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Autore: _unintended    12/03/2015    2 recensioni
Bandit prese tra le mani una foto rovinata e ingiallita che ritraeva la sua famiglia, tutti e tre insieme seduti al divano della loro vecchia villa, quella vicina al lago, dove aveva passato tutta l’infanzia. Vide se stessa sulle ginocchia di sua madre, che la stringeva protettivamente, e vide suo padre, in tenuta militare, con quello sguardo intenso che lo aveva sempre caratterizzato fino all’ultimo istante della sua vita. Quello sguardo intenso che soltanto un’altra persona, in tutto il mondo, aveva saputo sostenere e ricambiare altrettanto intensamente. Soltanto una.
Quella sbagliata. In tutti i sensi.
"Se vuoi che non butti questi scatoloni non c’è problema, sai?"la rassicurò sua nipote vedendola così turbata.
"Sarah"
"Sì?"
"Devo raccontarti una storia."
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Bandit Lee Way, Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo capitolo è un mix assurdo di ansia e dolore e boh, enjoy it e non arrabbiatevi con me pls pls: (
 
 
 
CAPITOLO 25 – CARRY ME TO THE END
 
 
FRANK
 
 
“Ciao Frank. Non so nemmeno come iniziare questa lettera.”
Respira.
Prendi un mattone.
Sollevalo.
Respira ancora.
“…perché vorrei assurdamente essere anche soltanto una carta, pur di vederti e starti vicino.”
Respira.
Metti la calce.
“La morte mi striscia accanto ogni giorno, Frank”
Trattieni la tosse. Non tossire, o non ti fermerai più. Ce la puoi fare. Prendi un altro mattone. Metti la calce. Inspira ed espira. Recita a bassa voce la lettera di Gerard. Non tossire. Ce la puoi fare.
Ce la puoi fare.
Non so quando ho iniziato a pensare come se mi stessi incitando da solo. So soltanto che va avanti da giorni, ormai.
Mi dico quello che devo fare, e lo faccio. Mi dico come lo devo fare e lo faccio. Mi dico che lo posso fare, e lo faccio.
“Solo che… ci credi che non riesco a pentirmi di ciò che abbiamo fatto prima che io partissi? Non rimpiango nulla di quel giorno. Nulla.”
Le parole mi escono fuori in un sussurro appena accennato, come se fatichino a lasciare la mia bocca, come se anche loro siano stremate, stanche morte di questa situazione, di questo tutto.
Non sapevo di avere imparato la lettera, quella lettera a memoria. L’avevo riletta quasi una decina di volte in Italia, prima che mi prendessero, sì, ma non sapevo di averla memorizzata a tal punto. E invece adesso, da qualche giorno a questa parte, come un crudele scherzo della sorte, me le ritrovo nella mia mente.
Premono, spingono, vogliono uscire.
Quelle parole.
Le sue parole.
“E lo rifarei altre mille vo…”
La voce mi si spezza, le lettere si accavallano le une sulle altre e si mescolano, e nel giro di un secondo sto tossendo.
Oh, no no no.
Cerco di fermarlo, cerco di continuare a lavorare, provo, annaspo, ansimo, ma eccolo lì, ecco il sangue che macchia il terreno ghiacciato, ecco il resto dei miei compagni che mi fissa a metà tra il compassionevole e il timoroso, e so che a breve mi vedranno i soldati e capiranno che c’è qualcosa che non va e la mia vita finirà.
In realtà è già finita, e io lo so. Non mi importa. Non mi importa più nulla.
Dio, lo desidero. Lo desidero così tanto. Che finisca. Che finisca e basta. Niente più dolore, niente più freddo, niente più fame, niente più ricordi amari o incubi. Sarebbe un sollievo.
Per favore, per favore.
Ho capito di non avere più nulla a cui aggrapparmi quando ho chiesto aiuto a Joshua.
Joshua è l’unico medico ebreo che abbiamo nel campo, e non so se sia stata più una fortuna o una sfortuna che fosse nel mio stesso dormitorio. È a lui che ci rivolgiamo tutti quando crediamo di avere qualcosa che non va, quando pensiamo che le nostre forze stiano per finire, quando non ci rimane più niente se non una misera speranza di poter guarire. Lui non può fare molto, certo, ma le sue diagnosi, buone o cattive che siano, in qualche modo tranquillizzano la gente.
Joshua dice la verità, e lo apprezziamo. È l’unica cosa che la gente desidera, qui. La verità, nuda e cruda, basta che sia vera.
“Morirai” dice, e la persona che gli sta di fronte lo accetta. Se ne fa una ragione, comincia a conviverci, lascia che quel pensiero influisca su tutto ciò che fa, e alla fine succede. Si avvera.
“Non è grave, ma tieniti al caldo” e la persona che gli sta di fronte lo accetta. Si comporta di conseguenza. Si tiene al caldo. E alla fine riesce a resistere, almeno per un altro po’, proprio come aveva detto Joshua.
Qualsiasi cosa dica, il messaggio dei suoi occhi gentili e bonari è lo stesso: “Andrà tutto bene”. E ci crediamo tutti. Almeno per quel poco che ci basta.
All’inizio non volevo. Non sono mai stato completamente solo da quando sono arrivato qui, ho sempre avuto il sostegno e i consigli di Rayon, e ora senza di lui mi sento completamente perso.
Avevo stabilito di non voler sapere. Non volevo sapere niente.
Ma con i giorni sono peggiorato. La tosse è diventata più insistente, le mie forze più deboli, e ho iniziato a non ragionare più.
Non è stato un trancio netto. Solo che… lentamente, inesorabilmente, pian piano, questa cosa mi ha divorato. Non capivo più nulla. Lavoravo come un automa. Non pensavo. Non parlavo. A malapena mangiavo. Respirare è diventato sempre di più uno sforzo.
E mi sono detto che se dovevo morire almeno dovevo saperlo. Non poteva succedere a mia insaputa. Dovevo saperlo, farmene una ragione proprio come tutti gli altri, accettarlo e far sì che si avverasse.
Per questo ho chiesto aiuto a Joshua.
La sera, prima di andare a letto, mi sono trascinato a fatica, tossendo, verso il suo giaciglio e l’ho svegliato.
“Ah, tu” ha detto, tirandosi su a sedere e stropicciandosi gli occhi. “Sapevo che saresti venuto, prima o poi”
Non ho mai avuto granché coraggio nella mia vita, e lo sapete bene.
Ma in qualche modo ho trovato la forza di dirgli tutto. Ho ingoiato il groppo amaro che avevo in gola, e gli ho descritto i miei sintomi. Gli ho detto della tosse devastante, dei polmoni in fiamme, della sensazione di stare per annegare da un momento all’altro, e di come avessi mal di testa a tutte le ore del giorno, un mal di testa opprimente che mi impediva anche soltanto di pensare. Gli ho detto che probabilmente ho la febbre da giorni, perché tremo di freddo e sono bollente e mi mancano le forze e non ce la faccio più, non ce la faccio più per davvero e doveva aiutarmi.
 Gli ho detto tutto questo.
Non so come, ma gliel’ho detto.
E Joshua si è intristito, si è intristito davvero e si è passato una mano sul volto, sospirando piano. “Nel migliore dei casi è soltanto una polmonite.” mi ha detto, e io stavo quasi per esultare.
Quasi.
Poi ha parlato di nuovo.
“Nel peggiore, tubercolosi.”
Ed è lì che sono morto.
È stato come… è stato come essere travolti da un’auto, o qualcosa del genere. Un attimo prima sei qui, in piedi, in mezzo alla strada, e ti guardi intorno confuso chiedendoti se riuscirai mai a trovare casa, e un attimo dopo ecco delle luci che ti abbagliano. E poi sei morto.
Sbam. Morto.
Travolto dalle ruote dell’auto, ed è così veloce che non senti nemmeno il dolore. E capisci che non troverai mai casa, non potrai più salire sulle scale del portico e bussare e aspettare che qualcuno a cui tieni venga ad aprirti, non potrai mai essere abbracciato da quelle braccia, non potrai mai entrare dentro e sentire il calore e l’odore familiare di quelle quattro mura.
Sei morto e non puoi farci nulla. Te ne stai lì, immobile, sbalzato sul ciglio della strada, sdraiato sul freddo asfalto. Non riesci a pensare. Non riesci a muoverti. Ti eri sempre chiesto quale sarebbe stato il tuo ultimo pensiero, o le tue ultime parole, ma adesso non riesci proprio a fare nulla. Niente di niente.
E quando verranno a prenderti? Perché verranno a prenderti, vero? Devono venire, qualcuno ti terrà tra le braccia e ti porterà al caldo, e anche se tu avrai già perso completamente il contatto col mondo saprai di non essere morto da solo, saprai di avere avuto qualcuno accanto in quegli ultimi attimi.
È questo che mi è successo sentendo le parole di Joshua. Lui mi ha detto che gli dispiaceva, ma che se davvero fosse stata vera la seconda opzione, potevo già considerarmi finito.
Non ha cercato di indorarmi la pillola. Non mi ha posato una mano sulla spalla dicendo che sarebbe andato tutto bene. No. Mi ha detto queste parole, e poi si è coricato di nuovo, dandomi la buonanotte.
È così che va. O lo accetti o non lo accetti, ma per te finirà comunque. L’unica cosa che puoi scegliere è come finirà.
Io sono morto. Sono già morto, semplicemente. Non so come voglio che finisca, perché in realtà è già finita.
Non ho detto niente a Rayon. Non la vedo da giorni, ormai, ed è meglio così.
Non voglio… non voglio che mi veda in questo stato. Lei sta bene, è al sicuro nella villa di Quinn, e vivrà ancora per un bel po’. Almeno un bel po’ più di me. E questo mi basta.
 
 
È un’agonia. Una lenta, lentissima agonia.
Non sento quasi più nulla. Non riesco a sentire nulla sopra il suono dei miei ansiti, non riesco a vedere nulla se non il sangue che accompagna quasi sempre la tosse, non riesco a pensare a nulla se non al mal di testa incessante, al tump tump nel mio cervello che non smette, non smette, non smette.
Non so quanto tempo sia passato.
Forse una o due settimane.
Forse un mese.
Forse due.
Forse tutto questo durerà per sempre.
Oh, sono così stanco. Così dannatamente stanco. Non mi sono mai sentito così stanco in vita mia. Così stanco di alzarmi la mattina e vedere soltanto facce straziate dal dolore, neve ovunque e il recinto, il recinto è dappertutto, ti volti e lo trovi lì, a sbarrarti la vista, e vorrei tanto sapere cosa c’è lì fuori, vorrei tanto… vorrei….
Il mio cervello è stufo di elaborare pensieri. Non ce la fa. Sta messo peggio di me, e lo capisco. Vorrei dirgli che mi dispiace. Che forse doveva trovarsi un altro corpo in cui soggiornare, qualcuno più fortunato, più intelligente, più sano. Vorrei scusarmi per questi ragionamenti senza senso, vorrei disperatamente qualcuno con cui parlare, vorrei Mikey da abbracciare, Gerard da baciare, Jamia con cui ridere, la spalla di mia madre su cui piangere.
Voglio tanto cose.
Non voglio essere morto. Voglio svegliarmi. Voglio riavvolgere il tempo, tornare a due anni fa, tornare al mio primo giorno di scuola, al primo sguardo di Gerard, alle sue prime parole, al suo primo sorriso. Voglio tornare al primo bacio, a quella sera davanti casa, alla sua bocca sulla mia e all’oblio che l’ha accompagnata, quel nulla senza preoccupazioni, quella certezza che tutto sarebbe andato per il meglio, e che noi saremmo durati per sempre.
“E lo rifarei altre mille volte” sussurro al soffitto del dormitorio.
Mi stringo al petto il sottile pezzo di tela che funge da coperta.
Così freddo. Fa così tanto freddo.
Tossisco ancora.
“Ti bacerei altre mille volte, e farei l’amore con te altre mille, diecimila, centomila volte senza mai fermarmi, senza mai stancarmi.”
Dio, Gerard.
Lo senti? Lo senti questo freddo che mi sale lungo le gambe, lungo la spina dorsale, e che mi paralizza il cervello?
Non… non sono pronto. No, io non sono pronto. Non sono pronto a questo. Sono troppo codardo per essere pronto a chiudere gli occhi un’ultima volta.
Ancora un sussurro.
Ce la posso fare.
Avanti.
Ma non ci riesco.
Le palpebre mi si abbassano. Le mie mani smettono di stringere convulsamente la coperta. Qualcosa mi afferra il petto, qualcosa di grosso, degli artigli, e vorrei urlare, non ho mai avuto così tanta voglia di urlare in vita mia, ma posso soltanto spalancare gli occhi verso l’alto, aprire la bocca per provare a dire qualcosa, e e e e
E
c a d o .
 
 
 
 
C’è qualcuno che prova a farmi aprire gli occhi. Ci sono delle mani che mi strattonano, mani sconosciute, e mi sento riportare assurdamente indietro. Ero scivolato e stavo cadendo, cadevo e cadevo e cadevo, ma adesso….
“Frank”
No.
No ti prego non farmi questo.
Non voglio ascoltare.
Provo a muovere le braccia ma c’è qualcuno che me le tira, ci sono tante mani, milioni di mani che mi trascinano, o forse soltanto due, o forse sto immaginando, ma non voglio sentire di nuovo quella voce.
Un ultimo, crudele, scherzo della sorte. No.
Basta.
Basta, vi prego.
“Frank!”
Lo sento.
E non so come, non so perché, non so nemmeno cosa diavolo stia succedendo, ma apro gli occhi.
Apro gli occhi, e lo vedo.
Dio, è tutto un sogno. Mi sveglierò nell’aldilà, o non mi sveglierò affatto, e soffrirò. Non posso… questo non può essere il mio ultimo sogno. Perché devono essere così crudeli con me perché perché perché.
Lo vedo venire verso di me.
Viene proprio verso di me. Sta correndo all’impazzata per raggiungermi.
È un sogno è un sogno è un sogno ma
Ma è lui, è bellissimo, e non capisco perché stia indossando una divisa da tedesco ma è lui, è davvero davvero davvero davvero Gerard.
E poi si ferma.
Mi guarda.
Ed io gli svengo tra le braccia.
 
 
 
   
 
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