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Autore: Melitot Proud Eye    11/12/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota : eccoci al decimo capitolo... siamo quasi alla conclusione, questione di pochi capitoli ^^ e, per la gioia di Killkenny, finalmente oggi qualcuno capisce qualcosa e smette di fare la testa dura ;-) Meno male che Hiko esiste!










Kenshin lo vide spiccare un salto e compiere un arco in aria, all’indietro. Poi, in men che non si dica era scomparso.
«Kenji!»
Raggiunse il muro, preparandosi a saltare. Ma si fermò prima, conscio che non ce l’avrebbe mai fatta.
Non aveva più vent’anni.
«Kenji, torna qui!»
Cominciò a costeggiare la barriera, veloce, tentando di cogliere movimenti o rumori. Svoltò nella via contigua. Forse lo avrebbe visto uscire, o saltare su qualche tetto.
Ma dopo pochi minuti seppe di illudersi. Era diventato troppo veloce… non poteva fermarlo.
Non poteva.
Si appoggiò pesantemente contro una staccionata, il respiro affannoso. Poi si coprì gli occhi, chiudendo fuori la luce.
Dannazione.
Aveva fallito.
Era stato a un passo―
«Volevate trovarmi a tal punto che non vi siete neanche accorti quando mi siete passati accanto.»
Dèi santi.
«E’ per quello che mi hai sempre tenuto a distanza?»
Dèi santi…
Era quello che Kenji credeva? Che non lo volesse, che lo odiasse? Lo amava alla follia, come pochi altri al mondo!
No, Kenshin odiava se stesso.
Non solo non aveva riportato indietro il suo carissimo figlio, l’aveva allontanato ancora di più. Se solo fosse stato più attento. Se solo non avesse detto quelle parole… Aveva visto il pianto nei suoi occhi.
Cosa doveva fare per rimediare?
«Voglio restare da Hiko.»
Come poteva fare per impedirgli di seguire le sue orme? Kenji non sarebbe stato mai più lo stesso.
La possibilità lo riempiva d’orrore.
Sentendo chiamare il proprio nome, abbassò la mano e guardò verso il fondo della via.
C’era Kaoru che correva verso di lui, tenendo Inoi per mano. Sanosuke le seguiva a mo’ di retroguardia.
Il loro arrivo gli ripiombò addosso la situazione.
Shinta.
Shinta, sì.
C’era qualcos’altro che doveva fare adesso, senza ritardi.
Per quanto il suo cuore fosse dilaniato.

Kenji attraversò la città come una furia, sbandando e deviando di sovente.
Coi capelli sferzati all’indietro, al pari di una fiaccola nel vento, la veste nera e il capo tenuto basso, sembrava uno spirito vendicatore lanciato in una cavalcata feroce.
«Per te.»
Balzò oltre una pila di legna, abbandonando un vicolo.
«Non scappare più. Per favore.»
Non così.
«Torniamo a casa.»
Non così! Anche se voleva.
Doveva pensare. Doveva doveva doveva. Si soffermò a riflettere che poteva sempre tagliarli fuori e andare a fare la sua vita altrove, dove più gli aggradava. Ma una voce dentro di lui scoppiò in una cruda risata, sbattendogli in faccia che non ne era capace.
O piuttosto… non voglio.
Nonostante tutte le sue arie da duro, Hiko aveva ragione.
Era solo un moccioso, ancora attaccato alle mani di mamma e papà. E quella vita, tutto sommato, gli piaceva.
Tornare dalle scorribande della Triade il mattino o il pomeriggio tardi, per trovare sorrisi ad accoglierlo, il profumo di cibo nell’aria… la sicurezza.
Mirò alla prima cosa che vide (un mucchio di spazzatura) e le diede un calcio.
«Dannazione!»
Restò lì ad ansimare, completamente ignaro della sua posizione. Per quanto ne sapeva poteva anche esser fuori Kyoto.
«Kenji, torniamo a casa. Riprendiamoci Shinta e torniamo.»
Aspirò con violenza.
I suoi occhi non riuscivano a staccarsi dal pattume.
Dèi del cielo. Shinta.
Come aveva potuto dimenticare?
Forse sto già diventando una persona orribile. Si passò le mani sul volto, senza accorgersi che erano sporche.
«I boschi sono immensi, qui intorno. Saranno in qualche baracca.»
Rimase con le braccia a mezz’aria.
Baracche? Foresta?
Quella mattina, muovendosi verso la porta orientale, era stato costretto a deviare e addentrarsi nella boscaglia per evitare una gola. Rivide il tratto roccioso e l’avvallamento nascosto, puzzolente di marcio. Le baracche, così ben nascoste che all’inizio neppure le aveva riconosciute…
«Lo so dov’è» mormorò.
Si guardò dietro, maledicendosi per esser scappato a vanvera.
«Venderanno Shinta questo pomeriggio.»
Pomeriggio. Che ore erano?
Quando nel pomeriggio?!
All’improvviso seppe che sarebbe andato da solo.
Non c’era tempo.
Muoversi subito.
Avvertire nessuno.
Animato da una violenta apprensione, riprese la sua folle corsa.
Era stato lui a trattenere i genitori e lo zio. E non si sarebbe mai perdonato se a Shinta fosse successo qualcosa per colpa sua.

Sanosuke Sagara non era tipo da sentirsi facilmente a disagio. Non rientrava nelle sue sensibilità, tutto qui. Spesso i sassi eran più acuti di lui, e non aveva grandi problemi ad ammetterlo: ai patemi mentali, lui preferiva domande dirette e bicipiti.
Ma c’erano anche casi in cui la sua materia grigia riceveva una spinta in più, aprendosi a possibilità sconosciute. La vita l’aveva abituato alle situazioni serie, per quanto poco gli piacessero. E se non era seria quella…
Osservò a debita distanza il migliore amico, muto da quando l’avevano rintracciato.
Aveva solo sillabato “Shinta”, poi era partito a razzo. Facile indovinare che le cose fossero andate male con Kenji. La domanda era: quanto male? Le occasioni di vedere Kenshin così scuro c’erano state, certo, ma non si classificavano proprio tra le date da ricordare.
Adesso avevano raggiunto il punto d’incontro: la porta nord. Neanche l’importuna insistenza di Misao riuscì a strappargli altre parole. Non parliamo poi di Aoshi, con quel suo complesso del mutismo.
Qui c’era puzza di altre grane.
Ficcò le mani in tasca, incurante del freddo che entrava dall’haori rosso aperto, e s’accostò a Kaoru.
Lei non si smentiva. Conosceva Kenshin meglio di chiunque altro: e infatti, dopo aver visto la sua faccia in quella strada da ricconi, non aveva sussurrato che il suo nome.
«Hey.»
«Oh, Sano» mormorò lei, strappata ai pensieri. Inoi le camminava a fianco, quasi trascinata per mano, la testolina bassa.
«Si risolverà tutto, vedrai. Adesso andiamo e li massacriamo.»
Kaoru accennò un sorriso.
«Ci dispiace di averti coinvolto―»
«Porca vacca, anche tu con ‘sta storia. Piantatela. Voi avreste fatto lo stesso.»
«Zio Sano ha detto una parolaccia» dichiarò Inoi, mogia.
«Sì, zio Sano è maleducato.»
«Oy…»
Kaoru si passò il dorso della mano sulla fronte. «Sono fuori di me. Per Shinta, per Kenji, ma anche per Kenshin. Non ha un bell’aspetto… Non ce la faccio più.»
«Ancora poco» le disse, stringendole la spalla. «Tieni duro.»
«Ah, fosse facile. Lo so già che dovrò restare qui ad aspettare. Sempre ad aspettare.»
«Devi proteggere Inoi. Non sarebbe sicura venendo con noi, no?»
Lei annuì, la fronte imperlata di sudore.
Poi rallentò sino a fermarsi, guardandolo con decisione.
«Allora promettimi che non gli farai fare scemenze» guardò Kenshin con la coda dell’occhio. «Quel testardo… ha ripreso a praticare il kenjutsu da qualche anno, per mantenersi in forma, dice lui. Per sentirsi sicuro.»
Sanosuke spalancò la bocca, lasciando cadere lo stuzzicadenti che ruminava da un po’. Lei parve imbarazzata.
«Non ha voluto divulgarlo più del necessario. Comunque, finché non si sforza non ci saranno problemi. Ma sono pronta a scommettere quello che vuoi che oggi lo farà. Impedisciglielo, ti prego. Non può più muoversi come una volta ― non deve!»
Deglutì, fissando istintivamente la schiena dell’amico.
«Lo farai, Sano?»
«Puoi contarci, signorinella.»
Fu allora che, raggiungendo il gruppo degli Oniwabanshu ― Aoshi, Misao, Omasu, tutti in stato di guerra pur senza esser vistosi ― si accorsero che qualcosa non marciava.
«Che succede?»
«Abbiamo un contrattempo. La persona che doveva darci la posizione del covo non è tornata.»
Misao e Omasu erano piuttosto pallide. Kaoru soffocò un’esclamazione.
«Cioè… voi pensate che―»
«No» fece Aoshi, duro. «Tornerà. Ma dovremo cercare da soli.»
Davanti a lui, Kenshin annuì.
«Muoviamoci.»
«Un momento» disse una voce, autoritaria.
Si voltarono tutti, Sanosuke compreso.
Verso di loro marciava un uomo alto, scuro di capelli, vistosamente muscoloso. Sano avrebbe voluto sbattersi una mano in faccia.
Seijuro Hiko.
«Avevo detto che sarei venuto anch’io, mi pareva.»

La tensione era palpabile.
Stavano andando in battaglia, certo, per l’ennesima volta nella loro vita. E speravano sempre che fosse l’ultima. O meglio, lo speravano quei quattro, cinque pulcini, si corresse Hiko. Per lui, una vita senza qualche scrollone sarebbe stata la morte. Non era mai stato particolarmente sensibile, né al sangue né allo stress; forse perché ci era nato e cresciuto.
Ma “non sensibile” non significava “poco perspicace”, intendiamoci. Notò la durezza nei tratti di Kenshin, che aveva accolto il suo arrivo con uno spasmo e ora procedeva nel sottobosco a passo di marcia, la testa avanti come un toro. Corrugò la fronte.
Avrebbe potuto mostrare un maggiore apprezzamento per la sua presenza. Lo avrebbe aiutato di nuovo, e non solo col piccolo scomparso.
Ma come al solito lo stupido aveva bisogno di tempo per capire.
Quando arrivarono a un punto in cui l’orografia del monte mutava, rendendo necessario che il gruppo si dividesse, Shinomori si fermò per illustrare le tre direzioni.
«Avete le bussole?»
La giovane Omasu, Sagara e lo stupido ex-allievo annuirono.
«Tenetevi sempre aperti verso nord-est. Cercate una conca o una gola.» Un altro assenso collettivo. «Andremo a coppie. Misao, vieni.»
«Eccomi.»
Appena il tempo di augurare buona fortuna e i due erano già lontani.
Hiko vide gli altri tre rimasti guardarsi, poi Sagara accennare un passo verso Kenshin.
Eh no, ragazzo.
«Vado io con lui» dichiarò, levandolo di mezzo.
«Hey! Qui non decidi tu, bestione!»
«Come mi hai chiamato?»
Sensata come al solito, Omasu prese la testa di gallina per un braccio e cominciò a tirarlo nell’altra direzione.
«No, un momento! Hey! Hey
«Su, Sagara-kun, non è il momento di fare storie.»
Hiko scosse la testa, sconcertato. Santo cielo, cosa ci voleva a capire che c’era un discorso privato da fare, oltre a cercare un bambino?
«Non ti preoccupare, Sano, vai pure con la signora Omasu.»
Hm. Finalmente il pomo della discordia parlava.
«Ma―»
«Davvero.»
Sagara zittì, lasciandosi portare via con aria pensosa.
…E lui avrebbe fatto bene ad affrettarsi dietro lo stupido ex-allievo, perché aveva tutta l’aria di volerlo seminare.

Kenji era entrato nella foresta col sole quasi allo zenit, volando sulla distanza dalla porta est ai primi arbusti.
Non si volse a guardare, a controllare, niente.
Se anche ci fosse stato qualcuno di noto o di sospetto non si sarebbe fermato. La sua mente era concentrata su un unico obiettivo: ricordare i movimenti, i riferimenti di quella mattina, per ritrovare il posto maledetto.
S’inerpicò lungo il fianco del monte, collinoso alla base, e rallentò solo quando la strada divenne più aspra. Non c’era sentiero. Per di più, gli sterpi secchi erano tutti avviluppati, una vera trappola per le gambe. Ansimò, cominciando a sentirsi davvero senza fiato.
Era allenato, vero, ma forse stava raggiungendo i suoi limiti.
No. Non ancora.
Artigliò con forza la roccia e fletté le gambe, saltando per tirarsi su. Scavalcata la barriera di macigni, che riconobbe essere il fianco del dirupo dell’andata, si fermò a riflettere.
La capanna di Hiko era… da quella parte. E lui era salito dritto da qui, per evitare la scarpata.
Quindi avanti.
I suoi sandali affondarono leggermente nel terriccio muscoso, conducendolo nella boscaglia.
Una gola, una gola… dov’era?
Dove poteva trovarla?
Era sparita?
S’appoggiò a un tronco, massaggiandosi le mani per ridar vita alle estremità gelate. C’era un po’ di brina nei rami nascosti al sole. Brina e ghiaccio…
Ebbe un’illuminazione.
L’acqua.
La piccola conca era vicina a un torrente. Sarebbe bastato trovarlo e risalire il suo corso. Nel silenzio degli alberi, tra il sempreverde ombroso e lo spoglio, non ci volle molto a cogliere il rumore dell’acqua.
Sguainò la sakabato. Poi, gli occhi spalancati per cogliere qualsiasi movimento, s’appiattì tra i cespugli.
Nulla.
Strisciò avanti, silenzioso.
Infine, trattenendo il fiato, spiò oltre il bordo della conca puzzolente.

«Allora, Kenshin» disse Hiko dopo ere di silenzio, fruscii e cinguettii, badando a contenere la voce. «Quanto ancora vuoi mancarmi di rispetto? Sono venuto per parlarti, non per una gita di piacere.»
Lo sentì espirare.
«Questo l’avevo capito.»
Continuarono ad avanzare, rapidi e attenti.
«Ma?»
«Sto cercando mio figlio, ora.»
«E io ti sto dando una mano. Non puoi negarlo.»
«…»
Lo superò con alcune ampie falcate, scrutando le forme del monte.
«Sono consapevole di non essere stato un genitore ideale, se questa è l’idea che hai di me ― cosa di cui dubito, ma non si sa mai. Quello che so è di averti sempre dato consigli ragionevoli.»
Lui gli voltava le spalle, teso verso un suono che non voleva arrivare.
«Visto il modo con cui ci siamo lasciati quasi trent’anni fa e il modo in cui ci siamo ritrovati, non so se te lo meriti, ma credo che continuerò ad aprirti gli occhi finché ne avrai bisogno.»
«Non sono più un ragazzo, maestro» fu la risposta, data a denti stretti. «Anzi, signor Hiko.»
«E’ vero, non sei più mio allievo.»
Erano giunti a un empasse. Si massaggiò il mento, pensieroso.
Ma fu Kenshin a rompere il silenzio: voltatosi a guardarlo, fermo presso una fossa, lasciò cadere le spalle.
Aveva un aspetto terribile. E risentito, sebbene vagamente rassegnato.
«Ce l’ho io una cosa da dirvi.»
Hiko inarcò un sopracciglio.
«Se volevate tanto darmi una mano, non dovevate prendere Kenji come allievo. Sapevate benissimo come la penso.»
Ah, ecco.
C’erano arrivati, finalmente.
«Non vedo il problema.»
La sua faccia trasfigurò. «Non vedete―»
«Ha passato varie prove, cosa credi. Non l’ho accettato su due piedi. E’ del tutto capace di intendere e di volere, nonché mediocremente prodigioso.»
«Ha solo tredici anni!»
«A quattordici, tu hai deciso il tuo destino.»
Lui si fece cupo. «E’ proprio quello che mi spaventa. Kenji non è pronto, come non lo ero io. Non ha idea della situazione in cui si sta cacciando.»
«Parli proprio come se fosse il tuo doppio.»
«Potrebbe…»
«Piantala.»
«Piantarla? Mio figlio―»
«Smettila di scappare da Battosai. Alla tua età non hai ancora imparato che si affrontano, i problemi?»
Il ragazzo ― no, uomo ― che aveva cresciuto si raddrizzò, aggrottando le sopracciglia.
«Battosai? Io? No, qui non si tratta di me.»
«Sì invece.»
«…»
Seijuro alzò gli occhi al cielo, controllando che non vi fossero segnali di fumo.
«Siete stupidi entrambi, ma qui il problema principale è farti capire.»
«Facile sputar sentenze per chi non ha figli.»
«Hah. Ma io ce l’ho, un marmocchio.»
Vederlo trasecolare fu decisamente divertente.
«Cosa
«Non hai visto Okon con Kazuma?»
«La signorina Okon?»
«Signora, prego. L’ho sposata tre anni fa. Buffo, non trovi?» Kenshin sembrava troppo sconvolto per le congratulazioni. Forse era la mazzata finale. Hiko sospirò. «Ma non è questo il punto. Il punto è che il fatto che tuo figlio ti somigli non significa che sarà uguale a te.»
«Lo so che non è uguale a me. Io non ero così testardo.»
«Dici?» A un’occhiata del ragazzo ― uomo ― rispose con altrettanta austerità. «Ma, come al solito, manchi di vedere il problema principale. Qui non si tratta di decidere se il pargolo imparerà o meno l’Hiten, anche perché ormai è tardi, sa già quasi tutto. Si tratta di sapere se tu lo riprenderai così come l’hai fatto, oppure lo caccerai di casa, con ogni probabilità condannandolo.»
«Io non caccerò mai mio figlio di casa. Sono venuto qui a riprendermelo.»
«Non vorrà restare.»
Lo vide stringere convulsamente un pugno, poi voltare la testa verso l’interno del bosco.
Rafforzò i suoi propositi. Bisognava levargli di torno Battosai, ancora una volta.
«Senti, ascolta quel che ti dico: è un vecchio insegnamento di Seijuro Hiko XII.» Con l’occhio della mente rivide il maestro nei suoi giorni migliori. «Le persone sono tutte diverse. Le loro reazioni sono diverse. Nessuno potrà mai avere garanzie contro i rivolgimenti della fortuna, ma ciò che determina il risultato della azioni ed è in nostro potere sono l’intenzione e la preparazione. Tu avevi buone intenzioni, quando partisti per aiutare i samurai ambiziosi. Però eri mentalmente immaturo; e ti sei lasciato manipolare.»
Lo ascoltava, lo stupido allievo, con la stessa identica espressione di trent’anni prima ― concentrata e un po’ diffidente, solo un po’ più consumata.
«Tuo figlio ti somiglia, è vero. Ha buone intenzioni e un carattere avventato. Però ha anche capito qualcosa che tu non avevi appreso: che l’Hiten Mitsurugi non deve avere padroni, o sarà distorto.»
Kenshin riprese a camminare, facendosi strada fra rami e sterpi.
«Non farà i tuoi errori.»
«Mi state dicendo che dovrei lasciarlo continuare?»
«E’ cresciuto con te.»
«Non vuol dire.»
«Sa quello che pensi meglio di quanto tu creda ― anche se, da bravo figlio di padre stupido, su certi punti è più ignorante di una capra.» Alzò una mano. «Lasciami finire.»
«…»
«Sa quello che temi. Sai cos’ha detto a mia moglie, credendo che io non ci fossi?»
Kenshin accennò un preoccupato diniego.
«Che tu sei il suo punto d’arrivo.»
Lo vide impallidire.
«E che non sarà mai un nuovo Battosai.»
«Lui può esserne convinto, ma la vita―»
«Sta a te decidere. Nessuno conosce dove hai sbagliato, dove avresti potuto fermarti o fare marcia indietro meglio di te. Guidalo. Istruiscilo e insegnagli a pensare come tu pensi ora, evitandogli la strada per cui sei arrivato. Lasciarlo solo sarebbe un egregio errore.»
Il discorso aveva centrato il bersaglio.
Ah, stupido figlio.
Stava guardando la sakabato, a labbra strette.
«Non è quel che volevo per lui…»
«Il tuo pargolo è nato in tempo di pace e la porta nel cuore. Ha solo bisogno di fare le proprie scelte e sentirsi accettato. Tu dovresti saperne qualcosa.»

Istruiscilo e insegnagli a pensare come tu pensi ora, evitandogli la strada per la quale sei arrivato.
Dèi santi. Anche quello?
Doveva vedere anche quello, nella sua vita?
Permettere a Kenji di gettarsi nel mondo che lui aveva lasciato a fatica?
Nato in tempo di pace…
Però, rifletté, era vero che molte cose erano cambiate. Forse… forse era possibile. Forse, fra pochi anni, gli ultimi pericoli del kenjutsu sarebbero spariti, sostituiti da altri lontani e immateriali.
Riprese a camminare, deciso.
«Kenshin?»
Basta perdere tempo. Prima Shinta. Prima Shinta!
E poi, per Kenji―
Lo rivide sorridere, fare baccano coi fratelli e schernire Shinya, salvandolo intanto dall’ennesima caduta.
«Mai un nuovo Battosai.»
Alzò il viso.
«Mai un nuovo Battosai.»
Gli avrebbe creduto. «Ho capito.»
Il suo punto d’arrivo.
Si ritrovò suo malgrado a sorridere. «Lo guiderò.»
Avrebbe puntato tutto su quello, ironicamente proprio per non perderlo.
Nonostante non sia tranquillo… faremo questo viaggio insieme.
Sempre ― si ricordò, accelerando, sentendo il panico farsi strada (troppe cose, troppi guai uno sull’altro) ― che trovassero Shinta.
In quel momento avvertirono un boato.
Salirono in un punto più alto, dove gli alberi si aprivano.
E videro il fumo di un incendio.




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Proverbio: invece di soffocare i giovani, bisogna permettere loro di fare esperienze di vita.
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