Capitolo 31
Il giorno dopo eravamo rientrati a Fort George
con calma, come se Washington non fosse morto e come se la macchia di sangue
sul mio polsino bianco non fosse altro che innocuo condimento alimentare. Per
tutto il tragitto verso New York Charles era rimasto in silenzio, abbassando lo
sguardo sulla propria sella ogni volta che incrociavamo dei patrioti, ancora
ignari di tutto. Erano strani, i patrioti, ma ammetto che un po’ li invidiavo.
Erano consapevoli di essere nella merda, eppure combattevano con entusiasmo.
Con un entusiasmo che io non avevo mai avuto neanche negli anni d’oro della mia
gioventù, quando ancora ero una giubba rossa, quando ancora credevo che
imbracciare un fucile avrebbe avuto i suoi lati positivi e mi avrebbe donato un
minimo di gloria.
Invece
no. Uccidere non placa la sete di
vendetta e non ti fa sentire meglio, ti lascia solo sulla coscienza una
manciata di uomini e ti macchia l’animo, facendoti via via diventare
indifferente alla morte altrui, come fosse una cosa normale. Così normale da
farti considerare l’omicidio l’unica soluzione per cambiare qualcosa. Non ero
fiero di ciò che ero diventato, mentre ammazzavo George non avevo provato
rimpianto, né paura per ciò che mi avrebbe aspettato una volta morto, nel caso
ci fosse stato qualcosa. A dire il vero mi facevo un po’ timore. Sapevo di
essere freddo e distaccato, ma per quel genere di cose non te ne rendi conto
finché non ci rifletti seriamente, finché non ti trovi la realtà sbattuta in
faccia come uno schiaffo.
Anche
Charles sarebbe diventato così una volta diventato Gran Maestro? Non volevo.
Non volevo e non dovevo rovinare anche lui.
Lo
guardai ancora, voltando di poco il capo verso destra. A vederlo sembrava
semplicemente stanco e ancora stordito per la sbornia, ma io lo conoscevo bene.
Sapevo leggere il suo linguaggio del corpo, anche se Lee faceva di tutto per
apparire calmo e rilassato. La schiena era dritta e tesa, le mani strette sulle
redini di cuoio, i piedi irrigiditi sulle staffe, pronti a spronare il cavallo
per fuggire. Tentai di distrarlo, facendo battute sul fatto che non reggesse
l’alcool e che si fosse addormentato come un marmocchio, ma non servì molto. La
tensione era tanta, e quello che mi preoccupava era il fatto che avrei dovuto
spiegare a Jenny tutta la questione. Avrei dovuto parlarle di Washington, di Artemas, della carriera militare di Charles andata quasi
sicuramente a puttane. Tutto quanto. Temevo che me la sarei trovata contro per
aver messo Lee nei casini come se fosse un estraneo qualunque, perché mettere altre
venti guardie a controllare che Fort George non venisse preso d’assalto non
garantiva proprio nulla. Ward era un pari di Charles,
e la sua parola valeva ben più del volere di un paio di uomini a difesa di un
forte, e se la causa era un mandato d’arresto per un generale ritenuto
traditore, beh, non c’erano scuse. Senza contare che se Lee si fosse barricato
dentro avrebbe alimentato i sospetti su di lui. Confidavo comunque
nell’intelligenza di Charles, conosceva bene l’ambiente e sapeva come muoversi,
ma questo non placava il mio senso di colpa. L’unica cosa che mi restava da
fare era sperare che Artemas Ward
non fosse tanto folle da attaccare un forte per un sospetto. Faceva bene a
credere che Charles fosse coinvolto, ma non c’erano prove. Avevo fatto un
lavoro pulito, cancellando addirittura le tracce sulla neve per evitare che le
seguissero e raggiungessero la locanda in cui avevamo alloggiato. Non avevano
nessuna prova contro di me, che ero il sicario, figuriamoci contro Charles, che
non aveva neanche preso parte alla missione.
Deglutii,
tentando di calmarmi. Dovevo sperare nella giustizia. Insomma, non si può
arrestare un uomo su due piedi, no? Era la parola di Charles contro quella di Artemas, non avrebbero potuto fargli nulla.
Dio,
che situazione del cazzo.
«Tutto
bene?» La buttai lì, girandomi a sinistra fingendo di osservare il paesaggio.
Charles
inarcò le spalle facendo scricchiolare le ossa, mollando poi le redini con la
mano sinistra per riscaldare le dita intorpidite con un po’ di fiato caldo. «Diciamo
di sì.» Avrei voluto abbracciarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene, che
la cosa peggiore che gli fosse potuta capitare sarebbe stata la sospensione del
servizio militare, che avrei difeso la sua vita con la mia a qualunque costo,
ma non lo feci. Forse avrei dovuto anche chiedergli scusa, ma non trovai il
coraggio. A malapena riuscivo a guardarlo in faccia.
«Sta’
tranquillo, non è la prima volta che uccidiamo qualcuno di importante. Ricordi Braddock?» Gli scoccai un’occhiata. «Avrebbero dovuto impiccarmi
o spararmi a vista, invece eccomi qua.»
Annuì
debolmente, fissando distrattamente l’orizzonte e lasciandosi dondolare
dall’andatura del cavallo. «Probabilmente sarà come dite voi, mi sto fasciando
la testa prima del tempo.» Si sforzò di sorridere.
Per
tutto il resto del viaggio non dissi nulla. Capii che aveva bisogno di starsene
per i fatti suoi, di ragionare su ciò che di lì a breve sarebbe accaduto per
prendere le decisioni migliori, quindi lo assecondai.
Ero
sicuro che non gli sarebbe potuto accadere nulla, e in fondo è quello che
pensiamo tutti quando si tratta di disgrazie come la morte, no? Le vittime sono
sempre gli altri, mai noi in prima persona, mai gli amici o i familiari. Eppure
avrei dovuto pensarla diversamente. Con Charles, però, non ci riuscivo. Lui era
lì, intoccabile, e ogni volta mi ripetevo: figurati
se succede a lui.
Arrivammo
a New York di mattina presto. Inutile dire che mi chiusi immediatamente nella
mia stanza senza salutare nessuno. Insomma, avevo una decina di ore di sonno
arretrato da recuperare. Non amai così tanto il mio letto fino a quel momento.
Comodo, caldo e soprattutto singolo,
senza nessuno accanto pronto a russarmi nelle orecchie ogni venti secondi.
Quando
riaprii gli occhi era l’una passata. Scostai le coperte e mi tirai su, indeciso
se essere scocciato per il fatto che nessuno fosse venuto a svegliarmi per
pranzare o apprezzare la gentilezza che avevano avuto nel lasciarmi riposare
un’ora in più. Mi abbottonai la camicia e infilai la redingote, poi uscii dalla
mia camera, percorrendo il corridoio fino alle scale per raggiungere il salone
principale.
Vidi
Jenny arrotolarsi una ciocca di capelli attorno all’indice, lo sguardo perso
oltre il vetro della finestra che dava sul piazzale interno di Fort George,
intenta a guardare chissà cosa con un’espressione che tanto mi ricordava la
Jennifer di quarant’anni prima, quella che passava le ore dietro le tende
bianche di casa nostra per sbirciare le strade affollate di Londra.
Sorrise dolcemente, ignara del fatto che la stessi osservando, continuando a
torturare i capelli rossicci.
«Cosa c’è di tanto interessante da guardare?» La affiancai con le mani giunte
dietro la schiena, trovando risposta alla mia domanda prima che lei parlasse,
scorgendo Lee, con indosso solo la camicia, i calzoni e gli stivali, tirare di
spada con un giovane reclutato da poco nelle guardie di Fort George.
«Charles sta dando lezioni di scherma ad un ragazzo.» Movimento di gambe,
parata, affondo. Li ripeté tre volte con una naturalezza insolita, come se non
avesse fatto altro nella vita, spingendo poi a terra con una spallata il
novellino poco più che venticinquenne.
Prese
a camminare in tondo con strafottenza, sputando di lato e guardando con stizza
la matricola ancora a terra «Avanti, alzati» iniziò a roteare la spada per
riscaldare il polso, mentre il ragazzino si alzava con ancora il fiato corto. «Vedi
di impegnarti di più. L’avversario non aspetta che tu ti rimetta in piedi, ti
conficca la spada nel petto e vaffanculo!, funziona così!»
«Avete
ragione» si passò una mano sulla fronte, lasciando una chiazza di sporco. «Sono
pronto.» Lee stavolta non si mosse, preferendo lasciare l’iniziativa al ragazzo
che, poco dopo, si sbilanciò in avanti tentando un affondo. Charles parò il
colpo facendo strisciare le due spade sul filo della lama e causando un
fastidioso stridio, poi allontanò da sé l’arma nemica eseguendo una cavazione,
scattando infine all’indietro, scivolando sul terriccio. Il giovanotto non
perse tempo e accorciò le distanze con due falcate, tentando un rovescio che
Charles evitò senza fatica. Le due sciabole britanniche cozzarono un paio di
volte, gli stivali si muovevano rapidi, alzando una nube di polvere ad ogni
passo. Con un tondo più violento Charles disarmò il ragazzo, facendogli volare
di mano la spada che rotolò via di qualche metro. «Devi stringerla l’elsa, o
farai questa fine!» Si guardarono per una manciata di secondi, poi il mocciosetto scattò di lato per riprendere l’arma, ma Lee lo
anticipò, calciandola via e afferrando il marmocchio per i capelli. Gli serrò
un braccio attorno al collo senza soffocarlo, ma con la forza sufficiente per
impedirgli i movimenti «E ora come la mettiamo, eh?» Mai cantar vittoria prima
del tempo, vecchio mio. Due secondi dopo venne spinto via con un calcio, che
lasciò sulla camicia di Charles un’impronta marrone all’altezza dell’ombelico.
Lee fu costretto a mollarlo, indietreggiando per riprendere fiato, mentre il
pivellino corse a riacciuffare la spada, come se solo il fatto di impugnarla
potesse salvarlo a prescindere. «Non male, iniziamo a ragionare.» Stavolta la
prima mossa la fece Charles, eseguendo
uno sgualembro rapido parato per puro caso dal
ragazzo. Il contraccolpo fu così forte che a stento Charles trattenne la spada,
ma non perse tempo e roteò su se stesso, strisciando i piedi e colpendo per
l’ennesima volta la spada nemica con un tondo, disarmando ancora l’avversario.
Jenny
spalancò la finestra e si sporse fuori con un sorriso a trentadue denti. «Sei
bravissimo, tesoro!» Charles si girò, distendendo le labbra non appena la vide
affacciata, poi si avvicinò alla botte piena d’acqua lì vicino e ci si appoggiò
con i gomiti per riprendere fiato, mentre il ragazzo si spolverava i calzoni
sporchi di terra per riacquistare un minimo di dignità.
«La
tua tecnica è pessima, figliolo. Saresti morto sette volte»
L’altro
sbuffò, calciando l’arma a terra. «Se solo mi insegnassi a difendermi invece
che farmi cadere, forse imparerei qualcosa.» Rimbeccò acidamente.
Charles
soffocò una risata, come se insegnargli anche solo come impugnare una spada
fosse un’impresa titanica. «A furia di prendere culate per terra imparerai a
fare una parata come Dio comanda» calciò un sassolino nella sua direzione, «a
meno che tu non ci tenga a morire come un cane.» Si staccò dalla botte con un
colpo di reni e gli diede le spalle, immergendo le mani nell’acqua fredda. Si
sciacquò un paio di volte il viso sudato e il collo, poi passò le dita tra i
capelli neri e folti, bagnandoli e tirandoli indietro.
«Mi
è venuta voglia di tirare di spada» annunciai con un sorrisino.
«Cosa?!»
Ignorai gli strepiti di Jennifer e imboccai le scale. «Quel povero figliolo
riesce a malapena a difendersi e Charles ci sta andando piano! Sii ragionevole!»
Mi seguì correndo ed io sbuffai.
«Il
novellino è l’ultimo dei miei pensieri, ho voglia di divertirmi con Charles.»
Spalancai la porta ed uscii, guardando il mio pupillo rinfrescarsi e ravvivarsi
i capelli.
Mi
avvicinai con nonchalance alla sciabola britannica ancora a terra,
raccogliendola e rigirandomela in mano. Poi lanciai un’occhiata a Lee, ancora
occupato a darsi una sciacquata. «Che ne dici di un po’ di pratica come si
deve?» Sogghignai lucidando la lama.
Charles
si voltò con ancora il viso bagnato, un paio di gocce colarono dalla punta del
naso per poi schiantarsi a terra. «Perché no» allargò le braccia e riprese la
propria sciabola, asciugandosi alla bell’e meglio la faccia con la manica
sinistra, «non si nega a nessuno una possibilità.»
Mulinellai la
spada roteando il polso, portandomi di fronte a lui senza distogliere gli occhi
dai suoi. «Non credere che ci andrò leggero solo perché sei il mio allievo.
Anzi, al contrario.»
«Lo
spero, non ho bisogno di favoritismi.» Non gli lasciai concludere la frase e
scattai in avanti, colpendo la sua guardia con una stoccata. Puntai a terra il
piede destro e frenai, tentando un fendente e un tondo, e poi di nuovo una
stoccata, seguita da un ridoppio. Non andò a segno neanche un colpo, e Charles
mi obbligò ad indietreggiare provando un affondo. Lo parai e scattai di lato,
portandomi sul suo fianco scoperto, ma non mi lasciò il tempo di attaccare che
dovetti difendermi da un ridoppio da sinistra, uno sgualembro
da destra e un fendente. Risposi con un tondo e un montante, entrambi parati, mentre
il ragazzetto che poco prima si stava allenando con Charles ci fissava con gli
occhi sgranati.
Schivai
un fendente spostandomi a destra e con una falcata mi portai a mezzo metro da Lee,
afferrandolo per la camicia e sbattendolo al muro. Il gomito sinistro a
bloccargli il braccio con cui impugnava la spada, la gamba sinistra tra le sue,
la coscia premuta contro l’inguine per non farlo muovere, la mano destra a
bloccargli il polso sinistro contro la pietra grezza e fredda. «Ho vinto.»
Charles
grugnì infastidito, dimenandosi per liberare almeno la mano disarmata. «Non
ancora.» La voce era grave e tesa e aveva il fiatone. Una goccia di sudore gli colò
lungo i favoriti, mentre il bicipite destro si gonfiava nel tentativo di
contrastare la pressione del mio braccio.
Esercitai
più forza e riattaccai il polso di Charles al muro, sorridendo compiaciuto. «Arrenditi.»
«Mai.»
Scattò in avanti con il viso e indietreggiai prontamente prima che le nostre
labbra si toccassero. Questo movimento gli consentì di liberare il polso
sinistro, poi mi spinse via, tenendo la spada davanti al busto puntata contro
di me per tenermi a distanza.
Ne
approfittai per riprendere fiato, mentre l’orgoglio mi riempiva il petto.
Ripensai al ragazzo che avevo allenato nel medesimo posto circa vent’anni
prima, quello che dopo cinque parate doveva fermarsi per riposare, lo stesso
che se sbagliava si scusava e che non riusciva quasi mai a contrattaccare. Lo
avevo davanti a me, ma quella volta era un uomo perfettamente in grado di
tenermi testa, di mettermi in difficoltà, se avessi abbassato la guardia.
Addirittura sarebbe stato in grado di uccidermi, ne ero certo.
Mi
sentii decisamente più leggero, sapevo che in caso di necessità avrebbe saputo
difendersi senza problemi, ma testarlo in prima persona mi rassicurò
definitivamente. Nel caso in cui Artemas avesse
deciso di farla pagare a Lee, beh, avrebbe avuto pane per i suoi denti. E se
gli fosse successo qualcosa?
Mi
destai appena in tempo per vedere Charles prendere la rincorsa, saltare ed
eseguire un’imboccata. Riuscii a mettere di piatto la spada e deviare il colpo,
poi indietreggiai per evitare un affondo. Parai tre attacchi di fila e risposi
con un tondo che Lee deviò facilmente, poi parai una stoccata seguita da uno sgualembro, lasciando il fianco sinistro scoperto. Fu un
dettaglio che non sfuggì al mio pupillo, che si affrettò ad oltrepassare la mia
guardia con un ridoppio. Non mi accorsi nemmeno che frenò bruscamente
l’attacco, dandomi un colpetto sul fianco con la parte piatta della lama. Mi
sorrise quando alzai lo sguardo su di lui e non riuscii a trattenermi, conficcai
la sciabola a terra, sorrisi di rimando e gli afferrai una spalla, attirandolo
a me e stringendolo forte.
La
risposta mi fu chiara: se gli fosse successo qualcosa ne sarei morto. Poco ma
sicuro.
Sentii
gli occhi pungere quando Charles ricambiò la stretta con un braccio, dandomi
poi una pacca sulla schiena e arpionandomi la camicia. Dio, quanto gli volevo
bene.
Affondai
il viso nell’incavo tra la spalla e il collo. «Sei stato bravo» sussurrai
appena. Gli diedi una pacca sull’altra spalla per avvalorare le mie parole e lo
immaginai mentre sorrideva orgoglioso.
«Haytham…» Mi voltai a sinistra e vidi Connor. Quando era entrato?
Era pallido, un’espressione sconvolta ad occupargli il viso al posto di quella
apatica e indifferente che solitamente aveva. Due occhiaie gli infossavano gli
occhi, le spalle ricurve e deboli.
«Ragazzo,
qual buon vento?» Sciolsi l’abbraccio con Charles e avanzai di qualche passo
verso mio figlio, che mi fissava con aria stanca e stralunata. «Non hai un
bell’aspetto, è successo qualcosa?»
«Ce
l’ha lui» disse solamente. Lanciai un’occhiata a Charles, sperando che avesse capito
qualcosa in più di me, ma anche lui fissava Connor
con occhi sgranati.
«Chi
ha cosa? Spiegati.» Deglutì sfregandosi il braccio destro con la mano sinistra,
poi prese fiato.
«Achille.
Ha la mela e l’ha usata contro di me.»
Salve a tutti, lol.
Ebbene sì, è proprio come
pensate –nel caso steste pensando la cosa giusta, ewe-.
Connor non era e non è pazzo. Su, almeno stavolta che
non sono in ritardo clamoroso non la tiro per le lunghe, grazie come sempre a
chi legge e un biscottino caldo a chi recensisce, aaww,
vi adoroh (?).
A lunedì prossimo! :3