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Autore: Melian_Belt    12/03/2015    7 recensioni
"Ho sempre guardato gli altri dall’alto in basso, disgustato dalla loro semplicità, dai loro aspetti banali, chi è questa creatura che in un momento di mia simile debolezza mi sta davanti?
Accenna un sorriso sulle labbra sottili, gentilezza ed eleganza solo nel modo in cui mi tende la mano guantata. Dev’essere l’alcool che mi fa sentire così in soggezione, che fa battere il cuore contro la cassa toracica, proprio a me che sono un’inarrestabile macchina da guerra, fatta per schiacciare gli altri sotto le scarpe."
Per chi mi conosce, prima ero Melian92! Buone feste a tutti!
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il sole brucia i sassi nell'aria pigra dell'estate, mentre un gabbiano strilla amaro nel cielo sopra il paese. Ormai è diventata un'abitudine venire a fare due passi nelle sue strade, sempre vuote nelle ore dei pasti. Ora devono essere tutti a pranzo, chiusi nella rassicurante puntualità della loro abitudine, come i personaggi di uno spettacolo ben organizzato. I sassolini che costellano la stradina scricchiolano sotto le mie scarpe e continuo a camminare meccanico su di essi, il passo lievemente ciondolante sotto la calura. Non so bene che giorno sia oggi…ma devo essere qui da abbastanza tempo. Mi guardo alle spalle, aspettando che Richard mi raggiunga come un'ombra, ma non lo sento. Scrollo il capo, intorbidito dal caldo che distorce le cose col suo vapore. La maglietta di cotone rigido che indosso mi sta un po' grande, non la mettevo da anni, ma almeno è leggera e fresca, avendola messa solo da pochi minuti. I pantaloni sono forse un po' troppo pesanti per una giornata del genere, ma con quelli corti sembro un merlo.

Tengo una mano nella tasca, stretta intorno all'orologio di mio nonno. Brav'uomo, lui, forse un po' metafisico, più nel suo mondo che in quello degli altri, ma comunque un uomo abbastanza dolce, a ricordarmelo. Spero di riuscire a farlo aggiustare, un giorno, ma qui in zona non saprei dove andare. Quando l'ho trovato in un vecchio cassetto, abbandonato da decenni, la casa si è riempita di un'anima in più, che a mio disonore avevo lasciato cadere nell'oblio. Ero piccolo quando se n'è andato, ma più che altro avevo voluto dimenticare. Poi in questi giorni, nel silenzio delle grandi sale vuote, mio nonno è tornato ad abitarle con me. L'ho visto affacciato alla finestra del suo salottino, intento a fischiettare monotono agli uccellini mentre gli tirava il pane. Era convinto che venissero al suo richiamo e da bambino pensavo fosse una storia, come quella di Babbo Natale, perché mio padre diceva che era un'assurdità. Eppure nonno ci credeva.

Al momento, sono propenso a crederci anche io. Una cosa di cui mi ero completamente dimenticato, che col suo ricordo ha riportato una cascata di memorie, era il rituale prima di cena, l'unico momento in cui io e i miei cugini riuscivamo a stare insieme.

Ci riuniva vicino al camino, fosse inverno o fosse estate, e raccontava storie siciliane, con l'accento ben presente ma per nulla calcato, che in quei momenti mi pareva un po' un codice di famiglia. Spesso raccontava di un personaggio di nome Giuffà, ma delle vicende ricordo ben poco. Qualcosa su una porta, su un asino…poi veniva a chiamarci una delle cameriere, l'incanto finiva. Passavamo alle finestre in un piccolo corteo silenzioso, nonno che si accendeva al volo una pipa. E sempre a quell'ora, puntuale ogni giorno da anni, il giardiniere alzava un braccio, ogni volta il destro: "A dumani, principali!".

Mio nonno rispondeva con un cenno della mano e con quel sorriso eterno diretto al tramonto, rosso, rosa, viola in dipendenza della stagione. Ma quante cose ho dimenticato…quel giardiniere, il suo saluto sempre uguale ora penso fosse una forma di benedizione, al mio nonno principe che l'aveva preso a lavorare nonostante una gamba storpia e una mano senza tre dita. Si diceva che l'avesse colpito un fulmine, un giorno in cui non pioveva nemmeno.

Chissà in quale di queste case abitava, quel personaggio che nella mia testa ora appare tanto come un personaggio di favole popolari, un po' il Giuffà di casa nostra.

Quando arrivo alla piccola libreria del paese, mi fermo a guardarmi intorno. Niente, sono ancora solo. Con un sospiro mi porto indietro i capelli dalla fronte ed entro, accompagnato da un tintinnio stranamente stonato, storpio. Dentro non si vede nessuno e guardo dietro ai brevi scaffali di legno chiaro, usurato dagli anni. Studio la porta e non c'è nessun cartello, anche se dentro sembra chiuso. Avrebbe senso, forse sono a pranzo anche loro.

"C'è nessuno? Scusate?".

"Sì…sì arrivo" una voce di donna anziana arriva da una stanzetta sul retro, coperta da una tendina color lavanda che arriva fino al pavimento. Si scosta leggera quando una mano rugosa la accompagna da un lato. "Mi scusi, ma non viene quasi mai nessuno e…".

Si ferma, le dita vissute poggiate piano sul muro: "Oh…voi siete…".

È così strano essere riconosciuto da persone che io invece non so chi siano. Avrei creduto mi avrebbe dato fastidio, invece mi fa quasi sorridere, perché il loro riconoscimento mi fa sentire parte di qualcosa, nonostante negli ultimi anni me ne sia staccato violentemente.

Le sue spalle si rilassano e porta una mano sul petto, sorride piano. Forse senza accorgermene le ho sorriso prima io.

"Come somigliate a vostra madre…ricordo vostra nonna, giocavamo insieme".

Spalanco gli occhi, preso alla sprovvista, come se avessero appena trascinato qualcosa da un mondo alternativo, in questo.

"È…la prima volta che qualcuno me lo dice. Lei è…" mi schiarisco la voce. "…molto più giovane".

"Oh sì…ma non c'erano molti bambini qui. E noi vivevamo nel casale vicino alla villa, quello che adesso è tutto a pezzi. Così bella, fin da piccola, sì…e quando ha sposato il principe. Ho visto il matrimonio da lontano, quel grande vestito bianco. Francese, sì era francese".

Ho visto quel vestito in una foto, me lo ricordo vagamente. So che lo hanno rubato, insieme a molte altre cose, poco dopo la morte di mio nonno. Mi chiedo chi possa rubare un abito da sposa, che cattiveria inutile. Mia madre avrebbe tanto voluto indossarlo, ma una parte di me è quasi lieta che il tocco gentile del nonno non sia stato coperto da quello arrogante di mio padre .

Vorrei dirle molto cose, essere particolarmente cordiale. I suoi occhi hanno visto la mia famiglia dove io l'ho abbandonata, ho la strana sensazione di avere davanti un nume della nostra casa. Ma mi schiarisco la voce, mettendo a tacere questi pensieri di anomala sensibilità.

"Stavo…stavo cercando un libro di favole, con Giuffà, ha presente…".

Inarca le sopracciglia, sorpresa. Poi le rughe del viso le si piegano dal dispiacere: "Oh…mi dispiace, non ne abbiamo. Ma lo possiamo ordinare per voi, credo".

"Sì, va bene grazie. E mi dia del tu, signora…".

"Angela".

"Angela".

"Ci potrebbe volere un po' di tempo".

"Rimarremo ancora per qualche tempo".

Sbatte le palpebre e non riesco a capire perché. Sembra voler dire qualcosa, ma lo tiene nelle labbra sottili. Sospira, si torce le mani sottili.

"Stare da solo in quella casa abbandonata…non so davvero come si possa".

Rimango di stucco, le mani cascanti sui fianchi: "Come da solo?".

I suoi occhi verde torbido mi guardano tristi, un po' incerti, un po' confusi, ma non credo di riuscire a decifrarli del tutto.

"Se avesse…avessi bisogno di parlare con qualcuno, vieni pure a trovarmi. Io sono qui a quest'ora, in genere c'è mia figlia. A stare sempre soli, i pensieri possono farsi pesanti…".

"Davvero…in che senso solo?".

Lei si irrigidisce, come se qualcuno l'avesse pungolata con uno spillo. Quando il campanello tintinna, mi giro con la fronte corrucciata. Si distende quando Richard entra, una sagoma scura contro l'aria lucente alle sue spalle.

"Che fine avevi fatto?".

Sorride, togliendosi gli occhiali da sole. "Mi ero fermato un attimo a guardare. Non ero mai sceso in paese".

"Già…al punto che tutti credevano parlassi con un fantasma".

Mi giro verso Angela, che fissa Richard con occhi sbarrati, la pelle impallidita. Sembra in procinto di farsi tre segni della croce. La vista mi fa scuotere il capo con un cipiglio: "Giusto, signora?".

  
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