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Autore: frances bruise    08/03/2015    0 recensioni
DAL PROLOGO:
Vergognandosi del sangue che scorreva già nelle vene della creatura, sangue sporco, macchiato dal sangue babbano di Tom Riddle, Merope abbandonò anch’ella la casa di suo padre e fuggì. Fuggì lontano e si costrinse ad una vita di miseria.
Fino a quando, un giorno, non diede finalmente alla luce il frutto dell’amore, seppur impuro, tra lei e Tom Riddle.
Un bambino, un maschio, già bello come il padre.
Merope, in punto di morte, chiamò il bambino come suo padre e suo nonno.
Tom Marvolo Riddle.

***
Fanfiction ambientata durante il V anno a Hogwarts di Tom M. Riddle, che un giorno sarebbe stato chiamato Lord Voldemort.
Il mio più grande desiderio, in qualità di pseudo-scrittrice, era analizzare il punto di vista di un personaggio chiave nel mondo di Harry Potter, ma - di fatto - privo di una vera e propria voce in capitolo.
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Abraxas Malfoy, Charlus Potter, Tom O. Riddle, Tom Riddle/Voldermort, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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PROLOGO
 
 
In tutta Little Hangleton, non sarebbe mai esistito un giovane più bello di Thomas Riddle.
Membro della famiglia più ricca del piccolo villaggio, Thomas – detto Tom – era ammirato da tutti non solo per la sua innegabile bellezza, ma per la fierezza del suo portamento, per il suo atteggiamento perennemente cortese e, soprattutto, per il suo sorriso che – a detta di tutti – avrebbe potuto rischiarare anche le giornate più nere.
Come fosse possibile che tutta la bellezza del mondo si fosse concentrata su quell’essere umano ancora così giovane, nessuno poteva saperlo; ma, riflettendoci bene, non importava proprio a nessuno. La bellezza di Tom avrebbe potuto essere comparata alle stelle del cielo: esse esistevano, ma nessuno osava chiedersi perché si trovassero proprio nel cielo, o quale fosse la loro funzione nel Creato.
Tom era bello, così come Tizio avrebbe potuto essere coraggioso, Caio atletico e Sempronio cortese.
Ma, proprio come un orribile neo peloso su un volto meraviglioso, anche Tom aveva un difetto; un difetto che si curava di non mostrare troppo agli altri: a volte, da quelle labbra rosee, uscivano parole terribili e – crudele, in effetti – tutte rivolte ad una persona in particolare. Il suo nome era Merope ed era la figlia di Marvolo Gaunt, un uomo alquanto misterioso ed inviso non solo alla famiglia di Tom, ma a tutta la comunità.
Marvolo Gaunt e i suoi due figli, Orfin e Merope, non venivano mai a contatto con la gente di Little Hangleton. Si sarebbe quasi detto che il signor Gaunt non apprezzasse la compagnia di quelle persone, da lui definite rozze, oppure con un altro termine sconosciuto alla gente del posto: babbani.
Qualunque cosa avesse voluto dire con quel termine, la gente del posto ricambiava la sua antipatia e gli stava alla larga. Da lui e dai suoi figli, in particolare da Merope, la figlia minore, che si sarebbe potuta definire un vero e proprio scherzo della natura.
Tom, in particolare, a malapena riusciva a sopportare la vista di quell’essere che mai e poi mai avrebbe osato chiamare “donna” o “ragazza”: ai suoi occhi così belli quella Merope era così brutta, da non essere degna delle sue attenzioni.
E non mancava di rivolgerle parole sprezzanti, quando – durante le sue passeggiate a cavallo – passava davanti all’abitazione dei Gaunt ed era costretto a vederla nel giardino frontale, talmente brutta da far venire i brividi, tutta rannicchiata su se stessa come per volersi proteggere da un mondo a lei ostile. « Ho sentito in giro che tua madre è morta poco tempo dopo averti messa al mondo » le disse un giorno, il volto bellissimo illuminato dai raggi del sole, « Povera, non deve aver retto la visione della tua faccia! »
Al ché, alle orecchie della giovane Merope giunse una risata crudele, ma che al suo cuore perdutamente innamorato sembrò la risata più bella del mondo. E in nessun modo Merope tentò di reagire alle cattiverie che Tom Riddle le rivolgeva ogni volta che, col suo cavallo, le passava davanti e le faceva sentire il peso del suo sguardo disgustato.
La giovane Gaunt era talmente innamorata di Tom, un po’ come tutti, che gli avrebbe permesso qualsiasi cosa, qualunque cattiveria; sarebbe stata felice di essere oggetto del suo scherno, perché – pure per schernirla – Tom avrebbe dovuto concederle un minimo di attenzione.
 
Se però Tom avesse saputo che le sue parole erano miele rispetto a ciò che Merope era costretta a sopportare tutti i giorni, molto probabilmente avrebbe provato un minimo di pietà nei confronti di quell’essere.
Perché, oltre ad essere disprezzata dal giovane Riddle, Merope era disprezzata anche dal suo stesso padre, Marvolo, che non la riteneva allo stesso livello di suo fratello, Orfin.
La famiglia Gaunt era invisa alla gente di Little Hangleton, ma per un buon motivo: ciò che veniva scambiato per stranezza era, in realtà, qualcosa che nessuno di quegli uomini che vivevano a Little Hangleton avrebbe potuto capire; nessuno di quei babbani avrebbe potuto apprezzare una cosa come la Magia, perché i più credevano che essa non esistesse o che, comunque, fosse cosa da bambini.
Ma la Magia, per la famiglia Gaunt, esisteva. Ed esisteva eccome!
La famiglia Gaunt aveva prodotto una stipe di sangue magico purissimo, di cui sia Marvolo, sia Orfin, sia Merope facevano parte. E, per alcuni maghi, la stirpe pura era così importante, che sposavano solo altri purosangue. Come Marvolo che, per non rischiare di contaminare il proprio sangue magico, aveva sposato sua cugina di primo grado, dando vita prima a Orfin e poi, con suo grande disappunto, a Merope.
Merope che era infinitamente più debole di suo fratello Orfin e che, per questo motivo, veniva tanto disprezzata da suo padre, fanatico della “razza pura” e della sua forza. Merope che, con la sua nascita, aveva causato la morte di sua madre. Merope che era sempre oppressa da suo padre e da suo fratello, al punto che non aveva mai dimostrato di essere in possesso di poteri magici.
Merope che era una Maganò.
E, infine, Merope che era innamorata del babbano Tom Riddle e non ricambiata.
Per tanti anni, quell’essere disprezzato aveva accettato lo stato delle cose: per anni, aveva sopportato lo scherno di suo padre, la superiorità di suo fratello, quel sorriso disgustato sul volto di Tom Riddle.
Ma venne finalmente il giorno in cui decise di prendere pieno possesso della propria vita.
 
Come prevedibile, Merope dovette aspettare che suo padre e suo fratello si levassero dai piedi, prima di potersi imporre su di loro. All’inizio, questa eventualità era alquanto impossibile, così la giovane continuò a farsi torturare dai due e da Tom Riddle, che ancora continuava a fare le sue passeggiate a cavallo proprio davanti all’abitazione dei Gaunt e che non le risparmiava di certo le solite cattiverie.
Ma, quando tanto Marvolo Gaunt che Orfin furono confinati nella prigione magica di Azkaban, Merope decise di porre fine a quella tortura. Senza suo fratello e suo padre, era lei la padrona della loro casa a Little Hangleton ed era libera di manifestare i poteri sepolti sotto tutte le oppressioni che aveva subìto per tanti anni.
Proprio come se considerasse tutto ciò una sorta di riscatto nei confronti della vita che aveva vissuto per tanti anni, Merope desiderò sottomettere anche il giovane Tom Riddle sotto il potere che aveva scoperto di possedere; e si ritrovò a cercare un metodo per poter mettere in atto il proprio piano.
Dato che mai e poi mai il giovane Riddle si sarebbe innamorato di lei per via del suo aspetto, Merope pensò che ricorrere alla magia non avrebbe causato alcun danno e che, anzi, l’avrebbe aiutata ad ottenere ciò che per tanto tempo aveva desiderato: l’amore di Tom Riddle, il ragazzo più desiderato di Little Hangleton.
In uno dei libri custoditi nella biblioteca della casa di suo padre, Merope scoprì l’Amortentia, l’unico filtro magico in grado di far innamorare anche il più cocciuto dei muli.
Con un pretesto, Merope fece bere la pozione al giovane Riddle, che – inspiegabilmente – abbandonò la sua compagna, Cecilia, e si innamorò perdutamente proprio della ragazza che aveva suscitato il suo disgusto per tutti quegli anni.
E, sotto gli occhi increduli dei suoi genitori, Tom sposò Merope ed andò a vivere con lei nella casa di Marvolo Gaunt, dove – sotto l’effetto dell’Amortentia – non mise mai in dubbio il suo amore nei confronti della moglie.
O, almeno, non lo fece fino al momento in cui Merope, illusasi di essere finalmente riuscita a far innamorare Riddle – per davvero, però – smise di somministrargli il filtro d’amore. Allora era già incinta del loro primo figlio, ma ciò non bastò a destare la pietà del babbano Tom Riddle, che – ripresosi dall’incanto – la abbandonò. Anzi, li abbandonò: Merope e la creatura che portava in grembo.
Vergognandosi del sangue che scorreva già nelle vene della creatura, sangue sporco, macchiato dal sangue babbano di Tom Riddle, Merope abbandonò anch’ella la casa di suo padre e fuggì. Fuggì lontano e si costrinse ad una vita di miseria.
Fino a quando, un giorno, non diede finalmente alla luce il frutto dell’amore, seppur impuro, tra lei e Tom Riddle.
Un bambino, un maschio, già bello come il padre.
Merope, in punto di morte, chiamò il bambino come suo padre e suo nonno.
 
Tom Marvolo Riddle.
 
 
***
 
« Tom, vieni qui immediatamente! »
 
Un bambino dai capelli neri sedeva in silenzio su un’altalena.
Circondato da una natura sterile, tutta ingiallita dal sole e dalla mancanza di attenzioni da parte dell’uomo, ascoltava il cigolio dei perni in ferro che reggevano il sedile in legno tarlato e infradiciato dal tempo e dalla pioggia dei mesi passati.
Stare seduto in silenzio su quell’altalena, senza nemmeno dondolarsi, era una sua abitudine: c’erano altri bambini nel giardino, di solito, ma Tom – questo era il suo nome – non dava loro confidenza; e loro, di rimando, non si curavano di lui, anzi! Lo evitavano.
Quale fosse il motivo per cui lo evitavano, Tom poteva facilmente immaginarlo. Del resto, nessuno – nemmeno la direttrice dell’istituto, l’orfanotrofio in cui viveva da undici anni – gli aveva mai nascosto quanto tutti lo trovassero strano, anormale rispetto a tutti gli altri bambini. E nemmeno Tom osava più contraddirli, a quel punto, perché aveva scoperto – con suo profondo stupore – che, ogni volta che si arrabbiava con qualcuno, accedevano le cose peggiori. Eventi che nemmeno Tom poteva controllare, o spiegarsi; ma che gli davano una certa soddisfazione: straordinario il fatto che la direttrice urtava contro un mobile, oppure prendeva una storta sulle scale, proprio ogni volta che faceva arrabbiare Tom con tutti i suoi rimproveri. Straordinario, per davvero, agli occhi di quel bambino che non era mai stato amato da nessuno.
Quel giorno, mentre se ne stava seduto sull’altalena, non tirava un filo di vento. Eppure la voce della signorina Morgan, la cuoca, gli giunse forte e chiara. Tom alzò lo sguardo dalla punta delle proprie scarpe consumate e lo rivolse alla donna corpulenta appoggiata allo stipite della porta che dava sul giardino; e non poté fare a meno di notare una strana ombra su quel volto che, di solito, era piuttosto inespressivo. La signorina Morgan, chiamata Morgana dagli altri bambini perché ricordava loro una brutta strega grassoccia, era esattamente quel tipo di persona che non prendeva mai una posizione; o almeno non quando non si trattava di prendere a mestolate i bambini che sedevano scomposti a tavola. Sembrava proprio che fosse solo una macchina fatta apposta per intervenire solo per picchiare i bambini. Per il resto, era brutta ed inespressiva.
Per questo Tom, che più di tutti notava i particolari, si stupì di vedere quella strana ombra sul suo volto. Si alzò dal sedile dell’altalena e si incamminò a passo strascicato verso la donna, che – nel vederlo avvicinarsi – gli lasciò il giusto spazio perché potesse entrare senza urtarla. « Vedi di muoverti, Tom » gli disse, però, « La direttrice ti sta aspettando nel suo ufficio. »
Sembrò che volesse lasciarlo andare, ma – quando Tom era già sulla scale – sul suo volto comparve un orribile ghigno. « Spero per te che tu non abbia combinato qualche guaio, mio caro. La direttrice non aspetta altro per sbatterti fuori da questo posto e mandarti a vivere di stenti sotto un ponte. »
Tom rimase fermo sulle scale a rimirare quel ghigno malefico su quel volto grasso e brutto. Avvertiva dentro di sé una grande rabbia, del tutto pronta ad esplodere da un momento all’altro, riversandosi sulla cuoca; ma, in qualche modo, Tom riuscì a domarla e riprese a salire le scale, dopo aver bellamente ignorato l’avvertimento da parte della donna.
Certo, si aspettava una qualche punizione: da quando era stato accolto in quel lurido istituto, gli erano state addossate tutte le colpe, tutte. Anche quelle per fatti che non aveva commesso, come quella volta in cui quell’antipatico di George aveva versato il suo pranzo addosso a Lizzie ed aveva poi dato la colpa a Tom, che stava seduto al suo fianco.
La direttrice adorava dargli colpe che non aveva e, del resto, Tom si prestava molto bene per questo ruolo: in un mondo così ingiusto, c’era sempre bisogno di una persona che facesse da capro espiatorio, soprattutto se quella persona non ha alcun mezzo per difendersi.
E Tom era solo una bambino, cosa avrebbe mai potuto fare?
 
« Siediti, Tom » ordinò la signora Moore, la direttrice dell’istituto, una volta che Tom ebbe richiuso la porta alle proprie spalle. Il bambino dai capelli neri approfittò della distrazione della donna, che teneva lo sguardo fisso su alcuni documenti poggiati sulla scrivania, per osservarla attentamente: ebbe come l’impressione che, per la prima volta, la direttrice non fosse arrabbiata con lui. Molto strano, in effetti. Cosa voleva da lui, allora?
« Non mi hai sentito, Tom? » la donna alzò la voce, « Siediti. »
Tom si apprestò ad eseguire l’ordine ricevuto e si accomodò, ovviamente per modo di dire, su una delle poltrone di fronte alla scrivania. La signora Moore smise di interessarsi alle sue carte e rivolse tutta la sua attenzione al giovanotto.
« Lo so che ti stai chiedendo perché ti ho convocato qui, nel mio ufficio » esordì con un’espressione seriosa sul volto, « Ed immagino che tu ti stia chiedendo cosa hai combinato questa volta per meritarti una punizione. »
A quel punto, Tom si rese conto che la donna si aspettava che chinasse il capo, in segno di rimorso. Non era sua intenzione esaudire quel desiderio, ma si vide costretto ad obbedire per non far irritare la signora Moore, che sembrò molto soddisfatta.
« Questa volta, però, non ho alcuna punizione per te » aggiunse e il suo tono, solitamente così severo, si fece stranamente più umile, più... Umano. Tom non osò alzare lo sguardo, ma immaginò che la donna lo stesse guardando con grande pietà— dettaglio che lo infastidì particolarmente.
E, in effetti, era proprio così: la signora Moore stava rivolgendo uno sguardo impietosito a quel bambino che, ora più che mai, le sembrava solo un bambino, e non quella peste che combinava guai ovunque andasse. « Ti ho chiamato perché oggi pomeriggio riceverai una visita piuttosto importante. »
A quelle parole, Tom alzò gli occhi di scatto. Una visita importante? Per lui?
Per un attimo, si chiese se non fossero i suoi genitori, che dopo tanto tempo avevano cambiato idea e deciso di riprenderlo con sé; ma questa speranza morì ancor prima che Tom potesse convincersene, perché – nessuno glielo aveva mai negato – sua madre era morta dandolo alla luce e suo padre... Suo padre li aveva abbandonati tempo prima della sua nascita.
Se non i suoi genitori, allora, chi poteva essere?
Fu tentato di chiederlo alla signora Moore, ma ebbe l’impressione che la donna non avesse alcuna voglia di sentirsi rivolgere delle domande. Era finalmente tornata a guardarlo con il solito disprezzo.
« Su, adesso fila a pranzo e poi in camera tua » disse con tono sprezzante, « Vorrei che fossi presentabile per la visita che ti aspetta. »
 
Ma Tom non riuscì a mandare giù un sol boccone, a pranzo.
La signora Morgan lo osservò di sottecchi per tutto il tempo e, data l’aria pensierosa del ragazzino, immaginò che si fosse beccato qualche brutta punizione, di quelle che non avrebbe dimenticato facilmente. E non riuscì nemmeno a nascondere un certo compiacimento, perché finalmente la direttrice aveva deciso di punire quella peste insopportabile, quel marmocchio odioso, quel...
I pensieri della cuoca furono interrotti dallo sguardo scuro di Tom, fisso su di lei. E, per un attimo, la signora Morgan temette che quella peste avesse il potere di leggerle la mente.
Ma no, impossibile!
Tornò a respirare normalmente solo dopo che Tom ebbe distolto lo sguardo e si maledisse perché, inconsciamente, aveva permesso ad un marmocchio di intimorirla.
 
Dopo il pranzo, molti bambini si recarono in giardino per godersi il sole prima di doversi ritirare nelle loro camere. Tom, com’è ovvio, non seguì il loro esempio ed eseguì l’ordine che la signora Moore le aveva dato nel suo ufficio: senza dire una parola, salì le scale e raggiunse la camera che occupava da solo, dopo che Michael – il suo vecchio compagno di stanza – aveva espressamente chiesto di essere spostato altrove.
La stanza era molto modesta: il letto, dalla testata in ferro battuto arrugginito, era forse l’unico elemento decente dell’arredamento, perché il comodino – sempre di ferro, sempre arrugginito – era talmente mal ridotto, che qualcuno avrebbe potuto tagliarsi con la ruggine; e l’armadio, in un angolo, era di legno fradicio. Poi, era così vicino alla porta, che nessuno lo notava, quando entrava nella stanza.
Tom si sedette sul letto e si mise ad aspettare.
Non sapeva quando avrebbe ricevuto quella misteriosa visita, ma preferiva rimanere da solo nella sua stanza, piuttosto che uscire all’aperto ed essere costretto ad interagire con gli altri bambini. Proprio in quel momento, pensò, gli altri marmocchi stavano giocando all’aperto e si stavano godendo il sole, incuranti della sua assenza.
Passarono un paio d’ore e Tom le trascorse guardando fuori dalla finestra: all’inizio, il giardino sul retro era gremito di bambini che, urlanti, correvano da una parte all’altra; poi aveva cominciato a svuotarsi piano piano, fino a quando non erano rimaste solo le altalene cigolanti. Al contempo, il corridoio al di là della porta si riempì di voci infantili, che – però – si dissolsero molto presto. Silenzio, di nuovo.
Finalmente, dopo dieci/quindici minuti, il corridoio fu invaso nuovamente da delle voci che, però, Tom non riuscì a riconoscere. Non tutte, almeno: gli giungeva distinta la voce severa della signora Moore, ma l’altra – quella maschile – gli era completamente sconosciuta. « ... Desidererei parlare in privato con il ragazzo, se lei potesse farmi questa gentilezza » stava dicendo la voce maschile, evidentemente rivolta alla signora Moore, che infatti rispose immediatamente dopo: « Ma certo, ma certo! Devo ammetterle che mi ha stupito molto ricevere la sua lettera, signor Silente! Poi, quando ho saputo che voleva parlare con Tom... »
Tom si sforzò di ricordare il momento in cui aveva incontrato un tale signor Silente, ma si rese conto che – in tutta la sua vita – aveva conosciuto ben pochi uomini, oltre a quelli che frequentavano abitualmente l’istituto (il lattaio e il postino, ad esempio), ma nessuno di loro si chiamava Silente. Quello era certamente un cognome strano, ma ciò che più interessava Tom era il nesso tra lui e questo signore sconosciuto: come faceva il signor Silente a conoscerlo, quando non si erano mai incontrati?
« Ecco, questa è la stanza di Tom » disse la signora Moore al di là della porta, « Il ragazzo è il suo ad occuparla, dopo che il suo vecchio compagno di stanza, Michael, ha chiesto di essere spostato altrove. »
Ci fu qualche istante di silenzio, poi fu proprio il signor Silente a riprendere, con una domanda: « Perché Michael ha chiesto di essere spostato in un’altra stanza? »
Silenzio, poi la signora Moore parlò, questa volta con voce titubante: « Michael non sopportava molto la presenza di Tom, diceva che era... strano. »
Da quel momento in poi, il signor Silente smise di rivolgere domande alla signora Moore e bussò un paio di volte alla porta della camera di Tom. La signora Moore, invece, pensò che non ci fosse alcun bisogno di bussare alla camera di un bambino, per cui aprì la porta ancor prima che Tom potesse dargliene il permesso. Lo sguardo scuro del bambino incrociò prima quello opaco della donna, poi quello azzurro dell’uomo, il signor Silente.
Il signor Silente si contraddistinse immediatamente, agli occhi di Tom: indossava un completo grigio, di buona fattura, ma quell’aspetto così ordinario del suo abbigliamento si scontrava prepotentemente con il colore, rossiccio, e la lunghezza della sua barba. Il signor Silente, poi, portava i capelli lunghi, all’altezza delle spalle.
Entrambi ignoravano quanto quell’incontro sarebbe stato fondamentale per gli eventi futuri.
Il signor Silente era molto gentile e, con altrettanta cortesia, chiese alla signora Moore di lasciarlo solo con Tom. E Tom, dal suo canto, fu felice di vedere la signora Moore sparire oltre la porta.
L’attenzione dell’adulto fu completamente rivolta al bambino.
« Ciao, Tom » disse con un tono gentile, il primo che Tom si sentiva rivolgere da undici anni.
 
Mezz’ora più tardi, il signor Silente uscì dalla stanza di Tom e si ritrovò faccia a faccia con la signora Moore, che aveva pazientemente aspettato nel suo ufficio fino alla fine del colloquio. Non appena vide il suo ospite, lo guardò con aria interrogativa, ma non osò rivolgergli alcuna domanda: in cuor suo, sapeva già che quell’uomo era venuto a prendere Tom Riddle, non aveva alcun bisogno di sentirselo dire.
In un certo senso, provò sollievo: finalmente, dopo undici anni, l’istituto avrebbe avuto un po’ di pace, senza quel ragazzino così strano che faceva accadere delle cose assurde. D’altro canto, però, non poté proprio fare a meno di sentirsi ansiosa. Qualunque fosse il motivo per cui il signor Silente volesse portar via Tom, aveva sicuramente a che fare con quella sua anormalità.
Da quel giorno, però, non rivide mai più né l’uno nell’altro. Il signor Silente scomparve con la stessa rapidità con cui era venuto. Quanto a Tom...
La signora Moore rimase a guardare i due mentre, carichi degli averi – modestissimi – di Tom, si allontanavano sempre più dall’istituto.
Il cielo era sinistramente tetro.
 
 
   
 
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