nixe, per la precisione, dato che re Arion è umano. Mio padre mi ha avuta dalla sua amante, una fanciulla dalla grande bellezza che si guadagnava da vivere come indovina e guaritrice in città, quando lui era ancora un giovane generale pupillo del re precedente... una creatura meravigliosa, come non se ne vedevano tante in giro. Pare che Sua Maestà ne fosse davvero innamorato… anche se non sapeva nulla delle sue vere origini.” Si interruppe per un attimo, come se non sapesse come gestire quel flusso di pensieri che nascevano spontanei, poi proseguì.
“Lei gli nascose per anni di essere una donna drago, cercò di mascherare il suo aspetto, terrorizzata dall’idea che qualcuno potesse scoprirla e scacciarla dalla città… sapete bene che non siamo benviste in nessuna regione di questa terra. La regina sua moglie non gli diede mai figli, l’unica erede ero io… ma, appena nacqui, tutta la realtà venne a galla: ero bianca come la neve, gli occhi rossi, innaturali, non ero totalmente umana. Un abominio, un mostro, una femmina, per giunta… eppure, restavo una candidata per il trono che quel giovane generale ambizioso era riuscito a conquistare sposando la figlia del re, l’unica che gli avrebbe consentito di portare avanti la sua linea dinastica. Il sangue della madre non contava, gli dissero i suoi consiglieri, poteva benissimo fingere che fossi una figlia nata per miracolo dopo tanti tentativi; una bambina che poteva nascondere, far vivere come una reclusa con una maschera sul viso fino a che non fosse riuscito a trovare un marito adatto a lei a cui affidare il suo segreto. Fece sparire tutte le cameriere che conoscevano le mie origini, costrinse mia madre ad andarsene con la forza… e così iniziò la mia vita, se vita si può definire una prigionia in un mondo dorato: niente uscite se non all’interno di una carrozza, una maschera sempre fissa sul viso, il personale di servizio sostituito in continuazione e pagato profumatamente perché restasse in silenzio. Fino a che non vi ho vista partecipare al torneo… potete immaginare la mia sorpresa?” gli occhi le brillavano di una luce particolare, felice. “Una giovane ragazza che lascia alle spalle le proprie convenzioni sociali e si butta a capofitto verso un obiettivo, per quanto la sorte possa costellare di difficoltà il suo cammino! Rappresentate tutto quello che avrei sempre voluto essere e che non ho mai avuto il coraggio di reclamare per me: l’irruenza, il coraggio… per questo vorrei farvi una richiesta, che vi chiedo di ascoltare. Consideratelo un favore ad una coetanea, più che l’ordine di una principessa.”
 Finna si inginocchiò, incerta se fosse quello il modo giusto per renderle omaggio, sentendo la mano delicata della principessa che le sfiorava i capelli corti, quasi un ringraziamento anticipato.
“Diventate il mio campione: vincete il torneo per me, aiutandomi a mostrare a mio padre che una donna è molto di più di una semplice pedina da muovere a suo piacimento. Ho già avuto modo di constatare chi saranno i vostri avversari… voi non li conoscete, ma la sorte è stata magnanima nell’assegnarvi lord Calhan, che ha voluto combattere nonostante non si fosse ancora ripreso da una caduta da cavallo durante una delle cacce indette da mio padre. Così come un colpo di fortuna vi ha messo davanti ser Aldren, poco dopo… un ragazzino inesperto, non sa nemmeno distinguere una lancia da una spada. Poi ci sarebbe il Cavaliere della Ginestra, che è un duellante provetto, ma potrebbe sempre rivelarsi indisposto proprio per quel giorno…” lasciò la frase in sospeso, ma Finna aveva capito cosa intendesse dire.
“Quello che mi proponete non è molto onesto, Altezza. Dovrei… vincere con l’inganno? Contro dei cavalieri che mi sono stati opposti in modo che io potessi sconfiggerli? Voi… voi non mi conoscete bene come pensate, non sono venuta qui per dare schiaffi morali a nessuno: il mio unico obiettivo era quello di mostrare a me stessa che potevo valere qualcosa, che i miei sogni di bambina non sarebbero stati dimenticati, seppelliti in un matrimonio di convenienza e in un avvenire ancora più triste. Pensate davvero che vostro padre otterrà una lezione, vedendo una ragazzina vincere il suo torneo? Ritarderà solo il vostro matrimonio, le conseguenze per voi – e per me – potrebbero essere ben peggiori di qualsiasi rivalsa. Siete davvero certa che valga la pena di fidarvi di una persona che nemmeno conoscete?”
Quasi non si accorse di sputare delle spiegazioni concitate, in un tono affatto consono al dialogo con la principessa di Naithara, ma quella proposta la turbava. Qualunque caratteristica la giovane Nixe potesse aver visto in lei, qualunque progetto di rivalsa simile al suo potesse avere in mente… nulla giustificava una vittoria rubata con l’inganno, senza onore, per quanto la sorte potesse averla davvero favorita mettendola di fronte ad avversari scarsi. Ma come avrebbe potuto rifiutare cortesemente, far capire a quella ragazza che vedeva in lei una speranza di non essere interessata ai suoi intrighi?
Naithara è una terra di orrori e meraviglie, come ti accorgerai. 
Le parole della profetessa delle Nixe le tornarono in mente, un’illuminazione a cui arrivava solo in quel momento, chiara come un’epifania: forse quella donna sapeva a cosa stavano andando incontro. Aveva donato loro quelle parole insieme al suo sguardo onnisciente, enigmatico, lo stesso sguardo rosso della principessa di fronte a lei, che si riagganciò la maschera sul viso prima di farle cenno di alzarsi e di congedarla con un sorriso, più caldo e aperto del primo che le aveva rivolto durante quella serata. Non sembrava offesa dai suoi dubbi.
“Se c’è una cosa che la solitudine mi ha insegnato, lady delle Acquechiare, è che a volte basta una sola occhiata per decidere se fidarsi o no di qualcuno. La nobiltà d’animo è esattamente come la crudeltà, è difficile nasconderla… non fidarmi di voi sarebbe stato impossibile, credetemi. Spero di rivedervi al torneo, chissà che non finirete per accettare la mia proposta.”
Si allontanò con passo misurato, accompagnata dal frusciare leggero della gonna di seta e broccato che scivolava dietro di lei, nella notte illuminata dalle stelle lontane, fredde e indifferenti. Finna la fissò finché non sparì in lontananza, lontana e brillante come una cometa che spiegava la scia, portandosi dietro gran parte delle sue certezze. Restò lì per un tempo che le parve infinito, persa nei suoi pensieri, fin quando un Gaerys preoccupato non la raggiunse per avvisarla che la festa era finita e che i nobili, pian piano, iniziavano a tornare alle loro carrozze. La ragazza lo seguì, strappando bruscamente quel flusso ininterrotto di immagini ed elucubrazioni mentali, costringendo se stessa a focalizzarsi sul prossimo obiettivo: il torneo sarebbe finito, era vero. Ma le cose, forse, non sarebbero andate come tutti si aspettavano.
 
* * *
 
“Cosa stai scrivendo?”

Gaerys sorrise sentendola arrivare. Si erano allenati tutta la mattina in un piccolo bosco fuori Valoria, il sole che tingeva l’armatura di Finna di verde e azzurro come un pittore nervoso, facendola risplendere dei colori della natura, la sua tavolozza. I colpi che parava e mandava a segno le sembravano più precisi, più sicuri, ma in qualche modo sentiva di non poter abbassare la guardia: ora che aveva acquisito consapevolezza del suo ruolo e di ciò che ci si aspettava da lei, il minimo che avrebbe potuto fare era combattere, non lasciarsi vincere dalla paura, rafforzarsi. Andare avanti, sempre.

“Un libro… anzi, una cronaca, a dir la verità: avevo intenzione di chiamarle ‘Cronache di una primavera di gelo’, per omaggiare il freddo che ancora si fa sentire, che ne dici? Sarà la storia di un cavaliere, del suo scudiero elfo e di tutte le loro avventure e disavventure, di una strega delle lande e della sua eredità magica, di una ragazza testarda ma impavida che riesce a mettere al tappeto decine di cavalieri, diventando l’Eroe di tante ballate. Una primavera di gelo, che porta in sé la promessa di qualcosa di nuovo, di germogli che riposano sotto la brina, aspettando che il sole li faccia finalmente fiorire. Pensi che sarebbe una buona lettura?”

Lei gli scompigliò i capelli, ripetendo quel gesto che si erano scambiati tanto spesso, una sorta di rituale reciproco e affettuoso che li legava anche nelle difficoltà. Aveva deciso di non raccontargli nulla di quella proposta nel giardino del palazzo, per non metterlo ulteriormente in allarme… e forse anche perché voleva cavarsela da sola, dopotutto. Qualunque destino l’attendeva sul campo, il giorno dopo, non l’avrebbe colta impreparata.
Così rifletteva, distesa sotto alle fronde di un grande albero che sembrava proteggerla coi suoi rami robusti, facendole ombra, accogliendola come un piccolo animale bisognoso di cure. Allungava una mano verso l’alto, lasciando che le foglie la coprissero con la loro ombra intermittente, chiedendosi quanto della Finna bambina ancora restava in lei e quanto invece se ne fosse andato, inghiottito dai movimenti nervosi e letali di quel biondo adulto, un cavaliere sconosciuto che galoppava a briglia sciolta verso la vita, senza voltarsi indietro. Pensava a sua madre, al desiderio di avere una bella figlia elegante e aggraziata, a suo padre e alle lezioni di spada che le aveva fatto impartire sperando di renderla felice, a Fergus e alla gentilezza con cui la chiamava sorellina e la assisteva durante le lezioni di storia, ridendo della sua espressione seccata quando il buon Maestro Arneth la rimproverava di non prestare abbastanza attenzione ai libri che aveva di fronte. Chissà se l’amavano ancora, se l’avrebbero riconosciuta e riaccolta una volta che avesse varcato di nuovo l’ingresso del castello, portando con sé una nuova ragazza, più matura, meno aggressiva, più incline a risolvere i problemi attraversandoli piuttosto che travolgendoli. Chissà se avrebbero capito che tutti, prima o poi, sentivano il bisogno di correre in tondo per inseguire qualcosa, prima di tornare al punto di partenza, diversi.
Capiva la principessa: anche lei era partita desiderando una rivalsa, sperando stupidamente di punire suo padre con quella fuga… ma non si era appoggiata a nessuno per cambiare, non aveva convinto qualcun altro a fare il lavoro che sarebbe toccato a lei. Per quanto imperscrutabile potesse rivelarsi, ognuno aveva in mano il suo destino. E avrebbe dovuto cambiarlo contando solo e soltanto sulle proprie forze.

 
* * *
 

“Si sfidano ora ser Finn delle Acquechiare, cavaliere errante, e ser Rionar, il Cavaliere della Ginestra, signore di Morgon’s Oath. Sfidanti, al centro!”
Come la principessa Nari aveva previsto, battere i due avversari precedenti non era stato difficile: entrambi i suoi sfidanti erano inesperti o messi in difficoltà da fattori che la ragazza era riuscita a sfruttare a suo favore, tra i quali rientrava la tendenza di lord Calhan a spostarsi parecchio a sinistra prima di tentare un affondo con la lancia. Non si trattava di essere particolarmente abili… era questione di fortuna, anche Nari glielo aveva detto. Fortuna che la principessa pareva non aver aiutato in alcun modo, a giudicare dalla presenza del Cavaliere delle Ginestre lì al torneo. Che la giovane avesse rinunciato ai suoi propositi di rivalsa?

Non era il momento di distrarsi: la giostra iniziò immediatamente, frenetica, con la cavalcata possente del suo avversario che le veniva incontro, spronando lo stallone nero che montava con sicurezza. Il Cavaliere sembrava davvero ben addestrato come si diceva, se non altro perché non aveva esitato un attimo prima di colpirla al petto, facendola sobbalzare e costringendo Andruil a impennare, rischiando di far cadere la ragazza. Finna non si perse d’animo: tentò immediatamente un colpo all’altezza dell’elmo per disorientarlo, ma l’avversario riuscì a intercettare quella mossa troppo azzardata scartando di lato e bloccandola, facendole cadere la lancia dalle mani. Era stato tutto così rapido e imprevisto da non permetterle di accorgersi nemmeno di quanto stava accadendo.
Il combattimento sarebbe dovuto proseguire a terra, secondo le regole del torneo; la ragazza non era una stupida, non si aspettava di ottenere un buon risultato. Tentò con tutte le sue forze di mettere a frutto i suoi allenamenti, parando, scattando e affondando, dando filo da torcere più di una volta il Cavaliere, ma la superiorità di quest’ultimo era evidente, sia dai colpi magistrali che tirava, sia dai suoi movimenti fluidi e precisi. La folla intorno a lei rumoreggiava, sentiva le mani sudare all’interno dei guanti di maglia e l’elmo che le schiacciava la testa, mentre la spada continuava a calare, lo scudo a parare, gli stivali a percorrere passi e a seguire il suo corpo in quella danza che, ormai, conosceva molto bene… fino a che il suo avversario, fluido e aggraziato come sempre, non riuscì a evitare un suo fendente e mirò direttamente al pettorale dell’armatura, facendola cadere prima che potesse parare il colpo con lo scudo che portava, le onde dei Rivervale cancellate dalla mano abile di Gaerys che aveva trasformato il simbolo della sua casata in un laghetto lucente, un albero che si specchiava nelle sue acque azzurro brillante.
In un attimo, si ritrovò a terra: aveva perso. Il Cavaliere puntava la spada contro di lei, alto e maestoso nella sua bella armatura punteggiata da piccoli fiori gialli, un pennacchio in cima all’elmo che si muoveva piano nel vento.

“Miei lord e lady, abbiamo un vincitore!”

Lo sguardo di Finna, ancora protetto dall’elmo, vagò immediatamente sugli spalti attorno al campo… e si stupì nel constatare che sul viso di Nari non sembrava esserci traccia di sconforto, né di delusione. Era… soddisfatta?

“Il vincitore è ser Rionar, signore di Morgon’s Oath! Spetterebbero a lui le ricchezze e gli onori dedicati ai vincitori del torneo, nonché la mano della principessa Nari di Naithara, ma…” - e qui la folla rumoreggiò, in attesa di un cambiamento di programma ormai palpabile - “la nostra splendida Altezza Reale ha deciso che onori e lodi verranno tributate ad entrambi i cavalieri vincitori, in segno di amicizia e di ringraziamento per aver combattuto così bene in queste giostre indette a suo nome! Fatevi avanti, miei signori, per ricevere il vostro pegno!”

Di nuovo quel sudore freddo che le afferrava la spina dorsale, facendola fremere come un animale che fiutava il pericolo. Nari non aveva accomodato la sorte ai suoi voleri, ma era riuscita comunque ad ottenere quel che desiderava cambiando le regole e costringendola a rivelarsi… sapendo che mai avrebbe abbandonato il torneo, non quando aveva promesso a se stessa di affrontare ogni sfida senza voltarsi indietro. Si chiese se non fosse una profetessa anche lei, come la Nixe dell’accampamento, ma quel pensiero svanì come un filo di fumo alla vista della mano tesa che il Cavaliere delle Ginestre gli porgeva. Finna la prese suo malgrado e si avviò insieme a lui alla tribuna, gli occhi di tutti puntati su di lei, sguardi che la bucavano come piccole lame aguzze.
Per una frazione di secondo alzò gli occhi e lo vide, seduto tra i nobili poco lontani, una visione incredibilmente concreta nella sua assurdità: suo fratello Fergus la stava guardando con interesse, probabilmente ignaro di trovarsi di fronte a sua sorella, o magari lo sapeva ma faceva finta di nulla, chissà. Perché era lì? Lo aveva mandato suo padre a osservarla, a vegliare su di lei? Una serie di domande alle quali non avrebbe saputo rispondere, ma che presto sarebbero state risolte: la sua identità segreta non lo sarebbe stata ancora per molto.
La principessa Nari sorrideva, due corone di foglie e piccoli boccioli viola strette tra le mani, ognuna intrecciata ad un fazzoletto di seta chiara, un ulteriore pegno di vittoria da consegnare ai due vincitori. Vide il Cavaliere sorridere e sfilarsi l’elmo, la brezza di primavera che spostava un ciuffo di capelli rossicci dal viso di giovane uomo, poi inchinare la testa e ricevere la corona, che spiccava come su un campo di grano dorato. Sentì la folla mormorare di approvazione, di stupore, infine borbottare, ostile: si rese conto di essere rimasta immobile e in silenzio mentre la principessa Nari le chiedeva di farsi avanti, scoprirsi la testa e inchinarsi per ricevere il pegno.
Il sangue le rombava ancora nelle vene, impazzito, raggiungendo le orecchie, il viso, le mani che tremavano mentre si toglieva l’elmo, sfilandolo piano, permettendo al sole di quel mattino gelido di accarezzarlo, ai suoi capelli ormai corti e spettinati di liberarsi nell’aria… e non poté trattenersi dallo sfregare la mano coperta dal guanto di metallo sul mento, togliendo quelle tracce di barba che si era disegnata addosso giorni prima e che ancora le pizzicavano la pelle come un ricordo sbiadito, mostrando al mondo la vera Finna Rivervale, una ragazza di sedici anni che fissava le tribune davanti a sé, fiera e spaventata.
La folla tacque improvvisamente. Solo gli uccelli osavano spezzare quel silenzio coi loro cinguettii.
Una voce, chiara e limpida, risuonò tra tutte le altre. Gridava un’accusa.

“Voi… siete una donna! È scandaloso!”

Altri mormorii minacciosi la seguirono, una serie di voci simili ad uno sciame di api infuriate, borbottii di nobili che si lamentavano per lo spettacolo indecente, altri che chiedevano una punizione immediata. Vide distintamente suo fratello mettere mano alla spada, preoccupato, senza parlare, mentre re Arion, nella tribuna d’onore, assumeva l’espressione di chi si trovava lanciato a capofitto in una situazione che non comprendeva e non approvava affatto. Solo la principessa Nari la osservava sorridendo con la corona in mano, le labbra piegate in un accenno di risatina sorniona, quasi avesse calcolato alla perfezione quel finale. Comprendeva il suo desiderio di rivalsa… ma da quando le vite degli altri erano a sua completa disposizione, come tante pedine su una scacchiera con cui solo lei giocava?
Aveva immaginato tante volte quel momento, vivendolo negli incubi, percorrendolo nelle sue fantasie ad occhi aperti durante le cavalcate tra i boschi che l’avevano condotta a Valoria. Mai, però, avrebbe immaginato un epilogo simile a quello.
Spostò con un cenno del capo una ciocca di capelli ribelli, ritrovando in un attimo tutto il coraggio che sentiva di aver lasciato in quella battaglia appena persa, l’ultima da ser Finn delle Acquechiare. Andruil era accanto a lei, in attesa: montarle sulla groppa e allontanarsi dagli spalti furono azioni automatiche, una sorta di completamento di quel rito iniziato con l’iscrizione al torneo e la ricerca di se stessa, quando si sentiva una ragazzina senza un posto nel mondo. Si rivolse al re, accennando un inchino, un sorriso nato chissà dove che le incurvava le labbra secche, coperte da piccoli graffi causati dallo sfregare del metallo dell’elmo sulla pelle.

“Vostra Altezza, vi ringrazio per la gentilezza e il riconoscimento, ma mi vedo costretta a rifiutare il premio generoso che mi avete assegnato: le mie terre mi attendono. Il viaggio verso Thervan è lungo e non vorrei mai far attendere i miei illustri genitori. Principessa… i miei rispetti: penso che vostro padre sia rimasto abbastanza colpito dalla mia lezione, adesso siete voi a dover lottare per affermare voi stessa. Siete forte… ce la farete, non ne dubito. Con permesso.”

Un urlo stentoreo rivolto alle guardie le fece accorrere per circondare la giumenta, ma la ragazza era già scattata al galoppo, pronta a seminarli con una corsa rapida. Attraversò il campo del torneo tagliando per i prati, lasciando che quegli uomini si accalcassero dietro di lei, a piedi e decisamente troppo lenti… fino a che una figura non li superò tutti con uno stacco deciso, lasciandosi dietro un rumore cadenzato di zoccoli, più leggero di quello prodotto da Andruil ma ritmico, incessante.
Si girò, in tempo per abbracciare nel suo campo visivo un bellissimo cervo bianco, una creatura dalle lunghe corna ramificate che sembrò volerla seguire, forse affascinata dai suoi movimenti. Quando la creatura le si parò davanti, scomparendo in un filo di fumo, Finna rischiò di cadere da cavallo: Gaerys le sorrideva da un orecchio all’altro, il corpo scattante teso in uno spasmo di corsa appena stroncato dalla trasformazione, un quadrupede tornato ad essere l’elfo impertinente al quale voleva un bene assoluto.
“Gae? Da… da quando accidenti sai trasformarti in un cervo? Anzi, da quando hai imparato ad usare la magia in generale?”
“Ah, il tempo libero… fa miracoli, mia cara lady Rivervale. E la biblioteca di Naithara è più fornita di tomi magici di quanto pensassi. Mi sono detto: se ho tanto sangue magico nelle vene, una madre strega e un padre che detesta vedere usare la magia per scopi futili e frivoli, perché non imparare qualche incantesimo utile a farlo uscire dai gangheri? Mi sembrava una buona giornata per sfruttarne uno, data la baraonda che hai creato giù al torneo…”

Finna non riuscì a trattenersi: rise con tutta se stessa. Una risata piena, vivace, un grido di gioia tra i campi verdeggianti della regione, sotto ad un cielo di un azzurro così intenso e fresco da bruciare i polmoni con la sua aria tersa, limpida come un cristallo. Scosse la testa ancora una volta e rise ancora, buttando il capo all’indietro, felice all’idea di essere lì, di essere libera, di poter galoppare verso casa piena di avventure da raccontare e con una nuova consapevolezza: era Finna Rivervale delle Terre Antiche. Irruenta, poco aggraziata, incline a pestare i piedi a un suo eventuale compagno di danza e a travestirsi da uomo per partecipare ai tornei, impulsiva, coraggiosa solo a modo suo, troppo piena di fantasia. Ma era se stessa, e non voleva più perdersi dopo che aveva fatto tanta fatica per ritrovarsi.

“Hai visto mio fratello? Secondo me ci starà alle calcagna fino a che non mi raggiungerà. Che ne dici di iniziare a seminarlo?”

L’occhiata che Gaerys le lanciò mostrava in pieno la sua approvazione. In un attimo si ritrasformò nel cervo bianco e le si fermò davanti per convincerlo a seguirla, facendo nitrire Andruil di sorpresa, spingendo Finna a spronarla e a gettarsi in una nuova corsa lungo la strada principale di Valoria. Tra i suoi capelli corti e spinosi soffiava dalla brezza, la mente era piena di pensieri incoerenti e vivaci, confusi, mentre tallonava l’elfo che sapeva trasformarsi in un cervo e lo seguiva in una corsa forsennata, l’aria di quella primavera ancora sospesa tra il gelo e il tepore che accarezzava entrambi, accompagnandoli nel loro viaggio verso la regione di Thervan.
 
 
 
 
 









Salute a voi, lettori, e grazie per aver seguito questa storia fino alla fine.
È da parecchio che non mi capita di scrivere storie originali, un po’ perché penso di non avere né idee buone abbastanza né fantasia, un po’ perché sento di riuscire ad esprimermi al meglio soalmente con le fanfictions... Grazie a Silvar e al suo bellissimo contest, però, ho ritrovato il piacere di scribacchiare qualcosa di mio e di riarrangiare una vecchia storia che avevo già scritto tempo fa in forma più breve, facendole prendere vita e delineando le vicende di Finna e Gaerys. Man mano che scrivevo, ricontrollavo e aggiungevo particolari ho sentito i personaggi diventare sempre più miei, mi sono affezionata a loro e sono passata da un iniziale scetticismo misto a insoddisfazione – la mia condizione tipo quando scrivo, non sono mai soddisfatta di quanto ho prodotto – alla gioia di aver finalmente creato qualcosa di mio, una sorta di “piccolo mondo” da espandere e popolare con le creature nate dalla mia fantasia. Spero che vi divertiate a leggere questa storia così come io mi sono divertita a scriverla! Se vorrete farmi sapere il vostro parere con un commento o una critica, siete sempre benaccetti :3
Di seguito troverete un piccolo glossario con la spiegazione “allargata” dei popoli e degli stati che compongono il territorio di Orva, per rendere la lettura più comprensibile e scorrevole. Purtroppo ho potuto dedicare pochissimo spazio ad alcune parti della storia, magari in futuro potrei decidere di espandere un po’ questo universo, chissà.
Concludo ringraziando la mia meravigliosa TsunadeShirahime per i consigli, l’incoraggiamento, l’amore con cui mi spinge a non mollare mai e sorbisce tutte le mie storie, dalla prima all’ultima. Sei un tesoro immenso, non ti ringrazierò mai abbastanza, donnina <3
Alla prossima!
Nat
 
 
 
 

 





Orva e i suoi stati: popoli e religioni
 
 
Il continente di Orva, luogo dove si svolge la storia di Finna e Gaerys, è composto da una serie di piccoli stati, ognuno indipendente e retto da un sovrano: ho citato Thervan – stato natale dei due protagonisti – Naithara e Argona, ma ce ne sono altri quattro, rispettivamente Kalaria, Enthi, Radana e le Isole di Aelbourne, un arcipelago ormai perduto da cui probabilmente si originarono le Nixe, le donne drago che vivono nelle paludi, creature seminomadi scacciate da ogni parte del continente.

Thervan è una terra di guerrieri, un territorio percorso da montagne, pianure e vasti campi erbosi, nella quale umani ed elfi vivono sostanzialmente in pace. Rispetto a Naithara è molto meno raffinata e la sua nobiltà è meno entusiasta all’idea di partecipare a balli e banchetti come quella dello stato confinante. La capitale di Thervan, Dorensland, prende il nome dall’eroe che strappò ai barbari lo stato e sorge su un’ampia piana; sia le Terre Antiche (su cui dominano i Rivervale, la famiglia di Finna e Fergus) che il Picco delle Nuvole si trovano in questo stato. Alle spalle della capitale sorge una catena montuosa chiamata la Cintura di Alynora, che comprende il valico del Vorra, luogo che mette in comunicazione due terre e sede di un regno dei nani, altre creature che abitano stabilmente il Thervan.

Naithara è una terra più raffinata, coperta da campi verdi e punteggiata di piccoli villaggi, con una capitale sede di istituzioni prestigiose, Valoria. La sua nobiltà ama divertimenti come i tornei, le cacce col falcone e i balli e spesso chiama a sé i nobili dei regni vicini, in particolare i vassalli di Argona, la regione vicina.

Popoli: Orva è abitato da umani, elfi, nani e anche qualche Nixe, nonostante siano praticamente tutte concentrate nelle paludi di Thervan e in qualche zona sperduta di Kalaria. Gli umani sono sostanzialmente il gruppo dominante e solo in rari casi possiedono la capacità di usare la magia; gli elfi hanno una percentuale di sangue magico molto più elevata e per questo non sono benvisti, accusati di praticare sortilegi con cui tenterebbero di rovesciare il dominio degli umani. Le streghe praticano la magia in totale libertà e vivono appartate rispetto agli umani, nonostante ce ne siano poche in circolazione (Phedra, la madre di Gaerys, era probabilmente una delle poche rimaste). I nani non creano problemi, sono commercianti e abitano le montagne e i valichi, che abbandonano solo raramente per scendere a valle e commerciare con gli umani.

Nixe: sono esseri dall’aspetto abbastanza simile a quello degli umani, ma nascono dotate di ali e con la pelle coperta di piccole squame iridescenti, oltre ai caratteristici capelli bianchi e occhi rossi propri della loro specie. Si uniscono ad elfi e umani per generare figli ma sono solo donne, non esistono maschi nella loro specie. Le leggende le ritengono capaci di parlare con le creature marine, secondo alcuni sono immortali, ma non si sa molto di loro.
Si ritiene che le Nixe incrociate con gli esseri umani perdano gran parte delle loro caratteristiche “di drago”: non hanno le ali, le squame sul corpo sono molto ridotte e anche i tratti sono meno simili a quelli di un rettile, al contrario delle loro compagne nate da madre Nixe e da padre elfo, che mantengono le ali e le branchie. La giovane principessa Nari, essendo nata da madre umana (a sua volta figlia di un umano, molto probabilmente) possiede solo alcune squame sul viso, ma non  le ali tipiche delle Nixe cresciute libere e incrociate con elfi e altre creature non umane.

Religione: le dee principali – chiamate le Due Sorelle – sono due: Alynora, dea della caccia e del sole e Deinna, dea della notte e della natura, spesso associata alla magia. Le due divinità sono rappresentate come bellissime donne vestite allo stesso modo, Alynora con una lunga tunica bianca punteggiata da raggi d’oro e Deinna con una nera trapunta di stelle, che simboleggia il suo dominio sul cielo stellato. La Religione dei Quattro, invece, nasce ad Argona (in particolare a Syrenia, la sua capitale) e celebra quattro divinità principali: Asteria, chiamata la dama del gelo, Tyros e Rotys, due déi gemelli e Venex, un’altra divinità femminile. Il culto è famoso per i sacrifici di Nixe spesso compiuti in onore della dea Asteria, per onorare un’antica leggenda che vedeva le donne – drago responsabili di un oltraggio nei confronti della dama.









   
 
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