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Autore: tixit    14/03/2015    12 recensioni
Ripensando al giorno in cui lui le disse che era solo una rosa e non un lillà.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di chiunque possieda diritti su Lady Oscar, al seri, i Manga, il film ... questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro'. 

 

Una stupida


Io non sono stupida e lo so.

Forse non faccio sempre la cosa più intelligente, è vero .A volte mi pare di prediligere, piuttosto, quella più corretta.

Magari non sempre proprio quella più corretta per me, o per quelli a cui voglio bene.
Forse non la più corretta verso quelli che mi vogliono bene, me ne rendo conto, anche se a volte so che non sembra... ho sbagliato spesso, lo so.
Piuttosto quella più corretta per tutto il mondo da cui provengo, per i valori in cui sono stata educata, per quelli in cui credo.

Per mio padre, qualcuno direbbe, ma non è proprio così, se fosse sempre stato così, solo questione di accontentare qualcuno, una persona sola e nemmeno tanto complicata nei suoi desideri, senza dover per forza crederci, a quei desideri, in coscienza, tutto sarebbe stato molto semplice.

Per cui, lo so, non sempre faccio la cosa più intelligente, a volte faccio la cosa più stupida, ma io, personalmente, non sono stupida.


Eppure sono vissuta per tanto tempo senza capire una cosa molto semplice, una cosa così semplice che una stupida - o una solo un pochino meno stupida di me - avrebbe saputo.

Successe il giorno in cui un mio amico, forse il mio unico amico, mi disse che, per quanto io mi potessi sforzare, avrei potuto essere solo quello che ero. Nulla di più.

Potrei dire che fu più poetico nella scelta delle parole e sarei sincera: lo fu. Mi paragonò ad una rosa.
Potrei dire che non fu gentile e sarei sincera: non lo fu.
Potrei dire che non fu delicato e sarei sincera: non lo fu.

Ma non fu quello che mi sconvolse, non fu la paura di qualcosa che tanto non sarebbe mai accaduto, non in quel modo almeno, ne ero certa... fu piuttosto capire di colpo che lui era più forte di me.

Che stupida vero? Un uomo è sempre più forte di una donna. Sempre.

Si, tutti conosciamo almeno un uomo molto delicato ed almeno una donna molto muscolosa e sappiamo che “lei” è più forte di “lui” almeno in quel caso, quel singolo caso... ma in media, se prendiamo una donna qualsiasi ed un uomo qualsiasi, scopriamo che è così: uomini forti e donne meno forti. Non necessariamente più deboli, semplicemente meno forti.

Non è una cosa che dovrebbe stupire, succede pure con la maggior parte degli animali, il maschio mediamente è più forte.
Ma io ero stata talmente convinta di quello che ero e di quello che non ero e soprattutto di quello che avrei potuto essere solo volendolo, che non lo avevo mai capito.
Che lui fosse più forte di me, intendo.

Mi ero spintonata, picchiata, rotolata nel fango, sotto la pioggia, rabbiosa, con un uomo, per anni.
Lo avevo preso a schiaffi e a pugni, lo avevo provocato... e avevo pure vinto con lui. Vinto.
Davvero ogni volta avevo vinto?


E non avevo mai pensato al fatto che lui era più forte di me.

"Così mi fai male."
Non era la prima volta, avevo tutta una storia di vecchi lividi oramai scomparsi che potevano provarlo, provare che io gli facevo male e che lui, nel suo modo asettico, senza rabbia, capitava facesse male a me.
Non ci ho mai fatto veramente caso: dove c’è contatto fisico, capita.
Così come se vuoi andare a cavallo e saltare un ostacolo, se lo vuoi fare regolarmente, capita di cadere.

Se non ti sta bene farti male, non lo fare. Piuttosto gioca a scacchi.
Se lo vuoi fare, allora accetta che qualche volta ti farai male.

Ma quella fu la prima volta che compresi sul serio che lui era più forte di me.




Se uno spadaccino deve imparare ad usare la spada si deve esercitare, e, per esercitarsi, serve un compagno.
Ma quel compagno non può essere meno bravo dello spadaccino, altrimenti si ferirebbe ogni volta, e magari, addirittura, morirebbe: per essere un compagno di un allenamento quotidiano, per esserlo per tanto tempo, deve essere tanto bravo quanto il primo spadaccino.
Non ce n’è.

E se il primo spadaccino non si controlla, non ci pensa mai all’altro, se non per il gusto di vincere, con un atto di spavalderia, la punta della spada che si arresta a pochi millimetri dalla gola, il sorriso trionfante della vittoria che uno crede guadagnata e pure facilmente... se pensa solo a quello, che vuole vincere e vincere con una spada vera, nemmeno con una spada da allenamento... allora non pensa a tutto il resto, non pensa che l’altro potrebbe distrarsi, o sbagliare, o essere più lento nel calcolare cosa potrebbe fare l’altro, o non prevedere, o mettere i piedi nei posti sbagliati... se uno non ci pensa, allora ogni volta si allena al massimo di quello che sa fare.
E che il resto del mondo si arrangi.

Perché nessuno si faccia male tocca che l’altro pensi per tutti e due, pensi a dove si muove mentre arretra, a cosa c’è o non c’è dietro di lui, cosa davanti, se il terreno gli è amico o nemico... e bisogna pure che pensi a cosa farà il primo spadaccino, a cosa c’è dietro il primo spadaccino e cosa davanti a lui e preveda dove lo spadaccino metterà i piedi.

Tutto perché il primo spadaccino non si faccia mai davvero male.

Bisogna che stia bene attento a non ferirlo mai, a sorprenderlo, ma mai più di tanto, a metterlo in difficoltà, ma mai più di tanto. Perché lo scopo non è battere lo spadaccino, lo scopo è che lo spadaccino impari, perché sia autosufficiente per la vita che vuole fare.
Lo spadaccino non deve vincere facilmente: deve essere tutto difficile il giusto.
Il compagno, quindi, deve essere sempre molto controllato. 
E pensare, sempre, a proteggere se stesso. Sempre.
Perché l’altro, lo spadaccino, a lui, al suo compagno, non ci pensa.

Non in quel modo lì, almeno.

Non per cattiveria, semplicemente crede in una eterna fortuna, che il mondo sia un posto bellissimo, e che agli amici non succeda mai niente di male.
Crede di sapere tutto e di potere fare tutto.

E, ammettiamolo, lo spadaccino crede di non avere bisogno di nessuno, nemmeno della persona con cui si allena ogni giorno.
Altrimenti ogni tanto si fermerebbe a pensare a tutto quello che potrebbe succedere e allora, semplicemente, non potrebbe, non potrebbe più.

Conservi con tanta cura le tue camicie, le tue giacche, un ciondolo che ti ricorda tua madre, una vecchia medaglia di tuo nonno... cose che non graffieresti, non urteresti mai, non le colpiresti mai di proposito, ti piangerebbe il cuore... perché ci tieni, rappresentano il tuo mondo. O, quanto meno, una sua parte rilevante.
E poi... sei capace di tanta noncuranza verso una persona, che ti è accanto ogni giorno. Una persona che non ti fai scrupolo a graffiare, colpire, spingere, urtare, mettere in pericolo.
Perché, ammettiamolo, tu non lo capisci quanto ti piangerebbe il cuore... più che per una vecchia camicia, o per quel ciondolo che hai da sempre, chiuso con cura in un cassetto.

Non è cattiveria, è peggio: è stupidità.

L’ho detto: io non sono stupida.
Eppure sono stata una stupida per tanto tempo, una bravissima spadaccina, stupida, che quando si batteva davvero, vinceva, facendo male al suo avversario, e non si chiedeva mai perché quando si batteva con il suo migliore amico, lui non si facesse mai seriamente male.

Se dicessi che in quel momento non ne fui terrorizzata, non sarei sincera: lo fui, eccome se lo fui.

Terrorizzata e in lacrime e senza parole. Senza parole vere per dire cose vere, solo che avrei dovuto chiamare aiuto, ma chiamare poi chi, va a sapere, e aiuto per cosa, io nemmeno lo sapevo... aiuto per rimettere tutte le cose al loro posto, come se fosse facile.

Terrorizzata perché capivo di colpo come lui avesse sempre, dico sempre, pensato per tutti e due, perché non ci facessimo mai veramente male, a parte i soliti lividi da ragazzi. Niente rispetto a tutto quello che sarebbe potuto capitare.
E, ad essere sinceri, capivo come avesse sempre pensato più a me, perché potessi essere quello che volevo essere, arrivandoci preparata. Anche se a lui, di quello che avevo scelto di voler essere, lo capivo, non importava poi granché - non era quella la scelta che mi avrebbe suggerito, non era nemmeno quella che avrebbe preso al posto mio. Semplicemente era stata la mia scelta e non c'era bisogno che per lui avesse un senso.

Terrorizzata perché vedevo di colpo come sarebbe stato quando lui avesse smesso di pensare per tutti e due, e prima o poi avrebbe smesso, forse lo stava già facendo, perché avrebbe dovuto continuare a farlo per sempre? Perché io gli ordinavo di farlo e poi di non farlo?
Non mi era dovuto, in fondo, che pensasse a me, che mi lasciasse sempre la parte migliore, perché io a lui, a quello che desiderava, a quello che aveva dietro e davanti e, soprattutto, dentro di sé, io... io non ci pensavo proprio.

Una stupida.

   
 
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