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Autore: La Setta Aster    15/03/2015    1 recensioni
“sono...” la mano tremava “solo...” mentre inseriva il proiettile nel tamburo di uno degli ultimi revolver sopravvissuti all’avvento delle armi laser. “affari” disse infine, con voce febbrile, prima di premere il grilletto.
Genere: Dark, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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SOLO AFFARI
 
Un tavolo, una sedia, sulla quale sedeva un uomo leggermente impaurito; tra le sue mani una tazza fumante di caffè. Gli giravano attorno come sciacalli altri due uomini, che tentavano di nascondere l’impazienza. Erano ben rasati in viso, e sembravano usciti da una catena di montaggio, con tanto l’aria da agenti venuti su imboccati dalla burocrazia. Infidi esseri. Sullo sfondo, oltre le finestre, si stiracchiava in tutta la sua maestosità il quartiere finanziario dell’immane metropoli, dall’alto del cinquantesimo piano – circa a metà – del lucido e titanico palazzo che fungeva da sede delle attività ufficiali e segrete federali. Era una immensa struttura dalla architettura molto particolare: aveva una base di quasi un chilometro, e s’innalzava restringendosi radicalmente fino a formare una punta vitrea, sulla sommità della quale era posta l’antenna che trasmetteva ogni trasmissione sul pianeta Terra. Nulla passava che non fosse stato controllato.

“mi ascolti:” disse uno dei due uomini in piedi, due agenti della EFI (Earthlings Federal Intelligence) “questo dipartimento è diviso in tre zone di interrogatorio, dislocate nel palazzo. Questa è la prima, in cui si parla con una tazza di caffè in mano. Nella seconda, scordati pure il caffè, perché sei in una stanza buia, con uno psicologo criminale e una luce accecante puntata negli occhi. Nella terza, invece, cominciano le botte; e pestano duro, quei signori” fece una pausa.

Il secondo uomo era stato zitto a fumare una pipa elettrica. L’aggeggio era costituito da un fornello trasparente che era in grado di creare esso stesso una combustione per incenerire la miscela di erba contenuta, e un bocchino in madreperla. L’interrogatore si pose di fronte al pover’uomo. Il caffè, che ancora riempiva la tazza, era percorso da piccole onde che partivano dal centro, espandendosi, e formavano, un’immagine distorta, come una pozzanghera durante un diluvio. Ciò era dovuto al tremore delle mani dell’interrogato, che avevano iniziato a fremere già da prima di stringere la tazza. Il respiro si era fatto più smorzato. L’interrogatore si protese verso lui per avvicinarsi, e per guardarlo bene negli occhi. “e non ti dico che succede nel seminterrato...” disse con voce bassa come un sospiro. Non aveva mai accennato ad un quarto piano, ed  ecco spiegato il perché: la gente veniva torturata con metodi che erano generalmente vietati sulla Terra. Ora il caffè straripava dagli orli della tazza. Dei rivoli sporcavano i bordi. La bevanda iniziò a colare, e delle gocce si andarono a rovesciare sul pavimento pulito e immacolato.

“se parlo mi uccideranno, e uccideranno anche la mia famiglia!” si difese.

“beh, se non parli, priverai tua moglie e i tuoi figli della tua presenza per parecchi anni, amico: andrai in prigione, o peggio: c’è sempre la catabasi negli inferi di questo palazzo, ricordi? Se invece parli, sarai protetto da noi, da agenti che avranno come unico compito quello di proteggere te e la tua famiglia” insisteva l’altro “fino alla morte”.

Si prese del tempo per pensare. La tazza gli scivolò dalle mani, e l’intero contenuto imbrattò tutto, tra i suoi piedi.
“non ti preoccupare” disse con voce amichevole l’agente, chinandosi per raccoglierla. Poi, porgendogliene una nuova: “lo fai per la tua famiglia”.

Piombò il silenzio. E chi tace acconsente.

*

“sono...” la mano tremava “solo...” mentre inseriva il proiettile nel tamburo di uno degli ultimi revolver sopravvissuti all’avvento delle armi laser. “affari” disse infine, con voce febbrile, prima di premere il grilletto. Un boato, un lampo seguito da un tuono, un solenne suono che nessuna arma di quegli anni avrebbe mai potuto eguagliare: la voce stessa del cavaliere pallido, Morte. Il proiettile perforò il cranio della vittima. Tutto il resto pareva buio: solo il revolver e il cranio forato, dal quale uscivano dei fiotti di sangue, che scivolavano come ruscelli sul viso contorto in una smorfia di disperazione.

Mi chiamo Howard. Sono un assassino. Mi occupo di eliminare i bersagli dei criminali che pagano di più. Mi capita spesso di dover fermare il cuore pulsante di un innamorato. È una cosa strana, ma quando uccido un innamorato, o un’innamorata, temono terribilmente la morte, ma la affrontano con più dignità. L’amore non l’ho mai conosciuto. Però amo uccidere. Lo trovo terapeutico. Perché lasciare la vita alle mie vittime quando io di vita non ho più, dentro di me? E poi quei poliziotti che garantiscono l’incolumità dei testimoni... non hanno scampo, sempre che stiano effettivamente facendo il loro lavoro. Chi  rivela qualcosa dei pezzi grossi ha solo due possibilità: venire folgorati da un laser, o trapassati da un proiettile del mio vecchio revolver. Mi piace vederli mentre si dimenano e strillano preghiere con la voce smorzata dai singhiozzii. Adoro, quando mi temono. E mi diverte il loro credersi al sicuro. Invece m’innervosisce quando questa illusione della salvezza li porta ad avere un atteggiamento di sfida. Ma alla fine, io uccido sempre il mio bersaglio. Con calma. Senza odio, ma con passione. Un brivido mi percorre ogni volta che sento la vita abbandonare un corpo freddo e morto. Mi vengono le lacrime dalla commozione, come se la Morte stessa mi stesse compatendo, e mi parlasse con calde parole.
Sono un assassino.

Howard, tornato al suo appartamento, si lavò via il sangue dal corpo con una doccia calda, che distese tutti i muscoli tesi, e riscaldò l’anima fredda come quella città. Ancora in accappatoio, domandò alla cucina un bicchiere di whiskey. Un braccio meccanico, sbucando dalla credenza, glielo porse. Era ghiacciato. Lo prese, e sentì sotto le dita la condensa gelata sul vetro, reso umido da essa. Ordinò anche che le mura riproducessero della musica. Un malinconico blues aleggiò. L’uomo si diresse verso il suo balcone, che dava su una strada stretta, diversi metri più sotto, tra i palazzi gotici della metropoli. Era il quartiere povero. La gente normale aveva sempre tanta fretta di andarsene da lì. Le navicelle sfrecciavano verso la fine di quella strada, passavano sotto i ponti di collegamento dei palazzi, e sfociavano là dove la strada si apriva bruscamente, come una falla tra i palazzi, uno squarcio, una ferita in mezzo a quel complesso sistema di grattacieli addossati l’uno all’altro, verso un’enorme punto d’incrocio fra svariate strade, il Crocevia, uno spazio di circa sei chilometri – che visto da un pilota, in mezzo alla città che lo inghiottiva pareva di pochi metri – che serviva ai piloti per indirizzarsi in una delle altre strade, per dirigersi alla zona degli agglomerati, oppure fuggire verso sezioni più ‘civili’. Ma nessuno prendeva mai quella via: punto d’accesso al quartiere povero, un ghetto dove il tempo sembrava essersi fermato al 2030. Nessuno aveva il coraggio di vagare per quei vicoli. E mai nessuno ne era uscito, degli abitanti. Chi povero nasceva, povero moriva. Il che, di solito, non si faceva attendere. Howard guardò verso il basso. I quaranta piani si notavano dall’aria più leggera e meno fetida che c’era invece nei piani più bassi. L’uomo si godeva inoltre una visuale che amava, dall’ultimo piano: a destra, s’intravvedeva, oltre il portale dall’arco a sesto acuto, tra gli edifici, il Crocevia; a sinistra, le tenebre andavano infittendosi sempre di più, accolte dalle luci rossastre dei lampioni che spuntavano come spine dalle pareti di cemento armato, fino ad ottenebrare il quartiere povero, svariati chilometri di morte e silenzio, un luogo che se smettesse un giorno di esistere, nessuno se ne accorgerebbe. Traeva piccoli sorsi dal bicchiere, che pian piano si svuotava. Sentì degli spari, lontani, che si perdevano nell’immensità del quartiere. Il rumore serpeggiava fra le strade bagnate di sangue e vino, fra vicoli oscuri, che puzzavano di carogna, fra le case, covo di terrore e disperazione, e totale depravazione. Ma gli spari, le urla, tutto il frastuono veniva presto dissipato da un silenzio prepotente, più forte del suono stesso.

Mi trovo al confine tra diversi mondi: – pensava – da una parte l’inferno di questa metropoli, – guardò verso sinistra, dove la strada si restringeva ed incupiva – dove persino la legge è fuggita per la paura; dall’altra,  - spostò il suo sguardo pensieroso sul punto di scambio delle varie astrostrade – l’accesso per la parte della città che non dorme mai, gli agglomerati, un condensato di etnie e specie aliene impressionante, un’esplosione di vita, e, a volte, anche di morte. Il confronto delle morti fra quartiere povero e agglomerati sarebbe comunque imparagonabile. Là però non c’è lavoro per me: i miei bersagli sono pezzi grossi, che si nascondono alla luce; nel quartiere povero muoiono i ragazzi, gente che non avrà mai peso nemmeno nella propria casa. Comunque, continuando per una strada interminabile che sembra volersi allontanare da tutto quel caos per cedere il posto al quartiere d’intermezzo, ci sono case più belle, tranquille, e si respira aria nauseante di pace. Infine, il più squallido e falso di quest’insulso immondezzaio di imponenti palazzi e grattacieli diroccati: il quartiere alto, a sua volta diviso in varie zone, come quella finanziaria o quella cittadina. L’unica cosa interessante è il mercato. E, certo, le armi, quelle da fuoco, perché solo nei quartieri alti si trovano armi che funzionino, e che non siano di ennesima mano. Ma i proiettili per il mio revolver me li procura un mio amico, che mi procura anche la droga. Non ha più le gambe, quel mio amico: perse durante il servizio militare di frontiera, durante la guerra contro i Venatori, una specie aliena xenomorfa che infestava dapprima il pianeta Atlas, chiamato così perché scoperto dall’astronave militare Atlas 07, la settima nave stellare sbarcata dalla Terra alla ricerca di pianeti che si allontanino più della nostra patria alla somiglianza con la merda. Questa specie aliena si è poi espansa come un morbo tramite le astronavi. Quei maledetti si nascondevano negli anfratti degli scafi, poi scendevano agli scali e si riproducevano in maniera asessuata creando intere colonie in pochi giorni. Hanno alzato stati d’emergenza su diversi pianeti per anni. Il mio amico perse le gambe nell’Emergence Day del pianeta sul quale era stanziato, e sul quale credeva non sarebbe successo mai nulla: Ilium Proximum.

Howard amava quei momenti: lui, il suo bicchiere di Whiskey, il suo appartamento, e i suoi pensieri. Ricordava spesso il passato, ma quando la mente tornava alla sua infanzia, scrollava la testa con foga, e si stringeva le tempie con le mani, dandosi colpi sulla testa. La sua gioventù regnava nei suoi incubi. Vuotato il bicchiere, rientrò nel suo caldo appartamento, illuminato da una luce rossa, quella delle lampade climatizzanti al plasma. Era in contrasto con la glaciale anima dell’uomo. Alcuni esotici oggetti rendevano la stanza piuttosto accogliente. In mezzo alla sala, stava da solo un tavolo, sul quale l’uomo mangiava. Una parete-schermo vi stava proprio davanti, mentre sulla sua destra rientrava Howard dal balcone. Camminò dritto, superando il tavolo, fino al bancone posizionato davanti alla cucina. Passando dietro al tavolo, sulla sinistra, si apriva la camera da letto, non rinchiusa fra mura, ma parte del monolocale. Il letto a due piazze era posto sopra una tappeto rosso che si stendeva per tutta la zona letto. Tutt’attorno, altri svariati oggetti extraterrestri. Erano dalle forme più strane e vaghe: da inquietanti statue aliene rappresentanti la morte e la sofferenza attraverso forme che facevano reagire il cervello, alla vista, in maniera tale che provasse ribrezzo, a oggetti che faceva persino piacere guardare. Quadri dalla forte caratterizzazione Vegana, del sistema solare della stella Vega, paragonabili all’arte terrestre di Picasso, ma con un piglio più gotico che a Howard ricordava le storie Edgar Allan Poe; o almeno gli incubi che ne erano scaturiti. Oppure vi erano le famose opere d’arte moderna Venusiana, di Venere Secundo, che, alla loro visione, facevano scaturire un intenso piacere sessuale, nonché desiderio afrodisiaco; tutto potevano ricordare meno che la Terra. Molte delle opere moderne erano parte di una corrente astrattista psicoidanica, cioè che attraverso forme particolari e una sorta di emanazioni energetiche inviano al cervello di chi le osserva dei segnali che lo portino a provare determinate emozioni.  Raggiunta la cucina, Howard richiamò il braccio meccanico, che afferrò il bicchiere e lo lavò immediatamente nel lavabo in marmo serpentino, poi lo ripose in una credenza.

Rivestitosi per la notte, si mise a letto senza esitare. Ed ecco che si fanno risentire quegli incubi...

*

Era sdraiato sul letto, lei al suo fianco, con la schiena liscia e dorata in balia dell’aria umida della mattina della favela. Lui era già sveglio da un po’, a guardarla. Quando anche lei aprì gli occhi bellissimi, neri e profondi, gli sorrise. È il sorriso più splendido che il cuore di una persona avrebbe mai potuto pretendere, quello della donna amata. Si sentì pervadere da un’immensa felicità. Lui tentò di tenere gli occhi fissi su quelli di lei, quando ella si rialzò, per andare a vestirsi. Le coperte le scivolarono lungo il corpo perfetto, scoprendolo. Si dissero qualcosa, ma nel sogno erano solo sospiri nel vento.

Tutto ciò che ricordava ancora, in quel sogno, era che, quando le grida della sua amata cessarono per mai più ritornare, lui fece a chi aveva ucciso la donna che amava cose che a nessun altro essere umano e non umano piacerebbe immaginare. Oltrepassava lo scibile di ogni etnia, di ogni pianeta e costellazione. Tentò di far rivivere il suo dolore a quegli esseri. Sentiva dentro di se come la voglia di vomitare, come se sapesse di meritarsi una morte atroce. Ma questo non faceva che eccitare in lui un piacere perverso, pensando a ciò che aveva fatto. Tutto ciò che gli assassini dissero prima di compere quel male massacrante, fu “sono solo affari”.

*

Si svegliò di colpo, Howard, come se fino a quel punto una montagna d’acqua lo avesse afferrato per la gola e soffocato. Respirava affannosamente. Si picchiò forte i pugni sulla testa, e si strappò dei capelli.

“sono solo affari sono solo affari sono solo affari...” ripeteva frettolosamente. Si tappò la bocca con le mani per smettere di ripeterlo come un riproduttore musicale in cortocircuito.

Subito si alzò. Il cuscino e le lenzuola erano inzuppati di sudore, e i suoi capelli grondanti. Lui stesso era ricoperto di gocce di sudore, che fuoriuscivano dalla pelle, ed era fradicio. Traeva profondi respiri isterici, tanto che gli girò la testa, e dovette sedersi. Scoppiò presto in lacrime, come un bambino quando la madre o il padre tardano a tornare dal lavoro, la notte. Si accoccolò sul letto come fa un cane sgridato. Questo lo costrinse ad alzarsi, furioso, ed estrarre dalla sua borsa di ‘lavoro’ una droga aliena, una piccola batteria che irradiava il cervello con raggi elettrochimici molto potenti, in grado di indurre il sonno senza sogni, o comunque una estrema rilassatezza. Ormai ne faceva uso solo quando aveva quegli incubi. Non gli creava assuefazione, come con gli altri esseri umani e non umani, ma lo aiutava a dormire senza sogni. Disse di non aver mai conosciuto l’amore; mentì: l’amore era tutto ciò che ancora lo rendeva umano. Inserì la batteria in un aggeggio che somigliava tanto a una pistola, poi appoggiò la canna alla tempia, e premette il grilletto. Sentì una scossa alla testa, come se l’avesse sbattuta contro un muro. Poi le palpebre si fecero pesanti, gli occhi gonfi, la mente non riusciva più a pensare. Una goccia di bava stava colando dal bordo della bocca di Howard. Cadde all’indietro, dove il letto lo attendeva.

Quando si svegliò, il mattino seguente, l’oscurità non s’era levata. Ormai da anni,da decenni, un costante stato di maltempo si era steso sul pianeta Terra come una coperta. Le nuvole erano nere di inquinamento. Solo durante la primavera, le nuvole si aprivano un poco, lasciando trasparire un opaco raggio di sole, ma i fiori e il verde erano ormai un ricordo lontano. Questo solo nei quartieri dove i missili spazza nuvole non erano ‘necessari’. La Terra, comunque, era data per spacciata, quindi era questione di altri pochi decenni, prima che una terza era glaciale si abbattesse sul pianeta, per colpa dell’inquinamento. Durante la seconda, riuscirono a domarla in alcune zone importanti. Persino il ghiaccio aveva schifo, a ricoprire certi posti, come il quartiere povero. Gli animali erano ormai tutti cloni creati in laboratorio. Solo uomini potevano vagare in una terra così martoriata. Eppure, lontano nello spazio, vi sono colonie umane in luoghi verdeggianti e lussureggianti, dove molti trovano l’amore e mettono su famiglia, e regna un costante stato di locus amoenus. Cose che Howard non sopportava, perché aveva perso la possibilità di viverle. Mentre si sciacquava la faccia, l’assassino pensava ai compiti del giorno: nulla da fare. Howard odiava quando non doveva né uccidere, né fare commissioni, né portare la droga da qualche parte; insomma, quando aveva la giornata libera. Provava odio anche per la noia, perché lo costringeva a pensare. Così, passeggiava per il quartiere povero con il suo fido revolver e una pistola laser di riserva. Prese il cappello – che ormai non serviva che a nascondere il volto, non essendoci più sole, laggiù – e impermeabile: anche quel giorno aveva intenzione di farlo.

 
Nel frattempo...      quartiere finanziario ; sede EFI ; 9.00am 

Due agenti discutevano in un ufficio.

“hanno ucciso un altro dei nostri testimoni” disse uno, che era appoggiato ad una scrivania.

“l’assassino è lo stesso degli altri?” domandò l’altro, che invece andava avanti e indietro per la stanza, lentamente, e senza degnare il collega di uno sguardo.

“sì. E usa sempre la stessa firma: proiettili. Lui è l’assassino delle armi da fuoco. Anzi, ‘l’assassino del revolver’. Ah, i giornali ci andrebbero a nozze”

“i giornali dicono solo ciò che noi vogliamo che dicano. C’è un tale via vai di gente da tutto lo spazio, qui, che se muoiono i testimoni di losche attività in questo buco di merda di pianeta, non gliene frega un cazzo a nessuno”

“giusto. Finora nessuno dei nostri testimoni era al corrente che gli altri erano morti”

“finora i nostri interrogatori hanno lavorato bene, e il seminterrato resta sgombro. Voi continuate a dir loro che sono al sicuro, e che noi li proteggeremo. Quando parlano, allora non ci serviranno più”

“e inoltre con le famiglie dei testimoni trucidate, nessuno può far trapelare la notizia, visto che gli amici non sanno mai niente”.

Ovviamente, le famiglie non venivano uccise da un revolver. Fecero una pausa di silenzio. Alle spalle della scrivania, si poteva vedere, all’orizzonte, lontano,  il confine della barriera creata dal missile spazza nuvole, oltre la quale vigevano urla e silenzio, pioggia e tuoni.

“se venissero a saperlo i media, sarebbe la fine” osservò il tizio seduto.

“la fine? E cosa potrà mai fregarne, alla gente, se noi continuiamo? Non sono i media, il problema, ma le associazioni extraterrestri di giustizia. Secondo loro il nostro operato non gioverebbe alla giustizia”

L’altro rise.

“perché...” continuò quello in piedi, fermandosi e guardando il collega “secondo loro a noi importa qualcosa? Sulla Terra i peggiori criminali sono invisibili e intoccabili, e noi non possiamo nulla contro di loro. Hanno preso il potere, ma lo tengono solo nei loro quartieri, e a noi sta bene così. A volte arrestiamo qualcuno per far bella figura con i media, e sugli ologiornali extranet. Proteggiamo ciò che non vogliamo perdere: il potere”

“se non è giustizia, la nostra, allora cos’è? Le cose che facciamo, cosa sono? Crimini?”.

Scoppiando a ridere, l’uomo in piedi si avvicinò all’altro. “sono solo affari”.
  
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