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Autore: shane_lilith_riddle    09/03/2015    6 recensioni
" -Come chiameresti ciò che abbiamo tra noi?- le sussurra, passandole le labbra bollenti sull'orecchio.
- Scherzo del destino- sibila Eris, allontanandosi veloce da lui, ma Ares la riagguanta con facilità, è un gatto che gioca col topo.
-No, no, no, sorellina, così la fai sembrare una cosa brutta-
-E non la è?-
-Oh, al contrario.- la contraddice, facendosi più vicino. Incatenandola al suo sguardo mentre si lecca le labbra.
-E' il mio gioco preferito.-"
Ares ed Eris, fratellastri, uniti da qualcosa di più grande del destino: un legame di sangue, incancellabile.
Segnati da due nomi che, nel mito, sono stati davvero quelli di due fratellastri portatori di sciagure, il dio della guerra e la dèa del caos e della discordia.
L'uno impossibile senza l'altro, e dei loro personaggi hanno ereditato i tratti. Impulsivi, impossibili, sprezzanti.
Inizieranno un gioco pericoloso, un gioco al massacro.
Genere: Dark, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Allooooooraaa.. questa storia se ne stava nei recessi bui della mia cantina da tanti, troppi anni. Ora che i tempi sono maturi ho rivisto gli errori, cambiato i tempi e deciso di pubblicarla. Quanto segue è un “preludio” della storia vera e propria, uno sguardo invadente al passato dei due protagonisti, ma necessario per conoscerli ed amarli. Spero davvero che li amerete quanto li amo io, detto ciò vi lascio al capitolo e mi levo dalle palle xD
 
 
 
Prologo
 
 
1 Settembre 2009

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Il primo giorno in cui l’aveva vista, era solo una ragazzina sperduta, tutta ginocchia ossute e occhioni giganti, in quella fase di crescita dove non sei bambino e neppure adulto, ma paradossalmente ancora un po’ entrambi. Lui aveva quattordici anni, lei dodici, le guancie rigate di pianto e occhiaie violacee sulla pelle pallida. Anche così era bella, innaturalmente bella, con i tratti fini e morbidi che parevano scolpiti e quei capelli corvini, lisci e lunghi fino alle anche, che la facevano somigliare ad una bambola di porcellana. Si era incantato a guardarla.
Poi però, c’erano gli occhi. Quegli occhi così.. così spaiati, che lo avevano riportato con i piedi per terra. Uno verde, l’altro castano, eterocromatici, nessuna bambola li avrebbe mai avuti così, stridevano troppo l’uno con l’altro, note dissonanti di uno strumento scordato, esattamente come lei; ma non lo avevano turbato molto, perché erano simili ai suoi. Beh, non proprio, lui ne aveva uno azzurro e uno nero ma conosceva fin troppo bene quella sensazione, gli sguardi insistenti, le espressioni stupite nei volti di chi osservava, perché le aveva sempre sentite addosso.
E quando la ragazzina aveva incrociato il suo sguardo, allargando quegli occhi strani, gli era venuto da sorridere.
Perché il fato sapeva essere crudele e di certo aveva senso dell’umorismo: la prova del tradimento di suo padre stava lì, di fronte a lui, stava in quella creaturina dal corpo acerbo e gli occhi spaiati come i suoi. Quel fatto lo rendeva ancora più chiaro, innegabile, erano fratelli, e lui neppure l’aveva mai vista prima.
"-Astri", si era corretto, "fratell-astri". Suonava così male quel termine, come quando sua madre l’aveva pronunciato, incredula, col tono di un insulto.
Era bastato tanto poco per rovinare ogni cosa, per stravolgergli la vita. L’istante prima stavano tutti e tre seduti a tavola, ridendo, scherzando, l’istante dopo suo padre aveva risposto a una telefonata, quella maledetta telefonata. Ed ecco che il sorriso era sparito dal suo volto, senza lasciare traccia.
-Incidente? Che cosa? Oh Dio.. quale ospedale? Arrivo subito.- All’inizio aveva temuto per suo nonno, si ostinava a guidare nonostante l’età e la miopia, che si fosse fatto male? E invece no, invece la realtà era diversa, la realtà era che suo padre aveva tradito sua madre con una studentessa, in una delle tante Università dove insegnava letteratura, e la storiella durata un mese o poco più, aveva causato un “imprevisto”, una bambina, e da quel momento, ogni mese aveva mandato alla bimba e alla madre un compenso finanziario, senza dire nulla a nessuno, per DODICI anni. –Sorellastra?- aveva gridato sua madre, incredula.
E la ragazzina, ora era senza madre. Morta in un incidente stradale. Per cui avrebbero dovuto farsi due ore di macchina e andare a recuperare l’ “incidente”. Punto.
Così poco era bastato, per rovinargli la vita. Per trascinarlo due ore dopo in una sala d’attesa in ospedale, dove lui nemmeno voleva entrare, per fargli trovare di fronte quella sorell-astra che non avrebbe mai voluto conoscere, per cui non riusciva a provare empatia, né tenerezza, ma che vedeva solo come un fastidio, un impiccio non calcolato, con quei maledetti occhi a fissarlo sconvolti.
Si era fatto forza, violenza quasi, per muoversi controvoglia e andare a presentarsi, per non comportarsi come sua madre, che si era rinchiusa in un silenzio ostinato, fissando la ragazza con disprezzo malcelato.
-Sono Ares- aveva sputato fuori, porgendole la mano sudata, che lei dopo un attimo di esitazione aveva stretto nella sua. Piccola, fredda, liscia. –Io Eris- gli aveva risposto, con voce ferma, incolore, senza smettere di incatenarlo con gli occhi.
Gli era scappato nuovamente da ridere, perché suo padre, Professore, appassionato studioso di miti e leggende, non solo aveva avuto il pessimo gusto di chiamare lui come il dio della guerra, ma aveva chiamato lei come la dèa della discordia.
E pensandoci bene, il nome in quel momento le calzava a pennello.
 
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3 Settembre 2009
 
Sua madre aveva voluto partecipare ai funerali dell’ “altra donna”, e pareva aver perdonato il marito con un battito di ciglia. Ares, davvero, non se lo spiegava. Lui non ci sarebbe mai riuscito, né prima, né dopo. Non ci sarebbe riuscito mai.
Invece quella donna impenetrabile e irraggiungibile che era Irina, perfetta casalinga dalla pettinatura alla Marilyn Monroe, gli occhi celesti, il trucco sempre magnifico, le unghie sempre curate, i modi sempre impeccabili, non aveva fatto una piega. D’altro canto, non era semplice capire cosa la smuovesse, pareva sempre così contenuta, impenetrabile, sia nei gesti di disperazione che in quelli di affetto. Più che una madre, sembrava un’icona, un robot distaccato, gelido, che si vestiva di nero abbandonando gli usuali abiti rosa e si preparava dignitosamente per un funerale. Che fosse della donna con cui il marito l’aveva tradita, era un dettaglio trascurabile.
Anche Ares naturalmente era stato costretto ad andare e insieme alla sorella-stra era stato caricato in macchina verso la chiesa. Solo lì aveva visto per la prima volta la donna che era stata la causa della sua rovina, la fautrice dell’ “incidente”. Era bella, bellissima, con gli occhi verdi e i capelli d’ebano, e troneggiava sorridente in una foto gigante accanto all’altare. Pareva il calore in persona, con quel sorriso che Ares involontariamente aveva confrontato con quello della sua, di madre. Non le aveva mai visto fare un sorriso come quello, neppure per sbaglio.
Aveva lanciato una rapida occhiata all’ “incidente”, seduto di fianco a lui, nella panca scura. Non provava neppure a trattenere le lacrime e di certo non ascoltava la funzione, teneva gli occhi fissi sulla foto, e sembrava così piccola, così disperata, che Ares per un  momento si era scordato la sua irritazione e persino gli sguardi ficcanaso delle persone presenti, e l'aveva semplicemente stretta tra le braccia cullandola, dondolando quella testolina scura fino a farla calmare, fino a sentire gli occhi azzurri e gelidi di sua madre su di sé.
 
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5 Settembre 2009


Non mangiava. L’ “incidente” non mangiava.
Suo padre aveva provato a farla ragionare con qualche amorevole discorso e qualche pacca sulle spalle, ma Eris si ostinava a guardarlo di sottecchi, con diffidenza, e Ares in fondo non poteva che darle ragione: era un po’ tardi per fare il padre del Mulino Bianco. Aveva chiesto a lui di farle fare il giro del vicinato, per farla ambientare un poco, ma Ares aveva replicato gelido che preferiva mille volte uscire con i suoi amici, piuttosto che stare appresso a una mocciosa.
Irina invece era indifferente, rivolgeva alla ragazza pochi e semplici convenevoli se proprio doveva, con un sorrisetto forzato che Ares riteneva schifosamente falso, e non batteva ciglio quando lei se ne andava in quella che era diventata a tutti gli effetti la sua stanza, senza aver toccato cibo. Dopotutto, non era mica sua figlia.
Dopo il secondo giorno, gli era parso quasi un dovere portare alla sua sorell-astra il piatto freddo su in camera, dopo aver cenato con calma interrogandosi sul da farsi. A quel tempo, Ares era ancora un ragazzino viziato figlio di borghesi benestanti, e l’idea egoistica che non mangiando Eris sarebbe potuta morire di stenti e quindi levarsi di torno, lo aveva sfiorato. Ma la parte peggiore di lui era in costante lotta con il suo senso di giustizia, così alla fine si era detto: -Dopotutto, è la mia sorell-astra – e si era costretto a salire da lei.
Aveva sentito i singhiozzi ancor prima di aprire la porta, ma non si era fermato, aveva posato gli occhi indifferenti su di lei per scoprirla rannicchiata sul letto.
-Ti ho portato la cena- l’aveva informata, facendola sussultare, poi aveva poggiato il vassoio sul comodino, lei aveva alzato il viso e quegli occhi spaiati si erano appuntati sui suoi, facendolo sentire.. strano.
Punto nello stomaco, a disagio. Teneva qualcosa tra le mani, una piccola fotografia stropicciata, spezzata in più punti ma comunque riconoscibile, le sue manine la stringevano convulsamente, come a volerla proteggere, incuranti di stracciarla. Ares gliel’aveva tirata via quasi a forza, forse per dispetto, forse per curiosità, e lei non si era opposta. Forse, semplicemente aveva voluto lasciarlo guardare.
C’era un parco giochi. Una donna giovane, alta, magra, mora, con un abito estivo, impalpabile. E c’era una bambina dai capelli corti, correva, spettinata. Entrambe ridevano.
-Tua madre era sempre allegra, eh?- gli era uscita così, quasi per sbaglio, prima di riuscire a trattenersi.
Lei aveva semplicemente annuito, poi per un lungo istante avevano guardato la foto, in silenzio.
-Tua madre non ride spesso, vero?- aveva poi chiesto Eris, la voce esitante, sommessa.
-Mia madre non ride mai.- e un groppo alla gola lo aveva bloccato, pulsante, doloroso, o forse era il cuore.
Poi, per la prima volta, l’aveva guardata davvero. Le labbra piene e tremolanti, il volto spigoloso, gli occhi grandi dalle lunghe ciglia bagnate, e aveva provato un dolore sordo.
Gli aveva fatto male vedere una bambina senza più una mamma che sorrideva sempre, senza un parco, con un papà e un fratellastro sconosciuti, e una matrigna che non ride mai.
Gli aveva fatto male guardare la stanza spoglia, la piccola valigia che conteneva gli averi di Eris ancora intatta per terra, il piatto colmo di cibo freddo.
E gli aveva fatto male pensare a sé stesso, a come si era comportato. In quel momento aveva deciso davvero di fare qualcosa.
-Se mangi tutto, domani ti porto a vedere un grande parco che sta qua vicino- le aveva detto.
-Ma non devi uscire coi tuoi amici?- aveva chiesto Eris, confusa.
-Non era poi così importante.-
-Ci sono le altalene grandi?-
-Grandissime.- aveva giurato, porgendole il piatto.
E per la prima volta, l’aveva vista sorridere di cuore.
 
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11 Novembre 2010
 
Le litigate erano sempre più feroci, specie quando Irina stava fuori casa. Oramai, lui e suo padre si trovavano in collisione da tempo, e nulla avrebbe più potuto aggiustare le cose.
Odiava il modo in cui parlavano a Eris, in cui non le parlavano, in cui semplicemente, tacitamente, la ignoravano. Eris era un ingranaggio difettoso, un incidente di percorso in una vita apparentemente perfetta, e veniva trattata come se la colpa di tutto ricadesse proprio su di lei. Su di lei che, in alcun modo ne era responsabile. Su di lei, che era la prova visibile dei peccati più profondi di suo padre, del tradimento di sua madre, era il mostro da esorcizzare, quello che spaventa i bambini alla notte e che, quando si è adulti, si porta dentro di sé. Eris era, semplicemente, lo scheletro dentro all’armadio, per i suoi genitori. Quello che nessuno vorrebbe ritrovarsi davanti, perché rappresenta lo specchio che riflette le proprie brutture. E di questo lei non aveva alcuna colpa.
Così, l’uomo che Ares aveva amato, ammirato, stimato, l’uomo di cui aveva sognato di diventare la copia, una volta adulto, si era mostrato per ciò che era.
Suo padre, che gli aveva insegnato, inculcato tutti quei valori, stava più fuori che in casa, si rifiutava di parlare del passato, di incrociare lo sguardo della figlia illegittima.
Suo padre era un traditore, e un codardo.
Sua madre, non da meno, usava la figliastra per farsi compatire con il circolo da the della domenica, composto principalmente da casalinghe benestanti. –Che buon’anima, Irina, ad accogliere ancora in casa il marito, e persino quella ragazza!-
Già, che buon’anima.
Ares, in solo un anno, aveva cominciato a valutare le cose con un metro differente. Non era più nella fase in cui i genitori sono infallibili e sanno sempre cosa è bene fare e sono un punto di riferimento, no, quella fase era passata da un bel pezzo. Per lui, l’unico punto di riferimento era una ragazza con gli occhi spaiati e i capelli corvini. Era la sua sorellastra.
 
Era accaduto una mattina in cui Eris si era ammalata, e la febbre alta la costringeva a letto. Non se la sentiva di fare il tragitto verso la scuola senza di lei, né di lasciarla a casa con quella febbre e solo i genitori ad “occuparsene”. Non che non fosse curata, ma una pasticca antibiotica mollata sul comodino è ben poca cosa.  Forse era stato proprio in quel momento che tutto aveva avuto inizio, quando si era spogliato e si era infilato sotto le lenzuola, accanto al corpicino freddo e sudaticcio di lei. Quando l’aveva stretta tra le braccia, incurante dei suoi tremori e del suo sonno profondo. Incurante delle ire di suo padre. In pace per la prima volta dopo tanto, troppo tempo.
Era entrato verso mezzogiorno, spalancando la porta, distogliendolo da un sonno rilassato, sbraitando parole che all’inizio non aveva compreso. –Che cosa stai facendo? Dovresti essere a scuola! A scuola!-
Gli aveva urlato, trascinandolo per un braccio giù dal letto. E così, mentre la testa lentamente acquistava lucidità, aveva realizzato di essere in guai grossi. E che per la prima volta, non gli interessava.
-Non mi andava- lo aveva sfidato, indolente, in canotta e slip. –Non ti andava? NON TI ANDAVA??- non aveva mai visto suo padre alzare la voce a quel modo, tantomeno perdere la calma. Eppure, lì per lì non se ne era curato troppo. L’ira era troppa per essere repressa. Era maturata a lungo, sottopelle, aveva suppurato silenziosamente e infine dava i suoi frutti in modo violento, manifestandosi.
-Oramai sei fuori controllo!- lo aveva accusato l’uomo, descrivendo per l’ennesima volta in un anno tutti gli eventi che lo avevano deluso: il rendimento calato a scuola, le assenze sempre più alte, il modo sempre più sgarbato di rispondere ai genitori..
-VUOI STARE ZITTO, CAZZO!?- era esploso alla fine. Le avvisaglie c’erano state ma nessuno se n’era curato. E alla fine, semplicemente: BOOM!
L’uomo era rimasto interdetto, interrompendo la nenia.
-MIA SORELLA HA LA FEBBRE ALTA, E STA RIPOSANDO, LA VEDI? QUELLA LI’, E’ UNA PERSONA!- aveva continuato indicandola –A PROPOSITO DI PRENDERSI LE PROPRIE RESPONSABILITA’, EH PAPA’? SE VUOI DARE LA COLPA A QUALCUNO, GUARDATI ALLO SPECCHIO, MA NON HO INTENZIONE DI SCUSARMI PER ESSERE L’UNICO QUI DENTRO AD INTERESSARSI DI LEI.-
Il pugno era arrivato secco, improvviso, doloroso. E così come il dolore, gli era esploso tra labbro e mascella il sapore ferruginoso e dolciastro del sangue.
Aveva guardato suo padre, attonito, e l’uomo gli aveva risposto con uno sguardo se possibile ancora più smarrito. Poi, se n’era andato in fretta, senza dire una parola. Senza nemmeno guardarlo.
Senza nemmeno guardarli.
"Bravo papà, scappa. Dopotutto, è quello che sai fare meglio.-"
Si era portato le dita alle labbra, trovandole sporche di rosso, con un distacco gelido, quasi fossero state di un altro. Come se quel sangue non fosse stato suo, così come l'intera, assurda situazione. Con una sensazione di vuoto che gli aveva schiacciato il petto, l’esofago, i polmoni.
Poi si era voltato verso quella sorella che aveva fatto tutto per distruggere, e dopo per salvare.
E l’aveva trovata sveglia, attenta, seduta su quel letto dove poco prima la aveva stretta in pace.
-Allora ti ha svegliata.- aveva commentato, stupidamente, e lei non aveva detto una parola. Si era limitata a fissarlo, con quegli occhi spaiati. Con uno sguardo consapevole che lì per lì non era riuscito a decifrare, ma che anni dopo avrebbe compreso fin troppo bene: lo sguardo rassegnato di chi conosce il proprio futuro, e sa di osservare l’inizio della fine.
Dopo, semplicemente, Eris aveva aperto le braccia, e lui ci si era tuffato dentro, come in un porto sicuro durante la tempesta.
 
 
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5 Luglio 2012
 
Il caldo afoso si incollava ai vestiti, agli occhi, alla pelle.
Ares aveva da poco compiuto diciassette anni, e i mutamenti c’erano eccome: spalle larghe, fisico atletico, mascella squadrata, labbra piene. Con i capelli talmente corvini da avere riflessi bluastri e quegli occhi spaiati, magnetici, sempre socchiusi in un’espressione da predatore, era diventato un uomo, e non uno di quelli che passano inosservati.
Non passava inosservato a scuola, e neppure nella sua cerchia di amicizie, e si era già fatto le sue esperienze, quando e quanto voleva.
Eppure, come ogni estate da almeno tre anni, neppure quell’anno era riuscito a sfuggire alla “fantastica vacanza estiva” nella “fantastica località sul lago” con i suoi genitori.
La “Caratteristica” casa delle vacanze, in effetti era decisamente migliore del loro appartamento in città. Grande, ben arredata, un villino indipendente a due piani. La pecca stava, semplicemente, nel fatto di passare quasi un mese incollato ai suoi, mentre loro facevano con i vicini e la gente del posto quello che gli riusciva meglio: recitare.
Gli riusciva benissimo, la parte dei genitori premurosi, dei coniugi innamorati. Pareva quasi che non avessero fatto altro tutta la vita-quasi.
E forse visti da fuori potevano anche sembrare una vera famiglia, con la madre che prendeva la tintarella, il padre che pescava tranquillo sulla piccola barchetta di legno..  persino in quell’istante, mentre Ares li fissava in riva al fiume, i suoi genitori parevano amabili come non erano mai stati, parlando con un’altra famiglia dei successi dei propri figli, seduti sulla tovaglia da pic-nic a quadretti bianchi e rossi.
E gli veniva da ridere.
-Il festival della menzogna è cominciato-
La voce della sorella, alle sue spalle, lo aveva fatto sorridere. Perfettamente speculare ai suoi pensieri,come sempre.
-Mi fanno quasi pena- le aveva confidato, senza distogliere lo sguardo dai due.
-Ognuno affoga i suoi dolori come può-
Questa volta, aveva riso davvero di gusto. –E tu come faresti, sorellina?- l'aveva provocata.
-Io non lo faccio, sono tutti in bella mostra, per chi li sa vedere.- Un sussurro flebile, contro l’orecchio, capace di ragalargli lunghi brividi lungo la spina dorsale.
Voltarsi a cercare lo sguardo di lei, era stato istintivo. A soli quindici anni, Eris era cambiata moltissimo, nel fisico come nel carattere. Aveva preso le fattezze femminili e le sue forme si erano ammorbidite, allineate perfettamente. Il volto rimaneva incredibilmente bello, quasi irreale. Stava sbocciando.
Di carattere, per contro,  era schiva, taciturna, diffidente, riflessiva… non timida, mai timida. Semplicemente, gli anni passati l’avevano inselvatichita irrimediabilmente. Era una fiera in gabbia.
Spesso l’aveva guardata da lontano chiedendosi cosa celassero quegli sguardi malinconici che assumeva di continuo. Eris non pareva affatto la sorella minore, nella sua lucida consapevolezza.
-Li ho sentiti parlare- aveva mormorato lei, in un sussurro cospiratorio, avvicinandosi, inghiottendolo con quegli occhi spaiati, uno nero come la pece, l’altro di un verde disturbante, ipnotico.
-Ieri notte, di come sarebbe bello trasferirsi qui una volta per tutte. Pare che a tuo padre abbiano offerto un lavoro.-  “tuo padre”, così diceva sempre. Mai “nostro padre”, mai “mio papà”.
- Giura.- aveva ansimato lui, cercando di distogliere lo sguardo da quelle labbra rosse, gonfie.
-Giuro.-
-Allora tutto cambierà.- aveva sussurrato sovrappensiero, senza immaginare quanto quelle parole sarebbero state profetiche, in futuro. Aveva sorriso, vedendo la sorella spogliarsi dei pantaloncini e della canotta per poi gettarsi in acqua con un gridolino infantile.
Dopotutto, restava sempre la sua sorellina più piccola, nonostante si sentisse diverso ultimamente, con sè stesso così come con lei.
La seguì senza rifletterci troppo, ridendo, godendosi l'istante.
Non sapeva, Ares, che quello sarebbe stato solo uno degli ultimi momenti felici passati insieme.
Quell’estate l’ultimo ricordo sereno, prima che ogni cosa cambiasse per sempre.
 
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Marzo 2015, tempo presente.
 
La casa è ancora come la ricordava. Con le ringhiere alte in ferro battuto, il giardinetto sul davanti curato, con le rose appassite, fuori stagione. Le inferriate grigie, il tetto di quell’arancione così esagerato, che gli ha sempre dato fastidio agli occhi.
Ci è voluto parecchio per capire che si erano davvero trasferiti nella “Caratteristica casa al lago”, eppure, il nome sul campanello è sempre “Lancaster”, l’inconfondibile micra rosa di sua madre è nel vialetto, le luci sono accese.
Sono quasi le otto del mattino, minuto più, minuto meno, un’aria gelida gli sferza il viso, costringendolo ad alzarsi i risvolti del giubbotto.
D’improvviso, una ragazza schizza fuori dal portone, infila la chiave sotto il tappeto e si carica sulle spalle lo zaino, logoro e nero. Ogni cosa di lei è nera: gli anfibi graffiati, i jeans stracciati a sigaretta, il giaccone pesante. Una gelida folata di vento le scompiglia i capelli e Ares la osserva meglio, dall’altro lato del marciapiede. Zigomi alti, occhi leggermente a mandorla, ancora spaiati, ancora così deliziosamente smarriti, sebbene cerchiati da uno spesso strato di kajal, labbra piene, naso piccolo, sopracciglia ad ala di rondine.
Aria malinconica.
È cresciuta, Eris, ed è cresciuta bene. I capelli corvini ricadono in lunghe ciocche fino ai fianchi, forse anche oltre, le gambe lunghe, le forme armoniche, la pelle di porcellana. È minuta, sì, ma non è più una bambina. È una donna a tutti gli effetti, e di una donna ha le sembianze.
Infila le cuffie nelle orecchie e corre via, con l’aria di chi va di fretta, di chi non ha idea di essere osservato.
Vorrebbe seguirla, anche solo per risentire quello sguardo su di lui, ancora una volta. Quegli occhi che ama, che brama, che lo hanno condotto alla follia.
Invece Ares resta immobile, le unghie impiantate nei palmi, si fa forza, violenza quasi, per non seguirla, per lasciarla andare via.
Non può farlo, non ancora. Deve mantenere una promessa fatta tre anni prima, quella di tornare per il suo diciottesimo compleanno e il diciannove di Marzo è ancora lontano.
Fissa la figura della sorella rimpicciolirsi fino a scomparire, mentre un sorriso sinistro s’impossessa delle sue labbra. Può aspettare ancora qualche giorno, dopo aver atteso così a lungo.
Si ravviva i capelli corvini e stringe quei suoi occhi inquietanti, discordanti, uno gelido come il ghiaccio, l’altro buio come l’abisso.
E sussurra contro il vento: -A presto.-
 
 
 
Nel prossimo capitolo:
 

“ … Continua a stringerle i polsi, il dolore si fa presente, le mani prendono a formicolare.
–Basta, Ares!-
Lo prega, lo sguardo supplichevole, mentre ancora cerca di divincolarsi.
-No!- la stringe, la scuote, non molla. Eris alza gli occhi e può vedere la sua espressione riflessa in quelli di lui. Ares sta male, è vicino al punto di rottura. Cosa possa accadere quando si rompe, lei davvero non lo sa.
Lo ricorda appena in un eco passata, ma non vuole ripensarci.
-Non ti lascio andare!- le urla. –Non stavolta. Nessuno mi separerà da te. Non più.-
I suoi occhi brillano di feroce determinazione, mentre i capelli giocano col vento. Fissa lei, solo lei mentre parla, incurante di chi li può vedere. Non gli importa. A lui non importa di nessun’altro.
Solo di lei….”

 
 
 
Qui di seguito vi lascio qualche foto dei due protagonisti, la tipa si chiama Jamie Vandyke e quel suo sguardo spiritato e l’aria grunge rendono davvero l’idea di Eris che ho nella mia testa. La amo follemente e un giorno la sposerò xD
Del ragazzo ho solo questa foto, e non ho idea di chi sia. Ma non potevo cambiarlo con nessun’altro, nessuna foto che ho visto rendeva la mia idea di lui quanto questa. Che ne pensate?
Ovviamente ho modificato io gli occhi, per farvi “entrare” meglio nei personaggi.
 

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E.. niente, spero che la storia vi piaccia e vi prometto forti brividi, ci rivediamo il 19, il giorno del compleanno di Eris… ne vedrete delle belle xD
  
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