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Autore: Locked    08/03/2015    4 recensioni
Questa FF partecipa al Glee Big Bang Italia.
"Perché essere anime gemelle significa molto di più che amarsi per tutta la vita."
Questo era esattamente il genere di frasi melense che Kurt Hummel avrebbe creduto di poter ritrovare nella carta spiegazzata di un cioccolatino di San Valentino - o in una versione arrangiata della proposta di matrimonio del proprio fidanzato Blaine Anderson, insomma.
Non avrebbe mai potuto immaginare quanta verità una simile frase potesse effettivamente nascondere.
Dal testo:
[Dopo una lotta – impari, a detta di Blaine – contro gli scatoloni ricolmi di vecchi oggetti inutilizzati che ‘continuano ad uscire fuori dal nulla, Kurt!’ la sua testa riccioluta riemerse dal ripostiglio con un vecchio lettore di videocassette nelle mani e una luce brillante negli occhi.
“Okay, Kurt, potresti spostarti? Non ho posto per sedermi.”
“Blaine.”
“Ho capito che non volevi alzarti, ma se per favore potresti scorrere—“
“Blaine quei due-- i due sullo schermo, siamo noi.”

"Oh mio Dio."]
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Un po' tutti | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note iniziali:
Ringrazio infinitamente Anna_Vik, Klaineintheheart e Hiriel77 per aver recensito lo scorso capitolo. U r adorable. <3
Ora, questa è forse una delle OS che ho preferito scrivere, anche se chi mi conosce sa quanto sia difficile per me scrivere cose vagamente smut :'), quindi sono curiosa di vedere cosa ne pensiate. **
E' liberamente (ma molto liberamente) ispirata a Moulin Rouge.
(Also, per il rating penso che il giallino possa ancora andare, ma se secondo voi devo aumentarlo ad arancione fatemelo sapere. Io sono una frana in queste cose. D:)


 
The boy who couldn't love

 
Non so nemmeno se sta seguendo questa storia, ma è stata la prima a leggere questa OS - e soprattutto è stata colei che l'ha ispirata.
Questa cosina è per te, Chiara. <3



Molti frequentavano il Moulin Rouge per sfogare i loro desideri carnali, lontani dagli occhi inquisitori dei propri mariti o delle proprie mogli, confidando che quella patina di fumo ed alcool fosse abbastanza da celare ogni azione deplorevole da loro commessa tra le tende pesanti e rossastre che ornavano le gallerie.
Alcuni lo frequentavano per dimenticare, persi nell’oblio dell’assenzio e del chiasso assordante della musica roboante, accanto a quattro o cinque bicchieri vuoti proprio come il posto di fronte al loro al proprio tavolino.
Altri per divertirsi, scatenandosi nelle danze confusionarie e colorate come le gonne variopinte delle giovani e brillanti donne sul palco.
Blaine Anderson lo frequentò per la prima volta per ritrovare la propria ispirazione.
Convinto da un esuberante compagno di disavventure – Sebastian Smythe, una persona, uomo o donna che fosse, diversa nel letto ogni notte e il fascino di chi sa di essere bramato – a smettere di fissare quella tela che sarebbe rimasta bianca per l’ennesima notte insonne e ad uscire dal loro minuscolo appartamento nel quartiere meno malfamato – tra i più malfamati – di Parigi, Blaine Anderson varcò la soglia del rinomato locale dalla struttura alquanto particolare con il timore nel cuore.
Blaine Anderson non amava la confusione, né l’alcool.
Amava il tepore di un fuocherello crepitante acceso nel minuscolo camino della loro abitazione, lui un foglio rigido e una matita in mano e Sebastian le corde di una chitarra scordata tra i polpastrelli. Amava le lunghe passeggiate snodate lungo la Senna, le luci delle stelle riflesse nell’acqua e il rumore parigino in sottofondo.
Per questo, quando entrò nel vortice di lussuria e sfrenatezza che costituiva il Moulin Rouge, il cuore gli si strinse in una morsa di inquietudine.
 
*
 
 “Blaine, tu vuoi dipingere?”
“Sì.”
“E allora bevi.” Sebastian gli spinse un bicchiere di uno sconosciuto liquido trasparente nelle mani e lo trascinò dove la confusione era più densa.
“Non vedo come la vodka possa —“
“Devi imparare a vivere, okay? Non hai dipinto nulla da tre mesi a questa parte. Nemmeno un misero schizzo col carboncino. Tenta, va bene? Magari hai solo bisogno di lasciarti andare. Che male potrà mai farti?”
A quel punto Blaine non aveva avuto più nulla da obiettare e aveva buttato giù in un unico bruciante sorso l’intero contenuto del bicchiere. Le sue palpebre svolazzarono per qualche istante, prima che una voce profonda rimbombasse per tutto il locale, annunciando qualcosa che sembrava essere straordinariamente importante e al tempo stesso troppo lontana per le sue orecchie.
Non che fosse di vitale importanza capire ciò che l’uomo dal busto fasciato di rosso e bianco avesse esclamato a gran voce, visto che la dimostrazione visiva avvenne esattamente qualche secondo più tardi.
Dalle quinte del gigantesco palcoscenico si librò una variopinta onda di gonne svolazzanti e di riccioli biondi, rossi e castani, mentre il centro esatto della scenografia si aprì, dividendosi in due, lasciando che le retine di Blaine assorbissero in loro l’immagine dell’essere più meraviglioso che avesse mai avuto il piacere di osservare.
Un boato invase il locale, rumoreggiando in ogni angolo, mentre il ragazzo avanzava sicuro e felino nel suo completo nero ed aderente, avvicinandosi al pubblico con aria superba. Ed era semplicemente perfetto: pelle candida, così dannatamente bella ed evidenziata dal colore scuro della camicia e dei pantaloni che gli fasciavano il corpo; capelli strategicamente disordinati in un’acconciatura attraente – perché anche le acconciature spettinate potevano essere attraenti, decisamente –; occhi brillanti che catturavano lo sfavillio delle luci sparse nel locale e lo facevano proprio, riflettendolo in ogni angolo.
Il ragazzo non aprì bocca per tutta la sera. Semplicemente danzò, le labbra intrappolate in un sorriso stupefacente e stordente, sebbene appena accennato; il corpo che si muoveva in un’armonia di braccia e gambe e pelle lasciata scoperta da movimenti improvvisi che gli occhi di Blaine si premuravano di non farsi sfuggire.
“Kurt Hummel, ventitré anni, ballerino professionista del Moulin Rouge da due, personificazione della parola sexy. E sarebbe carino se smettessi di sbavare sulle mie scarpe, grazie.” Blaine rifilò un’occhiata risentita a Sebastian, distogliendo per un misero istante gli occhi da quella figura longilinea che aveva iniziato a spogliarsi – letteralmente – sul palcoscenico.
E nonostante l'alcool gli circolasse prepotente nelle vene, Blaine fu tutt'un tratto consapevole.
Consapevole di dove effettivamente si trovasse, ad esempio. Consapevole di essere innegabilmente ed inesplicabilmente attratto da quella distesa di pelle bianca che aumentava ed aumentava, mentre quella camicia nera gli si drappeggiava sulle spalle, sugli avambracci, sui polsi, lungo i fianchi e poi sul pavimento traslucido. Consapevole che i propri occhi, sebbene momentaneamente distratti dal movimento fluido con cui Kurt si era sfilato le scarpe, rimanendo a piedi scalzi e risultando se possibile ancor più sensuale, erano immediatamente tornati a tracciare linee immaginarie lungo quegli addominali definiti ma non troppo, e poi su su su, fino al collo e ai sentieri tracciati dalle clavicole. Consapevole che il ragazzo si stesse avvicinando a lui, scendendo dal palco con grazia angelica e diabolica insieme, delineando un sentiero tra la folla di persone semplicemente camminando tra di loro. Raggiunse il centro del locale, tra lui e Blaine solo una manciata di metri vuoti, ed iniziò a ballare come poco prima, catturando col suo sorriso sghembo l’attenzione di ogni essere vivente presente nella sala e anche qualche battito cardiaco di Blaine.
 
*
 
Non avrebbe saputo dire come fosse successo, complice l’alcool che gl’intorpidiva i sensi, ma si ritrovò a correre, correre, correre, le dita di Kurt aggrovigliate alle sue, il ricordo di Sebastian che lo spingeva in avanti, contro tutta quella pelle perlacea ed eterea, e di un paio di braccia forti che gli si chiudevano attorno, stringendolo gentilmente ancora impresso nelle retine; e poi lui e Kurt stavano correndo per i corridoi sopraelevati del Moulin Rouge, ridendo come due bambini mentre scansavano le tende rossastre che ostacolavano loro il passaggio.
Ed era tutto chiaro, tutto scuro, tutto fumo, tutto veloce, e poi tutto luminoso. Finirono in una stanza ampia, decorata con ricchezza in ogni angolo, dalle coperte magnificamente ricamate e morbidamente appoggiate sul letto che troneggiava al centro della camera agli affreschi rosseggianti alle pareti, dal mobilio antico e pregiato alle candele accese sparse come lentiggini di luce in ogni angolo.
“Quindi … Blaine,” iniziò Kurt, la voce acuta e levigata. “Sebastian mi ha parlato di te.”
“Sebastian?” Le sopracciglia di Blaine saettarono in un arco.
“Sì, noi … Ci conosciamo.” Il ragazzo dagli occhi blu affondò con tutto il proprio peso nel letto, parlando una voce che aveva lenzuola stropicciate e sapore di proibito intrinseche nelle vibrazioni. Si aggiustò a sedere, incanalando la forza nelle braccia e puntando le mani nelle coperte soffici, il busto inclinato all’indietro. “Quindi,” continuò, premurandosi di ignorare l’espressione sorpresa negli occhi brillanti dell’altro. “Hai perso l’ispirazione,” constatò.
Blaine annuì, preso alla sprovvista dalla limpidezza di quelle iridi, improvvisamente più vigile; sapeva quale fosse il lavoro di Kurt – e perché diavolo era così facile chiamarlo Kurt? –, non era opportuno prendersi una cotta per un paio di occhi azzurri. Proprio no.
“E … pensi che potrei aiutarti a ritrovarla?” Questa volta Blaine deglutì, ingoiando a fatica la saliva sotto quel sorriso furbo ed ammiccante. Sentì il desiderio crescergli nelle vene, prepotente ed implacabile, e risalirgli il corpo, bruciandogli sotto la pelle in maniera costante e bellissima.
“Io … Sì.” Deglutì di nuovo, poi spalancò gli occhi. “Potrei disegnarti?” Uscì fuori come una domanda, anche se non aveva l’intenzione di esserlo.
Kurt arcuò le sopracciglia con grazia innata e celestiale, ma non proferì parola; allacciò semplicemente i loro sguardi insieme, raddrizzando la schiena in una linea retta e portando le mani in avanti. Agganciò le dita al bottone dei pantaloni, slacciandolo velocemente.
Gli occhi di Blaine si fissarono su di lui, ancora più grandi così spalancati ed increduli – e pieni di qualcosa abbastanza riconducibile a fame. Kurt ghignò, liberandosi dei pantaloni scuri con un gesto fluido e calibrato, incurante di dove quella breve parabola che avevano descritto nell'aria li avesse lasciati accasciare.
Infilò i pollici sotto lo strato sottile della biancheria grigia, che gli fasciava quelle poche parti del corpo ancora celate alla penombra della camera da letto, ed inarcò un sopracciglio in una muta domanda.
Blaine deglutì – perché c'era così tanta pelle pallida esposta e bella in modo sfacciato, da rendergli complicato il concentrarsi su qualcosa che non fosse muscoli delle cosce e caviglie sottili e pelle. Tanta pelle.
Sollevò lo sguardo che non si era accorto di aver lasciato cadere e – richiamando a sé ogni singola fibra di autocontrollo rimasta nel proprio corpo – scosse la testa, sollevando appena un angolino delle labbra.
"No, io ... Va bene così." Se quella scintilla negli occhi di Kurt era stata di disappunto, aveva saputo nasconderla bene.
 
*
 
"Quindi tu ... Dipingi." Avevano arrangiato un foglio spesso per Blaine – non era stato necessario cercare una matita, lui ne teneva sempre una in tasca – e spostato un tavolino e una sedia davanti al letto su cui Kurt era semi-sdraiato: il peso poggiato sui gomiti affondati nel materasso, i muscoli dell'addome tesi ed invitanti, le gambe dischiuse e piegate, una abbandonata sulle coperte e il tallone dell'altra puntato sul letto.
Bello da far rabbia.
Blaine gli disegnava le caviglie, il volto rilassato ma attento, gli occhi saettanti da quel corpo tonico disteso davanti a lui al foglio bianco che richiedeva attenzioni.
"Disegno, principalmente," puntualizzò, l'ombra di un sorriso a decorargli lo sguardo.
"Mh," fece l'altro. "È il tuo lavoro?"
"Oh, be' ... Vorrei che lo fosse. Ho sempre venduto i miei lavori, fin da quando ne ho memoria, perché la mia famiglia non voleva che perdessi tempo dietro a qualcosa di inutile, e non potevo portare a casa i miei disegni. Quindi ... li vendevo e con i soldi compravo nuovi colori o matite o tele." Distolse lo sguardo dal foglio per fissarlo in quello di Kurt, improvvisamente consapevole di ciò che aveva appena rivelato a un semi-sconosciuto. Di quanto si fosse esposto, quanto gli aveva permesso di scavare in lui.
Decise che era meglio ignorare l'occhiata che l'altro gli stava rivolgendo - così piena di ammirazione e comprensione da far male al cuore - e abbandonò la propria attenzione alle caviglie affusolate che prendevano vita dal suo disegno.
"Sono scappato di casa, dall'America. E ora sono qui," sussurrò. Piano, ma abbastanza da essere sentito attraverso il velo di silenzio che ricopriva la stanza, leggero come polvere di neve.
 
*
 
"E tu?" Il silenzio si era fatto spazio tra di loro, dopo quella confessione fin troppo intima sfuggita dalle labbra di Blaine, risucchiando ogni parola non detta e ogni pensiero troppo rumoroso.
Ma ora il ragazzo dagli occhi ambrati, ancor più lucidi e brillanti sotto il bagliore scintillante delle candele, aveva deciso che voleva sapere, che doveva sapere. Perché Sebastian lo aveva praticamente lasciato solo nelle braccia di uno sconosciuto – un bellissimo sconosciuto, puntualizzava costantemente il suo cervello, ma quello era un altro discorso – e che diavolo!, ne aveva il diritto, no?
Quindi scostò lo sguardo dalla figura drappeggiata sul letto, rivolgendolo al proprio disegno e alle linee accartocciate che disegnavano le ginocchia arrotondate. "Tu ... Cosa fai?"
"Blaine, tu sai cosa faccio. Per vivere, intendo." E okay, forse la domanda non era stata quella più giusta o quella più delicata, e forse Blaine se ne era accorto tardi, ma a giudicare dal suo tono di voce Kurt non si era offeso. Sembrava consapevole; dolce a tratti. Blaine lasciò che le proprie palpebre svolazzassero un paio di volte, le ciglia lunghe e scure che sfioravano le guance morbide e arrossate – dallo sforzo o dal calore che gli fluttuava sottopelle, non avrebbe saputo dirlo –, prima di sollevare il capo e incontrare le iridi azzurre, così azzurre di Kurt.
Iridi che sembravano sussurrare e gridare e bisbigliare e urlare che è okay, va tutto bene, lo so.
"Io non — Non intendevo quello. Voglio dire ... Tu. La tua vita. Chi sei? Cosa ti piace? Parlami di te. Se vuoi?" Gesticolò mollemente, la matita ancora intrappolata nella stretta della sua mano destra e uno strano rossore – stavolta avrebbe potuto giurare che lo sforzo del disegno non c'entrasse proprio nulla – ad invadergli le guance.
Kurt l'osservò incuriosito per qualche istante; si sistemò meglio sulle proprie braccia, attento a non muoversi troppo, ed iniziò a parlare. "Sono nato in America anch'io. Mi trasferii qui con mio padre, alla morte di mia madre." La voce gli s'incrinò appena, ma continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, le labbra che si sfioravano impercettibilmente mentre parlava. "Avevo solo otto anni, sai. Parigi era gigantesca, un sogno troppo grande persino per le fantasie di un bambino. E crescendo scoprii che era anche più ... Aperta. Ad accettare le mie inclinazioni, diciamo." Ammiccò velocemente alle guance imporporate di Blaine. "Ma poi morì anche mio padre, qualche giorno dopo il mio sedicesimo compleanno, ed è paradossale vedere una città così grande diventare soffocante, quando non hai nessuno se non te stesso. Il gestore del Moulin Rouge conosceva mio padre; decise che aiutarmi sarebbe stata una buona azione, quella con cui avrebbe cancellato – o quanto meno nascosto – l'infinita lista delle sue azioni meno buone, e mi offrì il lavoro. E ... Be' eccomi qua."
Blaine aveva smesso di disegnare, completamente rapito dalle ciglia di Kurt che sbattevano placide, celando e scoprendo l'universo nei suoi occhi, e da come - forse - non fosse stato il solo ad aprirsi così tanto, nel calore di quella stanza che sapeva tremendamente di lenzuola stropicciate e sudore di sconosciuti spariti troppo in fretta.
"E non c'è nessuno, nella tua vita? Adesso?" E sì, decisamente il tatto non era la specialità di Blaine.
"No. No, è— È ovvio. No." Kurt scosse la testa di scatto. "Blaine, io non posso amare."
Blaine parve non riuscire a controllare il piccolo sorriso ingenuo e divertito che giocherellò con gli angoli delle sue labbra. "Kurt, non essere sciocco. Tutti sanno amare, tutti possono farlo."
"Non quelli come me; non sempre saper fare qualcosa significa poterla fare. Non tutti sono liberi di amare."
 
*
 
Blaine aveva aperto la bocca, poi l'aveva richiusa. Aveva provato così tante cose tutte insieme da non aver idea di cosa gli stesse in realtà aggrovigliando lo stomaco, poi era tornato a disegnare.
E tutto sarebbe rimasto completamente avvolto nel rumore ovattato delle musiche del Moulin Rouge, se le sue dannate guance non avessero deciso di prendere fuoco – letteralmente – alla vista di cosa stava disegnando. Ed era ridicolo. Completamente e assolutamente ridicolo, visto che hai già fatto cose del genere, Blaine. Te le ricordi quelle modelle che hanno acconsentito a posare per te lo scorso anno? Quelle erano nude, e Kurt non lo è. Quindi, per favore —
"Blaine, stai arrossendo? Voglio dire, più del solito?" ridacchiò l'altro, scrutandolo da sotto le sopracciglia inarcate come ali di gabbiano.
"Uhm." Oh, ti prego. Digli qualcosa di intelligente.
"Non dirmi che non hai mai disegnato—"
"No! Io- Sì. Voglio dire, ho già disegnato persone vestite come te," Oh mio Dio, "o meno di te, ma—" Non è possibile.
"Blaine?" Smise di gesticolare – e di rendersi ridicolo –, e si voltò verso un Kurt palesemente divertito.
"Mmh?"
"Respira."
Blaine lo guardò stranito per un attimo, per poi rilassarsi contro lo schienale della sedia ed aprirsi in un sorriso tremulo. "È che ..." iniziò. "Non sono mai stato il ragazzo di nessuno." La voce sfumò pian piano, dissolvendosi nella tensione che la stanza aveva lentamente accumulato.
"Nemmeno io." Rispose candidamente Kurt, scoprendo i denti in un sorriso sincero – e molto più grande di quelli che gli aveva regalato fino a quel momento.
"Non in quel senso, Kurt," mugugnò, affondando il viso nei palmi delle mani ed incastrando la matita in un intreccio complicato tra l'attaccatura del naso e le scanalature delle dita. "Io non sono mai stato con nessuno."
"E questo dovrebbe essere un problema perché ...?" All'occhiata confusa che Blaine gli rivolse, parzialmente nascosto dalle proprie mani, Kurt sbuffò.
"Blaine, non è sempre vero che per essere un bravo artista devi aver vissuto. Non si diventa bravi attori che interpretano criminali, uccidendo qualcuno. Non è necessario aver amato, per descrivere l'amore. Non serve morire, per rappresentare la morte," offrì con un piccolo sorriso.
E forse, forse, a quel punto, Blaine avrebbe potuto dare un nome al sentimento che gli aggrovigliava il respiro e gli accelerava i battiti cardiaci contro la gabbia toracica.
 
*
 
Rimasero in silenzio, poi. Blaine che assimilava e Kurt che ascoltava il fruscio tremolante della matita sul foglio ruvido. Ed era sembrato così naturale – familiare, quasi – tracciare i contorni e i chiaroscuri del corpo del ragazzo dagli occhi azzurri – il ragazzo che non poteva amare – da risultare ... Be', Blaine avrebbe voluto poter dire 'strano', ma la verità era che non lo era affatto. Era tutto così semplice da togliere il respiro, e tutto così complicato da farlo incastrare nella gola.
Blaine cancellò la curva che dalle clavicole pronunciate aveva tracciato all'insù, fino a congiungersi con una lieve linea di matita che accennava il mento.
Provò a disegnarla di nuovo; poi la guardò corrucciato e la cancellò con un colpo di gomma deciso, sbuffando. Si stropicciò un occhio confuso, perché no, quelle cose non gli succedevano mai. Ogni volta che iniziava un disegno lo portava a termine senza mai bloccarsi. Era sempre stato così, il difficile era iniziare. Sentì lo sguardo incuriosito di Kurt bruciargli contro la pelle accartocciata della fronte ed alzò gli occhi per incontrare i suoi, colorati di confusione.
“Cosa c’è che non va?” Blaine si mordicchiò il labbro inferiore, riponendo la matita sul tavolino e scacciando via della polvere invisibile dal foglio.
“Nulla, io—Uhm, non … Non riesco ad andare avanti.” Kurt gli rivolse un sorriso dolce, poi lanciò un’occhiata veloce al proprio corpo. “Posso spostarmi?”
Blaine annuì, sorridendogli in risposta, la tensione che gli fasciava le spalle che si scioglieva lentamente, come neve al primo sole mattutino. Kurt si alzò, stiracchiandosi lentamente, arcuando la schiena in una mezzaluna appena accennata e mettendo in risalto la pelle baluginante che rivestiva ogni suo singolo ed agile muscolo. E sul serio, Blaine aveva dovuto ricorrere ad ogni fibra del proprio autocontrollo per non lasciar scivolare il suo sguardo su quella distesa perlacea e soffice e bellissima.
Come se non avesse trascorso le precedenti due ore a scandagliare ogni curva e ogni angolo del suo corpo, scavando a fondo tra le scanalature appena accennate della gabbia toracica, indugiando sulla curva morbida dei fianchi, catturando ognuna delle sue lentiggini, sparse lungo il suo corpo come stelle in una galassia.
E improvvisamente Kurt era vicino, incredibilmente vicino, troppo vicino, e gli circondava la guancia con una mano e le dita con l’altra, azzerando progressivamente la distanza tra i loro visi, tra i loro occhi. Tra le loro labbra.
“Fermami, se non vuoi che vada avanti,” bisbigliò, una volta che i loro sguardi erano così vicini e così intrecciati da non poter distinguere dove iniziasse il tramonto e dove finisse l’oceano – nessun orizzonte a dividerli.
Blaine percepì distintamente diverse cose, in quel minuscolo, infinitesimale istante. Percepì il respiro di Kurt, soffice e alla menta, sulle proprie labbra. Percepì il proprio cuore pulsare scompostamente contro le costole in un’aritmia meravigliosa. Percepì la gravità spostarsi verso Kurt, Kurt Kurt Kurt.
Fu quasi automatico, chiudere gli occhi e pressare le loro labbra assieme, permettendosi di assaporare completamente e totalmente quell’istante. Sentì le labbra pizzicare, dove incontrarono il tocco ancora lieve di quelle di Kurt, e le dischiuse lentamente, accarezzandole con una naturalezza che non sapeva di possedere. E se c’era qualcosa che quel giorno Blaine Anderson aveva capito, seduto su una seggiola di legno un po’ scomoda e con la polvere grigiastra di una matita stemperata ancora incastrata sotto le unghie, era che baciare Kurt Hummel, chinato su di lui in una posa forse un po’ goffa e coi muscoli intorpiditi dall’immobilità di quelle poche, splendide ore, era bellissimo.
E stordente, e gentile, e prezioso. E meraviglioso, e dolce, e surreale. Ma questi erano aggettivi che Blaine pensò dopo. Dopo che tutto ciò che avevano vissuto quella notte era stato condiviso e consumato tra quelle quattro mura e quei sospiri invitanti. Semplicemente dopo. Perché tutto ciò che in quell’istante era riuscito a capire era che si stavano muovendo, aggrappati l’uno all’altro, contro al tavolino e poi in mezzo alla stanza e ancora contro il bordo del letto e sulle coperte ed erano l’uno sull’altro, l’uno attorno all’altro. Ovunque.
Si liberarono dei vestiti – di quei pochi rimasti a Kurt e dei troppi stratificati su Blaine – come ci si libera della sete, avventandosi l’uno sull’altro con voracità e delicatezza allo stesso tempo. Vestito solo di pelle d’oca, Blaine chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dall’armoniosa sensazione delle dita di Kurt sulle tempie, morbide e carezzevoli lungo la curva degli zigomi, e giù, su quella della mascella. Tremò, quando le sue mani gli disegnarono un percorso sconnesso dalla curva del collo all’attaccatura delle clavicole sottili, aggrappandosi ai bicipiti muscolosi e tonici per spargere piccoli e dolci baci lungo la distesa olivastra del suo addome.
E in quella notte buia e stellata, che già volgeva ai colori rosei dell’alba dietro le tende pesanti che celavano le finestre, Blaine si perse e si ritrovò milioni di volte: in quegli occhi del colore dell’oceano in tempesta, nella magia del contrasto tra la propria pelle scura e il candore di quella di Kurt, in ogni sospiro e sussurro caldo che avessero lasciato volatilizzarsi tra loro.
 
*
 
Blaine si risvegliò con il profumo della notte precedente nelle narici. Inspirò prepotentemente nel cuscino, beandosi nel torpore avvolto attorno ai suoi muscoli, stropicciando gli occhi con la mano accartocciata a pugno. Lasciò spaziare il braccio nell’altra metà del letto, trovandolo freddo. Freddo e vuoto. Si mosse di scatto, gli addominali che si contraevano velocemente mentre si metteva a sedere sul materasso bianco; districò le caviglie dal groviglio informe di coperte e lenzuola accatastate ai piedi del letto, percependo le guance riempirsi di un calore tutto nuovo e l’ombra di un sorriso impigliarsi all’angolo della bocca.
Scandagliò l’intera stanza, senza trovare la forza di accettare la mancanza di Kurt, KurtKurtKurt, ancora vivo e impresso a fuoco in ogni particella della sua memoria, delle sue iridi e della sua pelle, e fu allora che notò un piccolo foglietto, ripiegato a metà ed abbandonato sul tavolino.
Costrinse prepotentemente i propri muscoli ancora intorpiditi a scattare, avventandosi sul pezzetto di carta con l’ansia che gli cresceva nello stomaco, allargandosi e dilatandosi velocemente, e i battiti cardiaci gli rimbombavano in gola. Prese un respiro profondo e spiegò il biglietto.
Caro Blaine,
vorrei poterti dire che non ci rivedremo mai più, perché ciò che abbiamo condiviso la scorsa notte è stato così grande e così potente da farmi paura e togliermi il respiro. Vorrei poterti dire di dimenticarti il mio nome, di dimenticarti di noi, di dimenticarti di me e bla, bla, bla, ma non sono esattamente il tipo da queste cose. Paradossale, eh?
La verità è che non voglio. La verità è che forse sbagliavo, quando dicevo di non poter amare, forse sono solo parole dettate dalla forza dell’abitudine. O forse tu sei semplicemente diverso dagli altri.
Quindi sì, Blaine Anderson, ci rivedremo. A meno che tu non voglia. Allora la scelta la lascio a te. Tu hai Sebastian, lui ti dirà dove trovarmi, se vorrai trovarmi. E … potresti anche finire quel disegno? Sei davvero bravo, sembro molto più bello di quanto io non lo sia in realtà.
Tuo,
Kurt.
 
Blaine dovette forzare ogni singolo muscolo del proprio corpo, per impedirsi di stringere la lettera forte al cuore, stirare le labbra in un sorriso stralunato come una tredicenne alla prima cotta, e cominciare a saltellare in giro per la stanza che ancora profumava di vissuto – e perché no? Forse anche di amore. Il suo cuore si cimentò in una capriola all'indietro abbastanza complicata anche solo al pensiero. –, gli occhi brillanti, pieni di una luce nuova ed abbagliante.
Si mordicchiò il labbro inferiore, invece, scegliendo di ignorare i piccoli cristalli di lacrime di gioia che gli si impigliavano tra le ciglia, e ripiegò accuratamente il foglietto. Raccolse la giacca da terra, senza potersi impedire di ricordare come fosse effettivamente finita lì – non che avesse ricordi esattamente dettagliati, riguardo i propri vestiti, ma comunque –, ed arrossendo appena mentre s'infilava la biancheria – anch'essa abbandonata sul pavimento. Strattonò i pantaloni su per le cosce con una mossa brusca, per poi infilare il foglietto in tasca e sollevare lo sguardo.
Sobbalzò impercettibilmente, nel ritrovare la propria immagine riflessa nel piccolo specchio appeso sopra al grande mobile antico addossato alla parete. Era incredibile quanto il cambiamento della sera precedente fosse percepibile attraverso i suoi stessi lineamenti. Una porzione del collo – appena visibile, proprio vicina alla clavicola destra scoperta dai vestiti – appena arrossata e formicolante, bruciava ancora del sapore delle labbra di Kurt; i capelli arricciati e scompigliati, liberati dalle sue dita sottili dalla solita pettinatura così rigida da sembrare una prigione; e gli occhi. Gli occhi sorridevano, letteralmente: l'ambra così brillante da bruciare intensa nelle iridi.
Improvvisamente si sentì ... Completo. Come se il pezzo mancante del puzzle del proprio cuore fosse finalmente scivolato al proprio posto, incastrandosi alla perfezione con tutti gli altri. Scosse leggermente la testa, prima di avvicinarsi alla porta di legno con cautela, raccogliendo con sé il disegno e la matita, mentre passava.
Si voltò appena, proprio un istante prima di lasciarsi i ricordi e i baci e le carezze e il calore della notte precedente alle spalle con un tonfo del portone, e lanciò un'occhiata quasi reverenziale a quelle quattro mura pallide che avrebbero custodito così tanto di lui – e così tanto di loro, forse.
Poi sorrise e fece scattare la serratura, incamminandosi lentamente per i corridoi vuoti e rossastri del Moulin Rouge.

 
"Bl— mmh. Blaine, per favore. No, no. Forse dovresti mettere in pausa la videocassett— ah. Okay. Blaine. Scendi. Non ho intenzione di fare nulla, con il mio pigiama preferito addosso. Via."
"Ma Kuuuurt!"
"No. Vuoi guardare la televisione o no?"
"Perché improvvisamente sembri molto più a tuo agio, con questa storia della videocassetta? Sbaglio o ne eri terrorizzato, fino a poco fa?"
"E lo sono ancora. Totalmente. Questa cosa è folle e noi stiamo avendo le allucinazioni perché nella pizza che mi hai costretto a mangiare ieri sera c'era qualcosa di strano. Però ..."
"Però?"
"La tua faccia quando il ... me nello schermo si è tolto la camicia e i pantaloni è stata impagabil— ahia!"
"Questa è la vendetta per le cuscinate di prima. No! Kur— mpfh. Sei— mmh— sleale quando— mi baci così— mpfh."










 
Note:

Soooo ...? Well, spero vi sia piaciuta! As always, Pagina FB e LINK a Our Little Infinite, la mia altra long!
Ne approfitto per chiedervi ... Cosa ne pensereste voi di una When Harry Met Sally!Klaine? Perché ... uhm. Potrei star pensando di scriverla. *w*
   
 
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