Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rory Lannister    15/03/2015    1 recensioni
[AU. Tywin/OC. Implied Aerys/Joanna. Implied Olenna/Luthor]
Tywin Lannister ha vent’anni ed è pronto a ricevere la fortuna della Rocca, fatta di gioielli e cause millenarie, in eredità. Aurora Redwyne non è che una giovane donna alla ricerca del suo posto nel mondo, con una famiglia agli albori della nobiltà. In una Westeros ottocentesca i due si troveranno a confrontarsi con una politica corrotta e una lotta senza fine per l’agognato soglio presidenziale. Perché al gioco dei troni, in qualsiasi tempo e in qualsiasi dimensione, o si vince o si muore.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tywin Lannister
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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II

Un leone non s’interessava della morale del volgo.
Un leone si ergeva vigoroso e inattaccabile nella sua Rocca splendente.
Un leone non trascorreva il proprio prezioso tempo rimuginando su quanta attenzione dovesse esercitare per non calpestare un papavero vermiglio.
Prendeva ciò che desiderava e non si curava d’altro che dei propri interessi.
Per questo Tywin, che era il leone più maestoso dalla morte di suo nonno Gerold, si stava maledicendo da ore.
Quella dannata Redwyne aveva intaccato la fredda corazza della sua mente, aprendo una breccia pericolosa, aggiungendosi alle preoccupazioni circa la sua nobile casata e la progressiva decadenza che suo padre, una fiera senza artigli, le stava arrecando.
La sera prima il disgustoso commento di Aerys sulle sorelle di Arbor l’aveva portato ad osservarle.
La maggiore aveva gli occhi acquosi e le labbra petulanti. Appariva come una vite secca e spoglia da vent’anni se confrontata con la fulgida avvenenza della mezzana dal sorriso predatore che gli riportava alla mente Genna.
Colei che, però, Tywin aveva guardato con più insistenza era la minore.
Era stato attento come sempre a celarsi dietro il calice di vino annacquato, come Aerys non mancava mai di sottolineare derisorio, l’indice puntato sulle labbra carnose, il capo rivolto all’erede, e la coda dell’occhio smeraldino verso la fanciulla.
Aurora Redwyne.
Aerys l’aveva considerata più della maggiore, ma non tanto quanto avrebbe meritato.
La sua avvenenza era discreta, delicata come lo stelo di un fiore, un alone di luce che brillava nella nebbia. Un uomo più appassionato di lui si sarebbe facilmente potuto innamorare di quegli occhi azzurri che sembravano urlare di non dimenticarsi di loro.
Sapevano come esprimersi, quegli occhi, come mostrarsi senza difese e proprio per quel motivo, al meglio delle proprie forze.
Tywin li aveva notati quella mattina.
La camiciola macchiata di rosso, - rosso Lannister, rosso puro-, era l’unico testimone di quel dialogo silenzioso.
Aveva notato il timore, celato abilmente dalla fermezza delle spalle esili e strette e delle dita affusolate, cedere il passo alla rabbia dettata da quell’atteggiamento distaccato e gelido che il giovane manteneva con la maggior parte dei suoi interlocutori, per giungere, infine, a un senso di sfida che l’aveva turbato.
Quella fanciulla era la creatura più inconsueta che avesse mai incontrato.
Per alcuni inconsueto equivaleva a pericoloso, ma non per Tywin Lannister.
Il leone della Rocca, alle soglie della maturità che avrebbe rappresentato un confine per tutta Westeros, trovava quegli occhi cangianti meramente ammalianti. 
La ragazza che li possedeva ancora di più.
In un gesto d’irritazione si tolse la camiciola e la gettò a terra, vicino alla gamba bombata del tavolo di mogano.
Dopo aver salutato con un cenno il giovane Steffon, era tornato nelle sue camere all’ultimo piano della magione, nella zona riservata alla nobiltà più antica. Erano ariose e il Sole le illuminava senza riscaldarle più del necessario.
Si passò la mancina sugli occhi gelidi e si accomodò sulla poltrona dinanzi al camino spento.
Regnava l’Estate a Westeros, sebbene l’Inverno fosse sempre in agguato, come amavano rammentare gli Stark.
Aurora Redwyne era l’Autunno, la quiete che faceva da scudo alla tempesta, mite e allo stesso tempo dispettosa come una brezza improvvisa tra le fronde delle querce.
Sbuffò, irritato dai suoi stessi pensieri. Non era da lui perdersi in tali divagazioni involontarie e non desiderate.
La mente del leone era sempre concentrata sul proprio obiettivo. Avrebbe dovuto impiegare il suo tempo in qualcosa di più costruttivo della ragazza di Arbor se voleva arrivare al soglio presidenziale. Le elezioni erano vicine e le alleanze ancora da formarsi.
Gerion scelse quel momento per irrompere nella stanza, gote paffute e arrossate per la corsa, scintillanti occhi di giada e sorriso candido che preannunciava un futuro da incantatore.
Era il fratello in cui si rivedeva di più per l’arguzia. Kevan era fedele e capace, ma non avrebbe mai preso l’iniziativa, e Tygett aveva un carattere troppo iroso e aguzzo per poter essere considerato una guida.
Gerion gli posò le mani sulle ginocchia fasciate dalle braghe color della notte e attese che gli riservasse attenzione. Tywin chinò lo sguardo e s’immerse in quello più chiaro e soddisfatto del minore.
« Non sei ancora pronto per il ricevimento,» osservò incredulo sapendo quanto tenesse alla puntualità. Incrociò le braccia al petto magro mentre Tywin sollevava le sopracciglia come per domandargli la ragione del suo interessamento. Notò che era vestito di tutto punto, un se stesso in miniatura. Sarebbe diventato un ottimo giurista.
« Riferisci a nostra madre che vi raggiungerò tra pochi istanti,» lo congedò categorico prima di dirigersi verso la cassapanca di noce ai piedi del letto a baldacchino cremisi e oro, i colori della sua Casa. Gerion sbuffò irritato da tanta freddezza, ma obbedì.
Si concesse un breve bagno caldo per lavare via la polvere e per sciogliere la tensione sui muscoli contratti dall’allenamento.
L’acqua, però, non eliminò la macchia di vino che era penetrata oltre le vesti sino in fondo come un colpo allo stomaco.
Dirigendosi verso la Sala Grande, dove i Targaryen tenevano i loro fastosi ricevimenti da quasi trecento anni, osservò che era uno dei pochi ad essersi attardato. Tutti gli altri nobili erano smaniosi di compiacere il Presidente e la sua famiglia per ricevere onorificenze e incarichi. Persino l’antica aristocrazia era pronta a prostrarsi come se avesse dinanzi a sé una divinità.
Tywin detestava quelle pecore belanti. Le trovava riprovevoli e non degne dei loro titoli. Scontrandosi tra loro, s’indebolivano e i Targaryen potevano regnare incontrastati. Avrebbe posto fine a quelle lotte intestine, li avrebbe piegati al suo volere e ben presto avrebbe avuto solo il cielo sopra di sé, mai più un drago. Se avessero unito le forze, le menti focalizzate su un unico obiettivo, avrebbero potuto ribaltare le loro sorti. Da sconfitti a vincitori. Da servi a padroni. Da vassalli a signori.
Il paggio lo annunciò con garbo e il Presidente gli rivolse uno sguardo cordiale sollevando il calice in sua direzione. Tywin rispose con un cenno di rispetto col capo.
Jaehaerys aveva gli occhi di ametista, scuri e profondi, e i capelli più bianchi che dorati. Era un uomo invecchiato prima del tempo, dalle mani tremanti ma dalla mente attiva. Ciò era più di quanto Aerys avrebbe mai potuto possedere.
Il ragazzo, che Tywin disprezzava con più ardore di quanto riservasse a tutti gli altri ed era costretto a tollerare per il quieto vivere, sedeva dinanzi ad una giovane donna dalla treccia d’ebano, ubriaco come un taverniere.
Steffon, imbarazzato da quegli atteggiamenti irrispettosi e disgustosi, cercava di cambiare ogni parola del cugino, ma ogni tentativo era vano poiché Aerys aveva davvero una fantasia illimitata quando si trattava di far sentire una donna a disagio.
Distolse lo sguardo da quell’ennesima follia per rivolgerlo al tavolo circolare più vicino a quello presidenziale, dove sedeva la sua famiglia. Il posto d’onore al fianco di suo padre, quello riservato alla donna che Tywin più amava, era vuoto. Sua madre, la bella e arguta Jeyne Marbrand, non era in sala. Avrebbe riconosciuto ovunque il timido odore di lavanda e i suoi capelli ramati con qualche striatura d’argento.
Per un attimo fu tentato di congedarsi anche lui, ma poi la vide. O, per meglio dire, la sentì.
Aurora Redwyne aveva la risata tonante di chi era abituato a risplendere nonostante le sue condizioni. Un papavero in un campo di rose. Unica e preziosa.
Stava disquisendo con Mr. Luthor Tyrell, il fidanzato di sua sorella, l’immancabile coppa di vino tra le dita. Da quella distanza e con la musica dei violini sopra di loro, non poteva captare ciò che si stavano raccontando.
Luthor era un bell’uomo, dai riccioli castani e gli occhi ambrati, una lieve peluria a scurirgli le gote. Era un uomo che ispirava più fiducia che rispetto. La sua gentilezza e il suo buon cuore erano ben noti a Westeros. Ciò lo rendeva una preda facile per gli approfittatori.
Aurora gli dava le spalle e la veste color vinaccia la fasciava come una seconda pelle, scoprendole la schiena. Era uno stile diverso da quello a cui era abituato. Nelle sue terre sarebbe stato disdicevole mostrarsi così sfacciatamente a proprio agio con il proprio corpo.
Sulla fanciulla di Arbor diveniva naturale quanto il bianco su una Septa.  
Aveva i capelli raccolti intorno alla nuca e il resto in una treccia che le delimitava il solco tra i seni come una collana. Notò lo sguardo di molti uomini su di lei, meri avvoltoi che osservavano il suo corpo senza tentare di carpire i segreti della sua mente.
Strinse i pugni per un istante, gli occhi dardeggianti e un desiderio folle di portarla via da quella sala, da quegli sguardi languidi, da quelle mani che sembravano zampe di ragni e spire di serpenti. Avanzò verso di lei non appena Luthor si fu congedato con un inchino e un bacio fraterno sulla gota.
Nell’udire i passi cadenzati approcciarsi alle sue spalle, la giovane si volse di scatto, quasi colpendolo al petto con la coppa. Il vino rischiò di cadere sul farsetto, ma fu abile ad evitarlo. Notò un lampo di sorpresa negli occhi azzurrini e le labbra si schiusero come petali di rosa. Le gote non erano imbellettate, ma brillavano di un rossore virgineo che Tywin trovava quasi divertente.
« Sta diventando un’abitudine pericolosa,» esclamò quieto mentre la sorpresa lasciava spazio all’indifferenza ostentata. Si impegnava abbastanza bene a non considerarlo, salvo poi essere smentita dallo sguardo cristallino. L’aveva notato quella mattina, il suo interessamento, e non sapeva spiegarselo. Tywin sapeva di essere affascinante. Aveva l’avvenenza dei Lannister ed era molto simile a suo padre da giovane. Il suo carattere, però, avrebbe fatto fuggire una fanciulla meno determinata della Redwyne.
« Mr. Tywin,» lo salutò con un sorriso e una breve riverenza. Erano dinanzi a tutta Westeros. Avrebbe dovuto mostrarsi meno interessato e sarebbe dovuto arretrare di un passo abbondante, soprattutto perché Genna gli stava rivolgendo uno sguardo interrogativo come per domandargli se la sua sanità mentale fosse ancora integra, « Non dovreste essere accanto ad Aerys Targaryen? Vi riserva sempre un posto d’onore,» accennò col capo verso il tavolo presidenziale. Proprio in quel momento Aerys rise gettando un fiotto di vino sull’avambraccio di Steffon.
Si costrinse a non esibire una smorfia nauseata, ma la fanciulla quasi sussultò quando osservò il gelo nei suoi occhi.
« Troppa poca aria, se comprendete cosa intendo,» soggiunse caustico, per mitigare quel senso di timore che l’aveva scossa. Alle volte sapeva di far tremare chi gli era vicino, ma quella paura rendeva la bella Redwyne una cerbiatta che fuggiva da un cacciatore. Non voleva divenisse così. Non voleva metterla in soggezione.
« Non avrei mai pensato che esistesse dell’umorismo in voi,» annunciò non senza una certa baldanza, ritornando al suo solito tono provocatorio.
« Credete di conoscermi tanto bene?» domandò con voce roca avvicinandosi ancora di più di quanto fosse consentito, osando ciò che nessun uomo meno sicuro di se stesso avrebbe potuto azzardare. Tywin era un leone, però, e non gli importava della morale comune. La fanciulla non sembrò turbata. Da quella distanza poteva notare il cerchio più scuro al limite delle iridi, le piccole imperfezioni delle labbra, l’odore penetrante e ammaliante dei suoi capelli morbidi.
« Non quanto desidererei,» mormorò quasi senza muovere le labbra umide di vino. Non doveva osservarle, si ordinò. Scostò lo sguardo puntandolo verso il tavolo della sua famiglia. Gerion era scomparso, sicuramente alla ricerca di qualche giovane con cui giocare a cyvasse, ma Genna lo stava ancora guardando sebbene stesse discutendo amabilmente con la loro cugina più cara, Joanna.  
« Ballate?»
« In genere sì, ma dovrei posare il calice,» esclamò con falso dispiacere sbattendo le palpebre come se sapesse benissimo l’effetto che i suoi occhi avevano su di lui. La voce le diveniva più calda quando si crucciava come una bambina, un tono che avrebbe fatto divenire più strette le braghe di un uomo meno controllato di lui.
Le prese la coppa con gentilezza e se la portò alle labbra dove poteva percepire erano state quelle di lei. Ne bevve un ampio sorso e poi gliela porse, vuota.
« Adesso non ha più alcuna attrattiva,» suggellò l’atto compiacendosi dell’espressione sconcertata che Aurora aveva assunto. Non sembrava offesa, soltanto incredula per quel suo gesto spontaneo. Forse credeva che fosse troppo impostato per agire di istinto. Era stato ben felice di smentirla a riguardo.
« Voi avete un dono nel sistemar disastri, Mr. Tywin,» osservò divertita un istante dopo mentre posava la coppa sul vassoio di un maggiordomo di passaggio e prendeva la sua mano per seguirlo sulla pista da ballo.
I musici suonavano Alysanne, una melodia triste e totalmente inadatta al carattere esuberante della Redwyne.
Una mano nella sua e l’altra sul fianco, la fece volteggiare per tutta la sala.
Aurora sembrava essere nel suo elemento naturale, calma e perfetta come una Regina nel suo regno. Mentre danzava, ci si poteva dimenticare che suo nonno era stato un mercante e che suo padre aveva costruito un impero in vent’anni con un’esigua base finanziaria alle spalle. Mentre danzava diveniva la più nobile donna di Westeros.
Tywin si perse in quei suoi movimenti, negli occhi sereni e in quell’aria da bambina che lo portava a stringerla con più vigore come per proteggerla da una minaccia incombente.
Da quando Joanna era stata promessa ad Aerys non aveva mai stretto un’altra donna, né durante le danze né nel privato. Si concedeva un bacio sulle gote di sua madre e sua sorella, ma nulla di più.  
Joanna era stata l’unica con cui avesse mai creduto di poter avere un futuro. Poi il maiale in velluto nero gliel’aveva portata via per ripicca, poiché Tywin era e sarebbe sempre stato un uomo cento e mille volte migliore di lui. 
Dimenticò quei pensieri inopportuni mentre un sorriso si faceva largo sulle labbra e negli occhi della fanciulla di Arbor.
La canzone era cambiata e le note della Moglie del Dorniano erano molto più allegre e audaci della vecchia ballata medievale.
Aurora si sentiva più a suo agio con quella musica più contemporanea e sembrava quasi volare sul pavimento di marmo bianco e lucido.
« Perché sorridete?» le chiese incuriosito, la mano sul fianco che si faceva più audace e lo stringeva nella sua interezza. La stoffa dell’abito era impalpabile e per un attimo fu come sentire la sua pelle nuda tra le dita. Una sensazione che non sarebbe riuscito a coprire se non avesse avuto la fanciulla dinanzi a sé. Aurora aveva il capo sollevato sui suoi occhi, per sua fortuna. Non voleva che un mero istinto carnale rovinasse quel momento.
« Perché lo considerate alla stregua di un crimine,» replicò dispettosa mentre la mano sulla sua spalla giocava con le stringhe del farsetto in un soffio di fata, « Infrangere le vostre regole può essere gratificante,» soggiunse con voce carezzevole imbronciando le labbra esangui. Era una delle poche donne a non essere truccata e ciò, se possibile, lo attirava ancora di più.
« Per un momento forse,» le concesse con falsa irritazione, solo per rimarcare il concetto che nessuno avrebbe mai dovuto sfidarlo per non incorrere nella sua ira e nella sua giustizia, « Non credo gradireste quello dopo.»
« Sarebbe un piacere del quale non mi priverei per nulla al mondo,» bisbigliò al suo orecchio prima di chinarsi in una riverenza, sorridergli supponente e volgergli le spalle. I passi di Aurora Redwyne erano lenti come quelli di una danza e Tywin aveva tutta l’impressione che sapesse di essere osservata.
Scosse il capo, imponendosi la calma glaciale che lo caratterizzava, e si allontanò dalla pista da ballo e dalla sala che era divenuta davvero soffocante. Ai violini s’erano aggiunti i tamburi e Tywin detestava quel loro tonfo sordo e irregolare. Nessuno avrebbe notato la sua assenza a quell’ora tarda. E avrebbe potuto pensare alle sue alleanze anche il giorno dopo.
La fanciulla Redwyne era tornata al tavolo dei Tyrell e la mezzana le stava dicendo qualcosa all’orecchio. Aurora sorrise e scosse il capo, prendendo poi un’altra coppa di vino.
La baldanza con la quale beveva era intrigante e allo stesso tempo irritante. 
Volse le spalle a quella scena e si incamminò verso le sue camere. I corridoi erano ariosi e quieti, privi di sussurri di serpi e daghe nel buio.
Avrebbe davvero voluto distruggere quell’antro di depravazione e quel ricettacolo di arrampicatori sociali.
Dopo le elezioni, dopo aver ottenuto Westeros, dopo aver riportato i leoni al loro antico splendore.
Non appena aprì la spessa porta di noce un profumo di lavanda gli invase le narici. Profumo di casa che gli rammentava i suoi giorni di bambino.  
« Madre,» esclamò stupito, osservando la donna accomodata sulla poltrona dinanzi al camino. Jeyne Marbrand era bella nonostante i suoi quarant’anni e cinque figli alle spalle. Aveva la pelle d’avorio e in quel momento il pallore di Luna era messo in risalto dall’abito scuro. Sua madre vestiva sempre di vermiglio e d’oro. Non comprendeva perché quella sera avesse scelto un tale funereo colore.
« Tywin, chiudi la porta, figlio mio,» ribatté tranquilla e dolce, rivolgendogli quel suo sorriso orgoglioso che gli rinfrancava il cuore e lo rendeva più determinato a perseguire il proprio obiettivo. Le avrebbe dato un altro motivo di fierezza facendola divenire la madre del primo Presidente Lannister.
Il giovane ubbidì e colmò la distanza che lo separava dalla genitrice con poche ed ampie falcate per accomodarsi alla poltrona dinanzi alla sua. Sul tavolino di vetro v’era un bottiglia di idromele e un sacchetto con delle polveri che non riuscì ad identificare.
« Dimmi.»
Jeyne sospirò e gli prese le mani tra le sue, dalle dita affusolate e gelide, come se fosse appena uscita da una tormenta di neve. Tywin le stinse per riscaldarle e notò le occhiaie marchiarle di viola gli zigomi alti, le labbra piegate in una smorfia di dolore, le palpebre abbassate e il petto ansante.
Comprese prima ancora che glielo dicesse.
« Sto morendo, caro,» mormorò senza intercalari, diretta come soltanto lei poteva essere, quasi dispiaciuta della sua stessa schiettezza, « Il Maestro è convinto che non resisterò un altro anno.»
La notizia gli arrivò come un colpo di archibugio al cuore.
Per mesi era stato cieco. Aveva tentato di non guardarla mentre deperiva sempre di più rimanendo elegante e integra come se non stesse accadendo nulla. Jeyne era fatta di granito come lui. Erano uguali, loro due, due anime speculari.
Odiò quel gelo inattaccabile che gli proteggeva l’anima come mai prima di quel momento. Un altro uomo l’avrebbe abbracciata e le avrebbe donato speranza. Avrebbe pianto e si sarebbe inginocchiato al suo cospetto.
Non Tywin Lannister però.
Se sua madre si aspettava una reazione differente, non lo diede a vedere.
Il sorriso brillava ancora negli occhi scuri che solo Tygett aveva ereditato. Un sorriso di madre, accogliente e dolce, come se fosse stato lui a dover essere protetto, le arcuò le labbra rendendola più armoniosa della Fanciulla.
La destra volò verso la gota della genitrice e la carezzò con dolcezza, le dita timorose che temevano di poterla ferire.
« Cosa hai?» domandò in un sussurro appena accennato. Voleva comprendere, il leone. Scoprire quale male stesse minacciando sua madre. Se avesse potuto salvarla come Jon Arryn, il guaritore più abile di Westeros, non avrebbe saputo fare.
« Non lo so. Non riesce a capirlo, quell’inutile falcone. So solo che deperisco ogni giorno di più e non voglio trascorrere i miei ultimi momenti in un talamo assistita da Sorelle del Silenzio. Intendo viverli con i miei figli e intendo vedervi felici,» aggiunse determinata e Tywin seppe che quel dialogo non era mai avvenuto. Era l’unico che avrebbe saputo di quella malattia. Non l’aveva riferito né a suo padre né ai suoi fratelli. Jeyne si stava affidando a lui e Tywin non l’avrebbe mai tradita.
Le baciò le mani per celare le lacrime che gli avevano offuscato gli occhi smeraldini.
Lacrime di rabbia per quel morbo che la stava logorando.
Lacrime di dolore per quella perdita che non avrebbe mai accettato di subire.
Lacrime che dovette negare a se stesso di versare.
Non avrebbero giovato a nessuno dei due e doveva rimanere forte per sua madre.
« Debbo averti sconvolto,» mormorò dolce carezzandogli i ricci dorati. Tywin sollevò lo sguardo smeraldino e l’abbracciò di impulso, non potendo impedire al suo corpo di scattare verso la donna che l’aveva messo al mondo e che era stata insieme guida e confidente, « Il mio Tywin,» sussurrò tra i suoi ricci ricambiando saldamente la presa.
Quando sciolsero all’unisono quel contatto Jeyne gli baciò entrambe le gote magre e lisce prima di issarsi in piedi e sorridergli con affetto.  
« Dove stai andando?»
« Eri chiaramente adirato quando sei entrato. Dimmi, è per qualche fanciulla?» domandò incuriosita giocando con il nastro del sacco, che doveva contenere le sue medicine, un sorriso di materno divertimento ad arricciarle le labbra carnose. 
« Come puoi domandarmi una tale sciocchezza in un’occasione simile?» ribatté irritato da quell’atteggiamento sin troppo sminuente. Sua madre doveva pensare a se stessa, non di certo alla fanciulla che gli aveva occupato la mente.
« La tua felicità mi è molto a cuore, figliolo. E chi meglio di una moglie potrà aiutarti a superare il lutto? Oh sì, è proprio ciò che farò. Ti troverò una buona sposa prima di incontrare lo Straniero,» esclamò briosa come se non avesse appena annunciato la sua morte bensì la più lieta delle condizioni prima di volgergli le spalle e chiudere la porta dietro di sé.
Il dolore era un perpetuo e mortifero climax all’altezza del petto, un morbo che si diffondeva in tutto il corpo. Si portò le mani al volto e si morse le labbra. Non era da lui essere debole, no, ma quella sera il leone pianse come un agnello.
   
 
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