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Autore: Padme Undomiel    15/03/2015    1 recensioni
Strinse più forte al petto il fagotto immobile, coperto perché non dovesse essere scoperto. Pregava con tutta se stessa che le sue aspettative riuscissero ad essere appagate: almeno lui doveva sorridere.
Anche senza di lei. Probabilmente per sempre.
Perché il suo cuore era ancora intatto, mentre si aspettava che scoppiasse da un momento all’altro?
Sempre più vicina, sempre più vicina.
Non riusciva a fermarsi. La sua parte razionale stava vincendo su quella dei sentimenti. Non riusciva a smettere di correre a perdifiato, con il respiro corto, l’ansia visibile in ogni tratto del suo viso bianco come un cadavere, il dolore straziante nei suoi occhi scuri.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikari Yagami/Kari Kamiya, Ken Ichijoji, Miyako Inoue/Yolei, Takeru Takaishi/TK
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Purity 25


25.


Resa





Non fu affatto sorpresa quando sentì la vibrazione del cellulare che annunciava una chiamata in arrivo. Puntuale come un orologio svizzero come sempre, e ancora una volta senza essersi messi minimamente d’accordo.

Scoppiò a ridere, incontrando gli occhi verdi del suo gatto e scuotendo la testa. “Pare che neanche oggi saremo smentiti, Haku. Il tuo precedente padrone sta proprio andando fuori di testa.”
Continuando ad accarezzare Haku, appollaiato tra le sue braccia, Satsu si sporse sulla poltrona e afferrò il cellulare dal tavolino, avviando la chiamata. Non aveva neanche bisogno di osservare il display per sapere chi fosse il mittente.
“Eccoti qui, Iori-kun”, lo salutò allegramente. “Stavo aspettando con impazienza la successiva puntata di Ossessionati da un ragazzo dagli occhi di ghiaccio, dopo due giorni che non senti parlare d’altro finisci per appassionarti. Ti rendi conto, sì, che sembri innamorato pazzamente di lui?”
C’era una cosa, in tanti anni di conoscenza, che non era mai cambiato in Hida Iori: potevi dirgli qualsiasi cosa, cercarlo quando avevi bisogno, contare sulla sua lealtà se eri suo amico, ma il senso dell’umorismo davvero non era il suo forte. Riusciva sempre a lasciarlo un po’ spiazzato, quasi guardingo; alle volte si offendeva, persino.
Quella volta, appunto, si offese. Tantissimo. “Non sono affatto innamorato di lui!” Protestò. Conoscendolo, poteva essere arrossito fino alla punta dei capelli.“A parte il fatto che stiamo parlando di un uomo, santo cielo, come fai a pensare …”
“Tanto non sono omofoba. Sto scherzando, sto scherzando!” Dovette affrettarsi a specificare, perché il silenzio dall’altro capo era davvero un segnale preoccupante. Ma non poté impedirsi di sbuffare, rassegnata, passandosi una mano sugli occhi. “Iori-kun, dovresti davvero imparare a prenderti meno sul serio.”
“Mi sforzo di farlo! Ma puoi biasimarmi se adesso sono così nervoso? Sono preoccupato, non riesco a riderci su.”
Il suo tono era un po’ mortificato, e Satsu si morse le labbra, sorpresa una volta di più – ma non doveva esserci abituata, ormai? Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quel tempo passato a parlare insieme?- della forte influenza che le sue parole avevano sul suo amico. Era sempre stato così, che lei lo volesse o no, che cercasse di non pensarci o, scioccamente, di cambiare le cose: un suo commento leggero avrebbe potuto ferirlo con facilità. Che gli esseri umani avessero certi poteri sugli altri era spaventoso, pensava spesso. Che poi lo avesse lei, che in fondo era ancora la stessa ragazzina innamorata di romanzi drammaticamente sentimentali e tragiche vicende amorose che nella realtà non si verificano quasi mai, che in fondo restava incapace di una storia decente con qualcuno di concreto, vivo e vero, era del tutto ingiusto. E più passava il tempo più sembrava incredibile che un tipo come Iori perseverasse nell’essere così fedele ad una persona sentimentalmente immatura come lei. Più passava il tempo, più Satsu era confusa, e turbata, e commossa – segretamente spaventata.
Ammorbidì il tono, perciò, e sorrise. “Dai, aggiornami. Sei riuscito a scoprire come si chiama? Se anche lui frequenta i corsi di legge come hai scoperto ieri ci sarà sicuramente qualcuno che sa chi è e a cui puoi chiedere-”
“Ichijouji Ken.”
Satsu rimase a bocca aperta, come se qualcuno avesse semplicemente premuto il fermo immagine.
E Iori ripeté, scandendo accuratamente ogni sillaba. “Ichijouji Ken. E’ così che si chiama, è per questo che somiglia così tanto a Ichijouji Osamu. Perché è suo fratello minore.”
Lentamente, incapace di articolare un qualsiasi suono di senso compiuto, Satsu richiuse la bocca e tacque. Un tremendo sospetto le affiorò alla mente.
“Non è finita. Ho provato a digitare Ichijouji Ken nel motore di ricerca stamattina, e guarda un po’ cosa ho trovato: Caso Hamada, nipote colpevole: è il fratello di Ichijouji a smascherarlo. Si interessa al  caso per curiosità, decide di collaborare con il fratello. Così Ichijouji Ken porta a galla la soluzione. Ecco, ti risparmio l’articolo per intero, non è altro che un delitto a porta chiusa apparentemente irrisolvibile … Ma capisci il punto? Ichijouji si è fatto aiutare da suo fratello. Vuol dire che Ken ha buone capacità investigative, e che suo fratello lo sa. Vuol dire che potrebbe averlo contattato ora per la scomparsa di Inoue Miyako, che potrebbe essere sulle sue tracce! E se lui era in libreria, e mostra interesse verso Rumiko-san …”
“Tu dici che sa?” Riuscì infine ad articolare lei in un sussurro.
“Io dico che qualcosa si sta muovendo. E che la cosa non mi piace affatto.” Fu la replica cupa. “Pensaci. Rumiko-san mi ha detto tempo fa che non si sente sicura, che si sente spiata. Nello stesso momento compare Ichijouji Ken. E non è adesso che si sta presentando quest’assurda storia delle cartoline? Noi due non siamo i soli ad averne ricevuta una, a proposito. Prova a indovinare chi mi ha contattato oggi!”
“Qualcuno dal passato, dici? Non sarà …” Satsu sussultò. “Motomiya Daisuke?”
“Hai capito al volo. Vuole parlare con me, e dalla sua agitazione e dal poco che mi ha fatto capire al telefono credo proprio di sapere quale sarà l’oggetto della conversazione. Dobbiamo stare attenti, Satsu-san”, aggiunse Iori, serio come poche volte l’aveva sentito. “Qualsiasi passo falso potrebbe tradirci, e capovolgere la nostra situazione a nostro svantaggio.”
Non sai quant’è vero, pensò Satsu tra sé, e si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere istericamente. “Perciò, cosa, uhm, pensavi di fare? A parte continuare a pedinare Ichijouji Ken, intendo”, aggiunse, e questa volta Iori riuscì a ridere un pochino. “Rumiko-chan dovrebbe conoscere i nostri sospetti o facciamo di nuovo gli agenti segreti?”
L’altro rimase silenzioso per un po’. “Non diciamole nulla”, decise alla fine. “Personalmente non credo affatto nelle coincidenze, in questo caso, ma lei è già abbastanza spaventata di suo. Oltretutto sta anche male ultimamente … Vediamocela noi, e se la situazione si farà critica gliene parleremo.”
Satsu aveva la netta sensazione che la situazione fosse già critica oltre misura, a dirla tutta. Bastava pensare a dove fosse Miyako quella sera. Bastava pensare a dove l’aveva mandata lei quella sera. Deglutì. “Come vuoi …”
“A proposito, sei riuscita a vederla? Le hai parlato?”
Un miagolio infastidito di Haku le fece capire che stava stringendo il suo povero gatto troppo forte. Aprì le braccia, e lasciò che saltasse giù, stizzito. Quanto a lei, non poté che ridere nervosamente, e sperare di suonare naturale. “Ah, sì. E credo … Credo stia decisamente molto meglio adesso.”
Fin troppo, si disse, e prese nota che avrebbe dovuto parlarci ancora, con quell’incosciente.
Iori, del tutto ignaro, decise di peggiorare le cose. “Grazie. E’ così bello che Rumiko-san possa sempre contare su un’amica come te, sai sempre cosa dirle per aiutarla.” Le disse, un tono così dolce che Satsu avvampò, terribilmente in colpa. Miyako l’avrebbe sicuramente sentita. “Non voglio sapere nulla, basta che lei stia meglio. In fondo sono discorsi tra donne.”
“Già, discorsi tra donne”, borbottò, per poi sospirare. “Allora ci risentiamo quando avrai parlato con Daisuke, d’accordo?”
“Naturale. Buona serata, Satsu-san.”
Iori chiuse la comunicazione, e per qualche istante Satsu rimase con il telefono incollato all’orecchio, il segnale acustico intermittente a ricordarle che avrebbe dovuto muoversi a chiudere anche lei.
“Ken. Si chiama Ken.”
“C’è un certo Ken – di cui non vuoi dirmi il cognome- che ti stressa, che pare vivere in libreria e per il quale hai sviluppato una sorta di sentimento di attrazione-repulsione.”
“Che motivo hai di nasconderti, comunque?”
Con un gemito esasperato, Satsu chiuse il telefono e quasi lo lanciò sul tavolino, prendendosi la testa tra le mani. Non si poteva mai stare tranquilli con quella ragazza, neanche quando si trattava di un semplice appuntamento galante: si poteva essere certi che si sarebbe messa nei guai, ed eccone la dimostrazione.
Ichijouji Ken. Con tutti i ragazzi che poteva avere, lei si faceva incantare dal fratello di Ichijouji Osamu.
Non era sicura di pentirsi del tutto del consiglio che le aveva dato il giorno prima – non avrebbe capito mai perché Miyako si nascondeva come una ladra, come se avesse commesso lei le vere azioni deplorevoli-, ma magari sarebbe stato meglio conoscere la situazione, prima di spingerla tra le braccia del Seduttore Ichijouji quella sera.
Haku le si strusciò sulle gambe, e Satsu gli lanciò una lunga occhiata.
“Ah, io spero sul serio che Rumiko-chan sappia quello che fa, Haku.”

***

Tu. Non hai idea. Dell’effetto. Che fai. Sulle donne.
 “Dai, non ti sembra di esagerare adesso? E’ solo una macchina.”
Solo una macchina?! Mi vieni a prendere sotto casa come un perfetto galantuomo, mi apri lo sportello, mi tratti di lusso, e come se non bastasse mi porti in giro con una signora macchina che sembra una limousine. Quante donne hai costretto alla morte per sincope senza neanche accorgertene, Ichijouji Ken?”
Miyako aveva dovuto cambiare idea sulla storia l’amore è istinto, e molto in fretta, nell’arco di quella giornata. Si era resa conto che si trattava di una delle sue sciocche convinzioni romantiche da adolescente, di quelle che andavano bene per rovinarsi la vita, fare un figlio e abbandonarlo ad un orfanotrofio. Grande guadagno davvero.
No, l’amore non era istinto, o se non altro non solo. Se lo fosse stato, Miyako avrebbe disdetto l’appuntamento il momento stesso in cui aveva chiuso la telefonata con lui, il pomeriggio prima, piena di sensi di colpa, di ansia e di voglia di nascondersi una volta di più; o poche ore prima, intenta a guardarsi allo specchio e a prepararsi, pensando che non avrebbe potuto, dovuto fare una cosa tanto rischiosa; o nel momento in cui lui era arrivato a prenderla sotto casa sua, pieno di agitazione e aspettativa, e lei aveva scorto la gioia nei suoi occhi.
Lei invece non aveva disdetto. Aveva una paura da matti, ce l’aveva anche ora, ma non aveva disdetto e non voleva andare a casa.
Perciò, era una delle due cose: l’amore non era istinto, o lei non provava niente del genere per Ichijouji Ken, ed era solo impazzita.
Ma forse era meglio smetterla di pensare a cose istintive o meno. Avesse dato ascolto a quello, osservando Ken dritto davanti a lei, elegantissimo, il viso illuminato di leggero imbarazzo e gli occhi socchiusi mentre rideva di cuore, e considerando quanto era maledettamente bello, si sarebbe sporta verso di lui e lo avrebbe baciato all’istante.
“Lo dirò a Osamu quando lo vedrò, allora. La macchina è sua, sai.” Ken le porse il braccio, timido, come se si aspettasse di essere azzannato. Spalancava gli occhi quando era insicuro, iniziava a notare Miyako man mano che passava il tempo con lui; lo stava facendo anche ora.
Gli prese il braccio allegramente, stringendoglielo un po’ rassicurante. “Il signor detective fa grandi affari?” Si costrinse a dire, un sorriso tirato sulle labbra. Aveva fatto le prove a casa, davanti allo specchio. Aveva detto mille volte il suo nome, cercando di non battere ciglio: Ichijouji Osamu. Ichijouji Osamu. Ichijouji Osamu. Il trucco era immaginare di non essere Inoue Miyako, di essere solo Miyazawa Rumiko, legittimamente curiosa sul fratello del ragazzo del suo appuntamento. Per uscire con Ken, doveva considerare anche Osamu nel pacchetto, era inevitabile.
Ken ridacchiò di nuovo, conducendola su per le scale che li avrebbero portati all’interno del teatro. “Detta così sembra che si tratti di un plurimiliardario”, commentò. “La verità è che ha risolto casi importanti per famiglie importanti. La macchina è stata un regalo di una famiglia di ricchi ereditieri dopo che mio fratello li aiutò a recuperare alcuni cimeli di famiglia rubati. Osamu di solito non ama accettare regali, ma quella volta mi disse che non gli avevano permesso di rifiutare. E siccome lui non la usa, beh …”
“… Te l’ha regalata. Però. Che fratello premuroso.” La recita non le stava uscendo tanto male.
Ken fece spallucce, imbarazzato. “Non … la uso troppo neanche io, a dire il vero. Stasera è un po’ un’eccezione.” Arrossì, guardandola di sottecchi. “Volevo fare bella figura.”
La scalinata era piena di gente elegante, tacchi alti e lunghi vestiti, smoking scuri e guanti bianchi, pellicce e borse firmate. Eppure, sotto lo sguardo intenso di Ken, fu lei, nel suo semplice abito corto scuro e la parrucca acconciata, a sentirsi la più bella di tutti in quel momento. Fu come tornare ad essere una ragazzina sciocca – una persona felice.
Varcarono l’ingresso, e si fermarono davanti ad una maschera in giacca e cravatta, elegante e professionale. Indicò loro la strada dove avrebbero trovato i loro posti, augurando loro una buona serata.
“Io volevo fare una figura eccellente, invece, così mi avresti perdonato eventuali gaffe nel corso della serata”, ammise con un sorriso birichino. “Non conosco l’etichetta per concerti di musica classica, sai. Guarda quanta bella gente! Ma è sempre così?”
“Non sei mai stata ad un concerto di musica classica?” Le chiese Ken sorpreso, mentre avanzavano all’interno del teatro. Non era molto grande ma era decisamente raffinato, un ambiente a due piani con file e file di poltroncine rosse che scendevano in obliquo verso il centro della sala, un ampio palco in legno chiuso da spesse tende rosse e orlate d’oro, che fungeva da sipario. Le luci un po’ soffuse guidavano gli ospiti della serata mentre, parlando con voce sommessa, cercavano il posto assegnato loro e si scambiavano strette di mano.
Miyako scosse la testa, e rise. “No, nel modo più assoluto. Anni fa mi annoiava terribilmente, non ne ho mai fatto mistero con nessuno, in effetti. Musica è energia, e l’energia non si trova nelle ninnananne, dicevo.” La nostalgia incrinò un po’ il suo sorriso. “Ero più tipa da roba techno-pop. Nel tempo libero mi divertivo a sintetizzare musica elettronica, e il mio sogno più grande era metter su una band coi miei amici. L’avrò proposto un sacco di volte, ma niente! Impegni, difficoltà, poco interesse, che razza di musica ascolti?, bla bla bla … Non se n’è fatto più nulla. Avrò tenuto loro il broncio per settimane.”
Il sollievo fu improvviso, totalizzante. Erano anni che pensava senza sosta a quei visi un tempo così familiari; anni che, come in un nastro danneggiato, non faceva che proiettare scene e dialoghi a ripetizione, spettatrice di una vita che non le apparteneva più. Ma non aveva mai potuto parlarne con nessuno, e alla lunga quei volti avevano finito per diventare fantasmi.
Parlandone con Ken, tornarono ad avere contorni netti. E sebbene ridar loro vita fosse il minimo che potesse fare per loro, la sensazione le scaldò il cuore.
Ken si bloccò. “Ninnananne?” Un’espressione che era un misto tra senso di colpa e rimprovero apparve sul suo viso. “Ma perché mi hai proposto di venire qui, se non ti piace? Potevamo andare da qualche altra parte … Che senso ha annoiarti?”
Lo aveva messo in crisi, e rattristato sul serio, a quanto sembrava.
Miyako lo guardò dritto negli occhi, e gli sorrise. “Non mi annoio perché non m’importa nulla della musica classica, né dell’occasione in sé. Avresti potuto portarmi a raccogliere fagioli, e io ci sarei stata. Ci tenevo a vedere te.”
Arrossì, lui. Arrossì come un peperone. “Oh. Ma … ” Balbettò, come se fosse veramente sconcertato dalla cosa, come se lui non valesse tanto. “Oh.”
E qualcosa in fondo ai suoi occhi brillava, in modo intenso – insopportabile. Il cuore di Miyako prese a martellargli nel petto, doloroso. Un altro frammento delle sue resistenze andò in pezzi.
“E poi”, si affrettò a smorzare la tensione mentre prendevano finalmente posto sulle poltroncine rosse, “a te piace, quindi ho deciso di darle una possibilità. Al massimo me la prenderò con te per non avermi proposto altro.”
Ken tacque, e le lanciò uno sguardo di sottecchi. Si schiarì la voce. “A tal proposito … credo di doverti confessare una cosa, a questo punto. Credevo non l’avrei rivelato, ma vista la situazione …” Sembrava imbarazzatissimo, come se dovesse tirar fuori un importante segreto di stato. Poi si decise, solenne. “Non ho mai ascoltato musica classica prima di ieri. Cioè. Quello che intendo è che non ascolto musica, di solito. Mi capita ogni tanto, ma ammetto la mia totale ignoranza a riguardo.”
Miyako lo fissò a bocca aperta.
“Pensavo che a te piacesse, così quando sono tornato a casa ieri sera ho cercato di farmi una cultura almeno su questo pianista. Ho letto la sua biografia, e ascoltato quante più esibizioni possibile.”
Silenzio.
“Mi sembra … bravo? Beh, spero che lo sia, insomma. A me non dispiace”, concluse Ken tutto d’un fiato, e aveva l’espressione più colpevole di questo mondo.
Miyako scoppiò a ridere forte.
“Allora si può sapere a chi interessava davvero questo concerto?” Esclamò tra le risate, e si guadagnò delle occhiate scandalizzate e offese dagli spettatori impellicciati. Li ignorò completamente. “Ma scusa, ieri mi hai detto che la musica classica ti piaceva molto!”
“E’ che mi vergognavo … Ah, sono uno stupido. Puoi ridere quanto vuoi.” E rideva anche lui, timido, senza mostrare minimamente di sentirsi offeso dalle risate di lei. Pareva che fosse autoironico, e umile.
Le risate di Miyako si spensero pian piano. “Sì.” Confermò. E la sua mano si mosse da sola, nella penombra della sala, e strinse quella di lui. Ken sgranò gli occhi, e smise di ridere anche lui, colto di sorpresa.
“Sì, sei uno stupido. Lo siamo entrambi.” Gli disse a bassa voce. E non poté smettere di guardarlo.
Lui lesse sicuramente qualcosa sul suo volto, Miyako non riusciva a nascondere le sue emozioni – sembrava non avesse più controllo di sé nel modo più assoluto. Il suo viso cambiò.
Dopo un istante di esitazione, ricambiò la stretta, gentile. La sua mano era calda. La sua voce lo fu molto di più.
“Grazie per essere qui stasera, Rumiko-san.” Le disse dolcemente. E le sorrise.
Iniziò a parlarle, sereno come non lo aveva mai visto, lo sguardo che spesso finiva sulle loro mani intrecciate, molto più spesso sul suo viso. Le parlò del pianista, naturalmente –“Dal momento che ne so così tanto”-, e risero ancora come due sciocchi nel fingere di essere davvero interessati alle sue tournée in giro per il Giappone, nel fingersi grandi esperti sulle sue modalità di esecuzione, nel citare opere a caso che inventavano lì per lì. Miyako cercò di ricordarsi in ogni momento che avrebbe dovuto sentirsi a disagio, in allerta, spaventata, ma tutto passava in secondo piano, tutto tranne il calore che sentiva diffondersi nel petto. Le persone entravano e uscivano, prendevano posto accanto a loro, ma nessuno dei due vi fece troppo caso.
Chissà come, saltando di palo in frasca, finirono anche a parlare delle indagini – e la mano di Ken le fornì il sostegno necessario per tollerare l’improvviso battito accelerato. Fu lei a spronarlo a proseguire il discorso, anche se avrebbe voluto evitarlo, da un lato: si era accorta con sorpresa che non era solo l’apprensione a spingerla, che era anche e soprattutto perché aveva notato, dalla sua espressione improvvisamente incupitasi, che c’era qualcosa che lo rattristava di quella faccenda. Così si armò di coraggio, e stette ad ascoltarlo.
Scoprì che non dormiva più di qualche ora a notte, informandosi quanto poteva sui trascorsi dei suoi indiziati. Quelle due notti, poi, specialmente. Il giorno prima dell’appuntamento aveva parlato con Harumi, e lei gli aveva rivelato della morte di Satoshi. Così lui aveva cercato di sapere le esatte dinamiche della faccenda.
“Per dirla tutta, il corpo non fu mai trovato”, le spiegò, raccontando l’esito degli studi sulla documentazione offertagli da Osamu. “La casa era a soqquadro, e molti effetti personali, soprattutto quelli di valore, erano scomparsi, per cui fu pensato ad una rapina. Ono Satoshi era ricco, abitava in un villino quasi fuori Tokyo, per cui la cosa sarebbe plausibile … Ma nessun corpo. Sangue sul tappeto e sulla maniglia della porta, a quanto pare di Ono stesso, ma nessun corpo. Strana come rapina, non credi? Osamu ha ipotizzato anche un mercato nero di cadaveri, sai, per la vendita sottobanco di organi. Ma le ricerche da lui condotte non hanno potuto risalire a quel ragazzo.”
“Mercato di organi?” Quasi strillò Miyako, schifata. “Che orrore è mai questo?”
Ken le sorrise, amaro. “Lo penso anche io.”
Le spiegò che Satoshi viveva solo con un maggiordomo, un fidato sottoposto di famiglia, che si era occupato di crescere il ragazzo quando i genitori erano morti in un incidente d’auto. Scomparso anche lui. La sua assenza aveva fatto pensare alla stampa, e all’immaginario collettivo, che fosse lui l’assassino. Tanto più che la fortuna degli Ono era sparita con lui, le carte di credito estinte.
“L’ultimo movimento di cui sappiamo qualcosa è una curiosamente ingente donazione a favore dell’orfanotrofio Yagami. Poi il vuoto.”
Così adesso le sue indagini vertevano su più fronti: risalire alla storia d’amore tra Inoue Miyako e Ono Satoshi, capire il collegamento Ono- orfanotrofio, e spiegarsi il significato nascosto dietro la cartolina ricevuta da Harumi. Ma probabilmente la cartolina sarebbe stato affare prettamente di Osamu, al momento, visto che era una novità nella sua indagine.
E poi, il tono che abbandonava la neutralità e si faceva risentito, iniziò a parlare di Osamu, del suo comportamento “deplorevole”, dello sconcerto che aveva provato a casa Inori il giorno prima. Si sfogò con lei su qualsiasi cosa, proprio come aveva fatto nel parco coi ciliegi, durante loro primo appuntamento, e le sue guance si accesero per la foga.
“E’ che non lo capisco proprio, ma se le cose stanno così non so se ci tengo a capirlo. Non credevo che mio fratello fosse tanto meschino”, concluse amareggiato.
Miyako non poté trattenersi, e ridacchiò.
Ken la fissò confuso. “Cosa?”
“Oh, scusa, Ken-kun, ma sei buffo.” Si giustificò Miyako, stringendosi nelle spalle.
Questo sembrò farlo imbronciare. “Come, buffo?”
Sembrava un bambino incompreso, e Miyako si ritrovò a sorridergli intenerita.
“Buffo perché ne stai facendo una tragedia, quando magari non è così terribile come la vedi tu.” Gli disse schiettamente. “Tuo fratello ha flirtato un pochino, ma certo la cosa non si è mai spinta oltre, no? Ichijouji-san non mi sembra proprio il tipo.”
“Vuoi dire che a te non sembra una cosa moralmente scorretta?” Fece incredulo lui.
“Ma non te la prendere!” Rise Miyako. “Una cosa furba, questo sì. Tuo fratello ci sa fare.” Cercò di controllare l’ansia rintracciabile nel suo tono, e si impose di proseguire. “Lo sai che cosa penso? Penso che tu ci sia rimasto così male perché ti sei reso conto che non lo conosci quanto vorresti, e hai paura di sapere che sia una brutta persona, dopotutto.”
Ken distolse lo sguardo. “Più che altro non capisco perché manipoli le persone … come manipola anche me. E non capisco perché io glielo lasci fare.”
“Perché è la prima volta che lavorate insieme, no? Me lo hai detto tu stesso.” Miyako gli strinse più forte la mano, rassicurante. “Quello che non capisco io, invece, è come speriate di risolvere casi se non sapete nemmeno dirvi che vi stimate a vicenda.”
“Osamu non mi stima affatto”, sorrise Ken disilluso.
“Lo vedi? Non hai capito un accidente.” Lei sospirò, frustrata. “E secondo te perché ti mette alla prova continuamente? Vuole vedere come ci arrivi, perché sa che ci arriverai. Ti stima. E secondo me ti vuole anche bene quanto tu ne vuoi a lui.”
Sembrò sorprenderlo fortemente.
“Oh, questo proprio no.” Fece, a disagio. “Sai, io e lui non … Non abbiamo mai avuto questo gran rapporto. Da bambini forse sì, però …”
“Anche distanti, i fratelli sono sempre fratelli.” Lo interruppe lei con passione, e si accorse troppo tardi che la voce le era tremata. “Per piacere, parlagli e risolvi al più presto. La fai come se fosse una condizione definitiva, la vostra mancata comprensione reciproca, ma non è come se tu non avessi più un fratello. Prima che la situazione degeneri, parla chiaramente a Osamu e non avere paura. Promettimelo.”
“Rumiko-san …” Ken sembrava strabiliato. “Che cos’hai?”
E come poteva lei spiegargli che stava pensando a Momoe, Chizuru e Mantarou con rinnovata nostalgia e dolore? Che aveva ripensato a quanto avrebbe voluto correre da loro, sapere che persone erano diventate, far sapere loro il perché di tutto quello che aveva fatto e quanto era cambiata, chiedere loro scusa, senza poterlo fare? Scosse la testa, decisa, cercando di non fargli vedere la sua espressione, ora fin troppo scoperta. “Promettimelo, Ken-kun.”
Un momento di silenzio, quel tanto che bastò perché Miyako recuperasse il controllo di sé.
“Te lo prometto, Rumiko-san”, disse infine Ken.
Miyako tirò un respiro profondo, chiudendo gli occhi per tornare alla normalità. “Bene.”
Poi sentì le dita di lui sfiorarle il viso, così piano e in modo così esitante che quasi ebbe la sensazione di esserselo immaginato. Sussultò, e riaprì gli occhi.
Ken ritirò pronto la mano, imbarazzato, ma nei suoi occhi non c’era altro che un’espressione profondamente dispiaciuta.
“Ti chiedo scusa”, le disse. “Ti ho turbata in qualche modo. Non volevo.”
Questo la sconvolse. Restò a guardarlo, incredula. “Dovrei essere io a scusarmi, perché sono un disastro e ho reazioni spropositate di cui non provo neanche a darti spiegazioni”, obiettò, e fu tentata dal mordersi la lingua subito dopo. Accentuare la stranezza delle proprie reazioni: la cosa più indicata da fare, senza dubbio. Stupida, stupida Miyako.
“Non m’importa”, disse Ken in un sussurro. I suoi occhi avevano una nota intensa, e Miyako perse il respiro. “Non m’importa se non vuoi spiegarmi niente, se non puoi persino. Te l’ho promesso: non farò domande se non vorrai. Era questo il nostro patto di ieri, ricordi? Ma io …”
Esitò, la sua mano ancora sollevata a mezz’aria. Silenzioso, le chiese il permesso.
Miyako stava zitta. Tremava.
E le dita di Ken le sfiorarono di nuovo la guancia, più sicure, più dolci. “Ma io non posso impedirmi di sperare – oso troppo, forse … chiamami pure arrogante, se vuoi-, che un giorno vorrai parlarmene … che potrò conoscerti come vorrei. Che potrò aiutarti come posso. Che me lo concederai.”
Era gentile, capì Miyako. Era semplice. Era sincero. Era onesto e buono, come lei non avrebbe mai potuto essere. E nonostante tutto, nonostante gli innumerevoli impedimenti e paletti che lei poneva in continuazione, lui sembrava volerla lo stesso. La aspettava e rispettava.
E le chiedeva il permesso per qualcosa che, ora se ne accorgeva, gli aveva accordato da due giorni almeno, ormai.
Lo sentì nuovamente, chiaramente, più forte che mai. Crac. Ogni brandello di resistenza sparì.
Rimasero solo loro due, a fissarsi turbati come due anime appena incontratesi, senza sapere bene cosa fare con quel dono improvviso e quasi spaventoso.
Finché le luci non si spensero di colpo, e gli applausi non riempirono la sala.
Ripensandoci più in là non seppe mai chi dei due fu il primo ad avvicinarsi, chi iniziò e chi concluse. Nel buio, le loro labbra si cercarono, cieche al pianista appena salito sul palco, sorde ai primi tasti accarezzati, incuranti di trovarsi in un luogo così affollato.
Si cercarono, si parlarono, si dissero tutto quello che non avevano potuto dire a parole: il significato dietro tutte quelle ore a cercarsi in biblioteca, ad aspettarsi e non trovarsi, a sfiorarsi e poi scappare, a tornare indietro nonostante tutto. Per un breve istante, un folle momento, si persero.
Quando riaprirono gli occhi nel buio, la musica invase improvvisamente i loro sensi, e seppero dov’erano finiti. Si guardarono.
Miyako, gli occhi lucidi e le labbra tremanti, disse: “Pare che sia bravo sul serio, questo pianista”.
Ken per un momento sembrò non sapere di cosa lei stesse parlando. Poi capì: sorrise, improvvisamente timido. “Sì, lo è.” I suoi occhi brillavano ancora.
La risata di Miyako somigliò più a un singhiozzo che ad altro. “Siamo un pubblico maleducato, non trovi?”
Non poté impedirselo: posò pian piano il capo sulla spalla di Ken, sentendolo irrigidirsi appena per la sorpresa, e notando con sollievo che l’altro non mostrava la minima intenzione di spostarla. Se lo guardava con attenzione, poteva notare perfino il rossore sul suo viso, quello che neanche in una situazione del genere voleva saperne di andar via.
E proprio come poco prima, con le labbra di Ken sulle sue, successe di nuovo.
Lì, nel buio, col cuore gonfio che batteva quasi dolorosamente contro il suo petto, con l’odore di Ken ben impresso nelle narici e il contatto rassicurante della sua spalla contro la guancia, per la prima volta Miyako si sentì libera dal peso che portava dentro di sé da anni. E la commozione quasi la stroncò.
Chiuse gli occhi, sorridendo, e rimase ad ascoltare.

***

Takeru non si arrampicava più da una vita, ormai.
Aveva le mani graffiate, gli abiti pieni di foglie e rametti, ed era lentissimo mentre cercava un appiglio. Il fatto che fosse sera, poi, assolutamente non aiutava la sua visibilità. Strizzò gli occhi, fermandosi un momento per guardare la sua destinazione.
C’era quasi, finalmente. Un altro piccolo sforzo.
Tirò un respiro profondo, facendosi forza. Non tirava neanche troppo vento, nessun ramo si sarebbe mosso troppo.
Poi ricominciò la sua scalata.
Il bambino lo aveva visto da un secolo, supponeva. Si era girato un attimo, il tempo di sussultare per l’intrusione, e poi si era voltato nuovamente. Un chiaro segnale che non aveva alcuna voglia di parlare con lui. Ma Takeru aveva continuato a salire, stringendo i denti, e così lo aveva costretto a voltarsi una, due, tre volte, prima infastidito, poi guardingo, infine semplicemente stupefatto.
Ora lo fissava, seduto su un ramo più in alto, e i suoi movimenti incerti sul posto sembravano rivelare fin troppo sul suo stato d’animo. Non sapeva cosa fare con lui.
All’improvviso, però, Takeru rischiò di cadere, e si aggrappò goffamente al ramo che stava cercando di usare come appoggio. Il cuore prese a battergli rumorosamente, mentre manteneva lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi sgranati, rifiutandosi categoricamente di guardare in basso e scoprire quanto fosse salito in alto.
“Non si fa mica così!”, esclamò Keiji, mettendosi in piedi con uno scatto.
Takeru rise, una nota terrorizzata nella voce. “Un tempo ero … più bravo a salire sugli alberi. Mi sa che sono troppo vecchio.”
“Un pochino.” Keiji lo studiò attentamente in tutta la sua lunghezza. “E’ che sei troppo lungo. E pesante.”
“Nessun problema, basterà … far piano. Ecco. Tutto a posto.” Si rimise dritto come poteva, le gambe un po’ tremanti per lo spavento. Si immaginò visto dall’esterno, e quasi scoppiò a ridere di nuovo: che magra figura da fare davanti a un bambino di sette anni. Ma come aveva fatto, alla sua età? Non lo ricordava un compito così arduo.
Senza perdersi d’animo, si rimise a studiare la fisionomia dei rami, cercando i più sicuri.
“Quello lì.” Disse all’improvviso Keiji, indicando un ramo sulla sua destra. Takeru sbatté le palpebre, sorpreso. Il bambino non lo guardava, sembrava imbarazzato. “Quello ti regge, secondo me.”
“Ti ringrazio”, disse Takeru. E aveva ragione: era un ottimo appiglio. Ci si arrampicò senza troppi problemi, afferrando la corteccia con tutte le sue forze. Fortunatamente non gli ci volle molto per raggiungere il bambino: si mise a sedere, tirando un gran sospiro di sollievo.
Sorrise, con aria di scusa nei confronti del visino corrucciato di Keiji. “Beh, meno male che qualcuno che ne capisce di arrampicate c’è, tra noi”, scherzò.
“Se avevi paura potevi anche non salire”, rispose l’altro un po’ brusco. Ma lo studiava, lanciandogli sguardi con la coda dell’occhio.
“Non avevo paura, prima di salire.”
“Ma se tremavi come una foglia!”
“Ma quello è stato dopo.”
Keiji lo fissò. Takeru sorrise di nuovo. “L’importante è essere arrivati, no?”
E ora che ci faceva caso, finalmente non più appeso a penzoloni su un ramo pericolante, riusciva a capire il perché della predilezione per quel rifugio. La vista da lassù era molto bella: si scorgevano le luci dei grattacieli oltre il cancello dell’orfanotrofio, naturalmente, ma anche le luci delle finestre dell’orfanotrofio stesso, dalle quali si intravedeva a volte passare qualcuno, nel continuo viavai che la gestione dei bambini e della villa richiedeva. Le file ordinate di alberi del giardino, poi, dalle fronde verdi e ben curate. E i passanti oltre il cancello, le espressioni stanche degli impiegati che tornavano a casa dopo il lavoro. Il buio della volta celeste, che celava la vista delle stelle perché troppo ebbra di luce artificiale.
E c’era silenzio, di quelli un po’ ovattati, di quelli che non mettono mai a disagio.
Takeru si appoggiò contro il tronco, osservando il cielo.
“Lo sai, io ho una nonna che abita fuori città”, fece di punto in bianco, decidendo di soprassedere momentaneamente sul fatto che Keiji non avesse voglia di parlare con lui. “Le notti in campagna, lì, sono diverse. Ti è mai capitato di vederle? Il cielo è strapieno di stelle. Io e mio fratello uscivamo spesso di nascosto, quando era tempo di dormire, e le guardavamo, sdraiati sull’erba. Cercavamo di contarle con il dito: ci dividevamo le zone, lui contava a destra, io a sinistra. Ma era difficile: eravamo così sopraffatti dalla loro numerosità che le nostre dita finivano per scontrarsi nel mentre, e litigavamo su chi dovesse avere la precedenza ad annoverare la stella oggetto di discordia nel suo conteggio.”
Il sorriso di Takeru si fece un po’ malinconico. Quei giochi avevano perso d’importanza quando i loro genitori si erano separati. Yamato aveva cominciato a dirgli che faceva freddo, lì fuori a quell’ora, a preoccuparsi che lui prendesse un raffreddore; a trovarla una cattiva idea. Quanto a Takeru, gli mancava così tanto suo fratello che non avrebbe mai voluto contrariarlo. Si risolse a non fare il bambino capriccioso, per dimostrargli che era maturo e forte. Smise di proporglielo.
“Di’, Keiji-chan, hai mai visto una notte così piena di stelle da non poterle contare?”
Keiji rimase zitto per qualche tempo, evidentemente ancora indeciso se parlargli o meno. Infine, scosse la testa.
“E’ un peccato”, rispose Takeru. “Dovremmo rimediare. Un giorno mi piacerebbe farti vedere.”
“Vorrei saper volare. Così arriverei in alto, molto più in alto di così. E le vedrei anche io. Le vedrei anche senza andare in campagna.”
Non fu che un mormorio sommesso, affranto, ma lui lo sentì lo stesso. Il suo sorriso scemò.
Non lo aveva mai capito, quel bambino dai curiosi capelli viola, forse perché non se n’era mai concessa la possibilità. Non era stato solo il rifiuto ben evidente di Keiji, suggellato da quel disegno che gli aveva presentato la prima volta che lo aveva conosciuto, quello che lo denotava inevitabilmente come Estraneo: era stato anche, e soprattutto, per la sua stessa codardia. Forse, in definitiva, aveva avuto paura di essere giudicato da quegli occhi troppo onesti, di sentirsi un ladro e un parassita come Keiji lo aveva dipinto. E poi, in un certo senso, non aveva voluto mettere il naso nel rapporto speciale che legava Hikari a lui, gli era parso quasi indelicato. Si era sentito così tanto in soggezione che aveva finito per scordarsi che si parlava pur sempre di un bambino di sette anni, e niente più di quello.
Un bambino di sette anni che si sforzava di fronteggiare eventi che non capiva, che lo facevano soffrire, che non desiderava ma che non poteva fermare.
E vederlo così smarrito, così solo, così impotente, gli toccò qualche corda dentro di sé, qualcosa che assomigliava fin troppo a quello che aveva provato quando aveva deciso di scalare quell’albero per cercarlo.
“Volare in alto sembra tanto bello, chi non lo desidererebbe? Ma, Keiji-chan,”, fece delicatamente, attento a non offenderlo. “Io guarderei anche in basso, oggi, se fossi in te.”
“Cosa c’è in basso?” Keiji si voltò a guardarlo, la fronte aggrottata.
Takeru glielo indicò col dito.
Seminascosta nel buio, poco più che un’ombra seduta contro il tronco dell’albero, la sua figura immobile sembrava remota, quasi impalpabile. Eppure era ancora ferma lì, stringendosi in una giacca improvvisata, e aspettava.
Sorrise dolcemente, mentre il bambino seguiva la direzione del suo dito, e si immobilizzava.
“Hikari-chan non si è mossa di lì da quando sei salito su quest’albero”, gli spiegò. “E non se ne andrà finché non andrai da lei. Vuole parlarti.”
Lo vide turbato, profondamente.
“E se io non scendessi mai?”
Takeru scrollò le spalle. “Non se ne andrà mai.”
“Ma deve andare a dormire!”
“Anche tu, d’altronde.”
Keiji lo guardò. Fece per replicare qualcosa, forse un’altra risposta provocatoria del tipo Non ho sonno, ma poi sembrò ripensarci. Tornò ad abbassare lo sguardo: al ragazzo parve di non averlo mai visto tanto combattuto, e tanto abbattuto.
Sembrava essere profondamente affezionato a Hikari, almeno quanto Hikari lo era a lui.
Gli mise una mano sulla spalla, rischiando di essere scacciato. Ma Keiji non si mosse, così lui gliela strinse un po’, cercando di consolarlo.
“Non pensi che dovresti parlarle? Almeno sapere cosa vuole dirti.” Disse piano.
Keiji si adombrò ancora di più. “Non lo so.”
“Non sai se vuoi parlarle?” Insistette Takeru.
Keiji stette zitto.
“Non ti piace l’idea della manifestazione di beneficienza?” Tentò allora. “Perché se non sei d’accordo si può pensare a qualcos’altro. Taichi-san e Hikari-chan sono stati chiari a riguardo: dipende da voi …”
“Non è questo!” Keiji sollevò di scatto la testa, un’espressione decisa sul volto. “Io voglio farlo. Farò qualunque cosa, ma non voglio andare via. Voglio restare qui.” Il bambino gettò uno sguardo alla luna dietro di lui, tremendamente serio. “E’ qui che la mia mamma mi verrà a cercare.”
La sua mamma.
Ve lo affido perché possa crescere e vivere, come non ha potuto fare con me.
 “E poi qui ci sono i miei amici. E …” Keiji si interruppe, e di nuovo il suo sguardo si posò sulla figura immobile di Hikari. Socchiuse gli occhi, e sembrò disperato. “Non voglio andare via.”
Era un bambino maturo, si accorse Takeru. Sensibile, ma forte. E il suo dolore lo colpì in modo singolare, tanto che per qualche istante non seppe cosa dire.
Un’espressione del genere non si addice a un bambino, fu tutto ciò che pensò.
Come, forse, non si addiceva a quella di Takeru stesso, quando non aveva che sette anni anche lui, e osservava suo padre e suo fratello andar via di casa con la morte nel cuore …
Solo allora si accorse di avere le parole giuste, e quelle parole quasi non aspettarono di diventare consce prima di lasciare le sue labbra.
“Diglielo”, disse con passione. Keiji lo guardò: aveva gli occhi sgranati, smarriti, lucidi. “Dille che vuoi restare qui, che non vuoi lasciarla. Raccontale cosa significa per te stare in mezzo agli altri, in mezzo ai ragazzi, e in compagnia di Hikari-chan. E fatti rassicurare da lei, perché lei ha il potere di impedire tutto questo, se lo vuoi così disperatamente. Tu non sei impotente: quello che vuoi conta, e verrà ascoltato. Te lo giuro, Keiji-chan. Verrai ascoltato.”
E a chi lo stava dicendo davvero? A Keiji? A se stesso?
Aveva poi importanza, dopotutto? Takeru non temeva più di guardare in faccia se stesso, e il suo passato. Accettò il dolore di quel bimbo biondo con gli occhi tristi, e quel dolore era un tutt’uno col dolore del bimbo seduto di fronte a lui.
Takeru sorrise, e qualcosa dentro di lui si sciolse, ancora. “Tu non capisci, non è così? E’ successo tutto così in fretta, quando ti sembrava che fosse tutto come al solito. E ora sei confuso. Ma guarda, Hikari-chan ti aspetta. Vuole spiegarti tutto, lo vuole davvero. E’ più facile se ti dice che succede, non credi? Così non fa più paura.”
Keiji stava zitto, e sembrava trattenere il pianto.
“Cosa ne dici? Non vuoi parlare con Hikari-chan?” Insistette gentilmente.
“Sì”, sussurrò il piccolo, guardandosi le mani.
“E allora vieni giù. Ti farà stare meglio.”
Calò il silenzio, mentre una lieve brezza scuoteva dolcemente le fronde del loro albero. Takeru vide la figura di Hikari, lì in basso, stringersi maggiormente nella giacca, rabbrividendo.
La stava ancora osservando distratto, quando Keiji si sporse verso di lui, nascondendo il viso contro il suo petto.
Sussultò, colto alla sprovvista, e si voltò a guardarlo, attento a non fare movimenti eccessivi per non rischiare di cadere di sotto. Il viso del bambino era ricoperto di capelli viola che finivano ovunque, scomposti, sui suoi occhi.
Takeru si rese conto, con stupore e tenerezza, che era stato accettato.
“Mi ci porti a vedere le stelle, una notte?” Lo sentì dire piano. Sembrava una supplica, più che una richiesta.
Incredulo, immobile, felice come non credeva si sarebbe sentito, Takeru annuì. “E’ una promessa solenne”, rispose. E, cercato il suo sguardo, gli fece l’occhiolino. “Tra me e te.”
Keiji sorrise. Era la prima volta che gli sorrideva. Gli evidenziava due fossette sulle guance, appena distinguibili.
“E io ti insegno a scalare gli alberi, così non cadi più.”
Takeru rise, imbarazzato. “Mi sa tanto che mi tocca accettare quest’offerta.”
Quando ridiscesero, lo fecero in silenzio, come custodi di un patto segreto solo loro, l’espressione solenne come se avessero attraversato fiumi di lava e draghi sputa fuoco. Keiji fu più rapido di lui, ma ogni tanto si voltava indietro, accertandosi che il ben più goffo ragazzo più grande mettesse i piedi al posto giusto.
E quando toccarono terra, Hikari era già in piedi.
Per un momento, non appena i suoi occhi si posarono su di lei, Takeru provò una stretta al cuore: così seria, così triste, così ferma, le parve improvvisamente distante mille miglia, come un’apparizione, bella in modo doloroso perché intoccabile. Ma poi lei vide Keiji, e il suo viso riprese vita.
“Keiji-chan”, sussurrò. Un sorriso sollevato e luminoso passò sulle sue labbra.
Keiji non aspettò altro: si slanciò verso di lei e la strinse forte, come se non dovesse lasciarla andare mai più.
“Ti voglio bene”, arrivò la sua voce, soffocata in quell’abbraccio. “Ti voglio tanto bene, Hikari.”
Le braccia di Hikari circondarono il suo corpicino, stringendolo a sé con una dolcezza e una commozione infinita. La vide chiudere gli occhi, e sorridere, mentre posava un bacio sul capo di Keiji.
“Te ne voglio tanto anche io, Keiji-chan. Non sai quanto.”
E poi Hikari sollevò lo sguardo, solo per un attimo, e incontrò gli occhi di Takeru.
E fu straordinario quanto i suoi occhi color nocciola brillassero, in quel momento. Grazie, sembrarono dirgli.
Ricambiò il sorriso, incapace di parlare, e si riempì gli occhi di quell’immagine.
Lo seppe allora, una certezza che quasi gli arrivò dall’alto, quasi un imperativo morale: avrebbe fatto qualsiasi cosa – qualsiasi-, per far sì che quell’abbraccio non dovesse mai sciogliersi. Mai per davvero.
Li avrebbe protetti con tutte le sue energie, ci fosse anche voluta una vita intera per farlo.












Riuscire ad aggiornare questa storia è sempre una grande soddisfazione :,) Innanzitutto, ben ritrovati! Un anno e passa dopo, ecco il nuovo capitolo pronto per voi. Non mi sorprenderebbe se a questo punto non vi ricordaste più neanche la trama xD Avete tutto il diritto di mandarmi al diavolo, sono un'autrice pessima, ma vi assicuro che la stesura procede, e questa storia VEDRA' una fine, presto o tardi che sia.
Angolo curiosità: è vera la storia di Ken che non ascolta musica. Lo rivela lui stesso nella seconda serie xD questi rewatch delle puntate sono sempre un toccasana, che devo dirvi ...
Grazie di cuore a chi è arrivato a leggere queste parole, come sempre ^^ al prossimo capitolo!

Padme Undomiel
   
 
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