XIII
DIMOSTRARE
Dopo un periodo
trascorso a curarsi
dalle ferite del drago, Arles era pronto a combattere. Ma non ne aveva
alcuna
voglia. Il gemello Kanon era partito, diretto al palazzo di Poseidone,
per
cercare di capire se l’armatura era stata un dono del Dio od
una coincidenza.
E, soprattutto, se la divinità gradiva quanto successo o se
non vedeva l’ora di
tirargli il collo. Ares si stava abituando al marchingegno di Efesto e
riusciva
a camminare, anche se solo per brevi tratti. Gli altri abitanti del
tempio si
tenevano in costante allenamento e stavano all’erta, pronti
ad agire.
Steso sul tetto
della tredicesima, il
sacerdote si sentiva un pochino una lucertola e prendeva il sole. Il
drago non
lo aggrediva. Si limitava ad infastidirlo saltuariamente, quando si
annoiava. Arles
aveva scoperto che era solo un cucciolo e che Ares ne possedeva uno ben
più
grosso, così come più grandi erano quelli di
Phobos e Deimos. La bestiola
piaceva a qualche cavaliere d’Atena. A Milo, per esempio,
piaceva giocarci a
palla.
“Cosa
fai quassù?” domandò Deimos,
raggiungendo con agilità il fratello “Giochi a
fare l’acroterio, fratellino? Ti
diverti?”.
“Che
vuoi?” sbottò Arles.
“Vieni
di sotto, mi voglio
divertire”.
“Fottiti!”.
“Vieni!”.
Deimos
tirò il fratello per un
braccio.
“Sei
un coniglio. Non vuoi
affrontarmi perché hai paura di fare l’ennesima
figura di merda!”.
Arles si
accigliò e tentò di colpire
il fratello, che svolazzò con agilità. Indossava
una splendida armatura alata,
un drago verde scuro.
“Torna
qui, rompicoglioni!” sibilò il
fratello più piccolo, cercando di afferrarlo.
Si inseguirono e
finirono entrambi
all’anfiteatro del tempio. Iniziarono ad azzuffarsi, senza
risparmiarsi. Fra
insulti e pugni, il sacerdote era furioso. Deimos, invece, rideva.
Nonostante
venisse colpito anche abbastanza violentemente, non sembrava
preoccuparsene.
“Fai
divertire anche me!” si
intromise Phobos.
“Vaffanculo,
aptero!” ringhiò Arles.
“Non
sono aptero!”.
“Ma
non sai volare. Come i
pinguini..o i tacchini!”.
“A chi
hai dato del tacchino?!”.
Phobos e Deimos
infierirono sul
fratello, che non si tratteneva e rispondeva a suon di cazzotti.
“Ti
strappo tutti i capelli,
mortale!”.
“Ed io
ti sfascio la faccia a suon di
esplosioni galattiche!”.
“Phobos!
Deimos!” tuonò Ares
“Piantatela di nonnizzare vostro fratello!”.
“Nonnizzare?!”
risposero i due, in
coro.
“Piuttosto..Arles!
Ho qualche appunto
da farti riguardo la tua tecnica di combattimento”.
“Prego?!”
si stizzì il cavaliere.
“Hai
una buonissima tecnica, per
carità, ma con ampi margini di miglioramento”.
“A che
titolo tu vieni qua, dopo
tutta una vita che combatto, a dirmi che non va bene come lo faccio?
Sono gran
sacerdote mica per hobby..”.
“Ma
non metto in dubbio la tua
potenza. Solo che puoi migliorare”.
Arles
alzò un sopracciglio.
“Il
tuo problema..” continuò il Dio
“..è che usi molto la parte superiore del corpo. I
tuoi colpi e movimenti sono
tutti incentrati dalla vita in su. Usi molto le spalle, le braccia, il
torace..ma le gambe le utilizzi solo per muoverti”.
“Detto
da uno che non può
camminare..”.
“Sei
proprio un piccolo bastardo”.
“Lo
so..”.
“Quello
che intendo, è che i tuoi
fratelli ti battono perché hanno una tecnica più
completa. Usano anche gli arti
inferiori. Tu al massimo alzi le ginocchia ma preferisci di gran lunga
usare le
braccia. È notevole ammazzare la gente a suon di pugni, ma
sarebbe meglio usare
anche i piedi”.
“Lo
farò quando li userai tu”.
“Arles!
Dovresti ascoltarlo” lo
rimproverò, velatamente, Atena.
La Dea era
apparsa e stava
raggiungendo il fratello. Il sacerdote la osservò e lei
arrossì leggermente,
perché il suo cavaliere era molto poco vestito.
“Ares
è il Dio della guerra” riprese
a parlare poi, indicando il fratello “Di combattimenti e
tecniche ne conosce di
certo più di te, che sei un mortale”.
“Anche
voi siete la Dea della guerra”
rispose Arles “Ma non credo accetterei suggerimenti di
carattere strategico,
dopo tutte le volte che vi siete fatta fare il culo e ci è
toccato salvarvi”.
“Oggi
sei nervoso..”.
“Meglio
non risponda. Potrei essere
cattivo”.
“Suvvia,
Atena” rise Ares “Non serve
che lo stuzzichi pure tu. Ci penso già io!”.
Il sacerdote
fece per andarsene. Era
stanco di discutere.
“Come
ti sei fatto quelle cicatrici?”
domandò ancora il padre.
“Quasi
quarant’anni di botte” sbottò
il figlio.
“Cosa
vuoi che sia? Io ho migliaia di
anni di botte alle spalle!”.
“Hem..fottesega?!”.
“Sei
dolcissimo”.
“Come
un pulcino di zucchero”.
“Questa
cicatrice me l’ha fatta
proprio Atena” informò il Dio, mostrano una spalla.
Arles, senza
parlare, indicò il segno
che aveva sul cuore, dove si era preso la bastonata della Dea quando si
era
suicidato.
“Sì,
Atena ci ama” rise Ares.
“Da
morire”.
“Segui
il mio consiglio”.
“Ok.
Fai due passi dalle mie parti,
quando vuoi aiutarmi ancora”.
“Pulcino
zuccheroso..non farmi
incazzare!”.
“E tu
smettila di sfottere perché
sono mortale e perché non so cavalcare il tuo dannato
cavallo, che vuole solo
mangiarmi i capelli e mordermi!”.
“I
cavalli non mordono!”.
“Il
tuo sì!”.
Ares
sospirò e scosse la testa.
Avrebbe voluto prenderlo a calci, ma le sue gambe non ne erano in
grado. E
sculacciarlo non era proprio il caso.
Kanon conosceva
molto bene le stanze
di Poseidone. Giunse al cospetto del Dio senza troppi problemi, pur
essendo
piuttosto nervoso. Salutò i suoi colleghi di un tempo, che
storsero un po’ il
naso a vederlo. Il Dio dei mari, sul suo solito trono,
osservò Kanon a lungo,
prima di aprir bocca.
“Questa
cosa non ha senso” commentò
“Perché mai una delle mie armature è di
nuovo su di te? E perché ha mostrato le
ali?”.
“Non
posso saperlo io” sbottò Kanon
“Sono qui proprio per questo. La tua Sea Dragon mi ha
inseguito per mezzo
tempio, prima di mettersi a svolazzare con me dentro”.
“Strano..da
Atena capitano sempre
cose bizzarre”.
“Concordo.
Adesso ci sono pure i
draghi!”.
“I
draghi? Ah, ma..Ares è da voi,
giusto?”.
“Esattamente”.
“Allora
è tutto chiaro! Dove sta
Ares, si svegliano sempre i draghi. Quindi anche l’armatura
ha reagito ed ha
assunto quell’aspetto”.
“Sì
ma..io sono il cavaliere dei
Gemelli, non un tuo generale!”.
“Non
è una scelta mia. Io non ti
vorrei mai a mio servizio”.
“E
nemmeno io voglio stare qua.
Perciò riprenditi quest’armatura e lasciami in
pace!”.
Kanon
tentò di liberarsi della Scale,
che però non ne voleva sapere di lasciarlo. Rimase ancorata
al corpo del
cavaliere, nonostante le sue proteste.
“È
l’armatura a sceglierti, non
viceversa” sorrise, divertito, Poseidone.
“Beh
ma che si fotta l’armatura! Io
sto bene alla terza casa!”.
“E
restaci. Chi te lo vieta? Tanto
siamo tutti alleati..”.
“Io
sono qui per appurarmi che poi
non ti girino le palle e venga a cercarmi per punirmi”.
“Non
lo farò. Poi..mi sono giunte
all’orecchio voci interessanti”.
“A che
proposito?”.
“Su
presunti legami di parentela
divina”.
“Parli
di Ares? Non ci sto capendo
molto ma, quando avrò compreso, ti manderò un
sms. Ok?”.
“Sms?”.
“Sì.
Che c’è? Voi Dei non avete il
cellulare?”.
Poseidone non
rispose. Lo aveva, ma
non dava il suo numero a nessuno, meno che mai ai suoi fratelli e
parenti, che
lo avrebbero riempito di foto imbarazzanti e messaggini inopportuni.
L’idea che
Kanon fosse in realtà figlio di Ares gli piaceva.
Così giustificava il fatto di
essere stato ingannato da quel mortale. Non era un semplice mortale
bensì un
discendente divino. Ottima cosa da dire, per salvarsi la faccia!
Milo e Deathmask
osservavano da
lontano le due donne. Pentesilea e Mirina, la regina delle amazzoni e
la somma
sacerdotessa di Ares, stavano dando bella mostra di sé
all’arena del tempio.
Allenandosi, le due stuzzicavano molte fantasie maschili. Quando videro
arrivare Deimos, seguito da Arles, sorrisero.
“Come
se la cava nel volo il nuovo
arrivato?” domandò Mirina.
“Egregiamente,
direi” rispose Deimos,
con un cenno d’orgoglio verso il fratello.
“Splendido!”.
“Anche
se possiamo ancora migliorare,
vero Arles?”.
Il sacerdote si
limitò ad annuire,
stufo di continue chiacchiere a lui rivolte.
“Un
giorno verrò a vederti” commentò
Mirina “Sono sicura che sei bravissimo. Ed anche molto
affascinante, con quelle
ali spiegate”.
“Quando
vuoi..” acconsentì lui,
andando a sedersi fra i primi gradini dell’anfiteatro.
Era piuttosto
stanco, ma c’era una
cosa che si era ripromesso di fare..
“Hei!”
interruppe i suoi pensieri
Milo “Carina la fanciulla. Lieto di vedere che ti dai di
nuovo da fare,
sacerdote!”.
“Ma
che discorsi fai? Guarda che è
mia sorella!”.
“Sorella?”.
“Sì,
sorella. Sei duro d’orecchi?
Vuoi che te la presenti?”.
“Cosa?
Io? Ma..”.
“Mirina!”
non attese risposta Arles
“Vieni qui un secondo”.
L’amazzone
si avvicinò e Deathmask
protestò. Ed a lui niente?!
“Sei
fidanzato!” lo spinse via Milo.
“Fatti
miei!”.
“Pentesilea”
chiamò, con un sospiro,
il sacerdote.
Entrambe le
donne raggiunsero il
fratello minore, che si rialzò.
“Questi
miei amici..” spiegò
“..vorrebbero tanto conoscervi”.
“Benissimo”
ghignò Mirina “Allora
alzatevi! Non c’è modo migliore di conoscersi se
non con un bel combattimento
corpo a corpo”.
“Che..?!”
spalancò gli occhi
Deathmask.
“Buon
fortuna” rise Arles “Sono
amazzoni. Picchiano di brutto!”.
“Lo
sappiamo”.
“Me se
le battete..stanotte vi
divertite. Ora scusatemi, ma ho una cosa da fare”.
Ah, Eleonore!
Bellissima Eleonore!
Eleonore che mutava il suo aspetto seguendo le fasi della luna, che
danzava per
celebrare la Dea, che intrecciava i lunghi capelli con fiori
variopinti.
Eleonore, quella Eleonore, non esisteva più. Al suo posto,
vi era la nuova
moglie di Hades, molto più tenebrosa e silenziosa. Ed
innamorata di un uomo
diverso. Arles era rassegnato. Come poteva competere, contro un Dio? Un
Dio
che, per quanto fosse inquietante, era sano di mente e privo di
individui che
passavano la giornata a mettergli i piedi in testa..
In quella notte
di luna piena, il
sacerdote camminava nel buio. Con fra le dita il fiore preferito di
lei, un
giglio, il cavaliere sapeva bene che visitare la tomba della sua amata
era del
tutto inutile. Sospirò. Com’era triste
all’idea che nemmeno vagamente lo
ricordasse! Kanon amava fargli quei discordi filosofici sul fatto che
è meglio
amare e perdere piuttosto che non amare mai, ma per Arles non era
così. Aveva
passato gran parte della sua vita nella
totale convinzione di non poter essere amato da nessuno a causa della
sua personalità
ambigua ma Eleonore aveva
cambiato
quella sua prospettiva. Era angosciante. Ma si era ripromesso di
reagire e dimostrare
a tutti di non essere di animo debole. Giunse nei pressi di un lago, su
cui il
riflesso del satellite argento era limpido e magnifico. In esso, un
gruppo di
donne nuotavano, di cielo vestite. La loro pelle nuda brillava,
riflettendo la
luna con ogni goccia che scivolava su di essa. Erano immerse fino ai
fianchi e
danzavano, tenendosi per mano. Poi una di loro spalancò gli
occhi, coprendosi
il seno.
“Un
uomo!” gridò.
Arles
continuò ad avanzare, senza
cambiare espressione. Le donne stavano facendo un gran baccano,
cercando di
coprirsi.
“La
pagherai!” parlò, con tono grave,
colei che stava al centro del gruppo “Mortale, pagherai caro
questo affronto!”.
“Non
vedo l’ora” rispose Arles
“Diana, Dea romana della luna”.
“Chi
sei? Voglio sapere il nome che
scriverò sulla tua tomba”.
“Non
ha importanza il mio nome.
Dovessi morire, lasciami pure marcire in pasto ai corvi”.
“Non
usare frasi ipotetiche. Tu
stanotte morirai!”.
Uscendo
lentamente dall’acqua,
mostrandosi del tutto nuda per qualche istante, Diana chiamò
a sé la sua
armatura. Le sue sacerdotesse fecero lo stesso. Arles lasciò
cadere il giglio
che aveva fra le mani e lasciò che anche la sua armatura lo
vestisse.
“Sei
un guerriero di Ares?” domandò
Diana, riconoscendo le vestigia.
“Sono
tante cose. Fra queste, l’uomo
che follemente amava Eleonore”.
“E chi
è?”.
“Magari
all’altro mondo te ne
ricorderai”.
“Ti
piacerebbe! Porta i miei saluti
al tuo caro padrone, quando varcherai le soglie del regno dei morti! E
spero di
spedirti presto, a farti compagnia, Artemide!”.
Arles non
rispose. Era bello sapere
che i nemici ancora credevano Ares morto. La Dea romana si
preparò a scoccare
le sue frecce. Con rabbia, ne inviò una schiera contro
l’invasore che però
riuscì a respingerla, spedendola in una diversa dimensione.
“Notevole
che un mortale faccia
questo”.
“Non
hai ancora visto niente..”.
Arles non era
affatto sicuro di
riuscire a battere la Dea ma non riusciva a togliersi dalla testa
quella scena:
la sua amata stesa a terra in un lago di sangue, in un coma da cui non
si era
mai più risvegliata. Per anni aveva sofferto ricordando,
senza mai trovare la
forza necessaria per reagire e vendicarsi. Ora l’aveva
trovata quella forza..ma
forse aveva fatto una cazzata! La Dea lo colpì
violentemente, con un calcio.
Lui si riprese in fretta e saltò, prendendo il volo. Lei lo
imitò ed iniziò uno
scontro aereo, fra le frecce che le sacerdotesse di Diana lanciavano
verso il
nemico. Alcune andavano quasi a segno ma non fermavano la furia di
Arles, il
cui sguardo rosso sangue incrociò quello della Dea. Lei
parve intuire il legame
fra quell’uomo che la sfidava ed il Dio della guerra. Ne fu
lievemente
spaventata.
“Non
riuscirai a battermi” commentò
“Sei comunque un mortale, anche se di discendenza
divina”.
Lo
colpì, facendo lo indietreggiare.
“Ora
ricordo..” commentò “Eleonore!
La somma sacerdotessa di Artemide! Una cosa inaudita per me che una
delle mie
adepte si faccia toccare da mani maschili”.
“Anche
per Artemide lo era. Ma ha
compreso il legame che vi era fra lei e la sua sottoposta e non ha
avuto nulla
da ridire. Lei aveva compreso il nostro amore”.
“L’amore
è qualcosa di decisamente
sopravvalutato”.
“Ti do
ragione. Ma io affronterei
mille e più nemici se, in cambio, potessi riaverla
accanto”.
“Capirai!
Non sai fare altro,
galoppino di Ares! Null’altro, se non combattere”.
Arles
schivò l’ennesimo attacco ed
avanzò sicuro. Allungò il braccio ed
affondò gli artigli delle sue vestigia
nella carne di lei. Questo lo scoprì, permettendo alle
sacerdotesse di
raggiungerlo con qualche freccia.
“Io
non sono il galoppino di Ares”
commentò, afferrando la Dea per i capelli “Io sono
il gran sacerdote di Atena.
E Ares..Ares è mio padre, romana!”.
Detto questo,
strinse la Dea a sé e
le diede un bacio, di quelli che la sua avversaria tanto odiava, con
tanta
lingua e disprezzo. Lei gemette, trovando la cosa disgustosa ed
umiliante.
Cercò di liberarsi dalla presa di lui ma non ci
riuscì.
“Ringrazia
che sono qui solo per
ucciderti..” le sussurrò all’orecchio
Arles “..perché questa battaglia mi ha
decisamente eccitato”.
Diana
spalancò gli occhi e gridò,
pronta a lanciare un ulteriore attacco. Il cavaliere
l’anticipò e la colpì con
violenza. La Dea cadde in terra, nel suo stesso sangue. Poi
l’avversario si
concentrò sulle sacerdotesse. Estraendosi dal corpo varie frecce,
capì che non aveva altro che
delle fanciulle smarrite dinnanzi a sé. Senza la loro Dea,
non erano niente. Ci
mise qualche istante a sconfiggerle, anche perché erano
poche e deboli.
Il lupo
ringhiò. Mirina, ancora fra
le braccia dello Scorpione, si svegliò.
“Hai
sentito?” mormorò.
“Sì,
sono Shaina e Deathmask che
litigano” sorrise Milo “Normale
amministrazione”.
“No.
C’è altro. Il lupo di mio padre
sta ringhiando”.
“Nemici?”.
“Non
lo so”.
Milo
uscì dal letto, senza
preoccuparsi troppo della sua nudità. Raggiunse
l’uscio della sua casa ed
intravide un’ombra sulle scale.
“Chi
è là?” domandò.
L’ombra
si mosse leggermente,
facendosi illuminare dalla luna.
“Arles!”
sobbalzò Milo.
Il sacerdote era
ricoperto di sangue,
suo e del nemico. Con i capelli neri incollati al viso in ciocche
scomposte,
fra sudore e coaguli, non aveva di certo un aspetto rassicurante.
Inoltre il
suo sguardo era spaventoso.
“Torna
a letto, Scorpione” mormorò
Arles, riprendendo il suo cammino.
“Sì”
balbettò il guardiano
dell’ottava casa.
Era sceso uno
strano silenzio.
Nemmeno Deathmask e Shaina si udivano più. Probabilmente,
dopo la rabbia
iniziale nel trovare il suo uomo con un’altra donna,
l’Ofiuco aveva trovato il modo
di farsi rabbonire. Pentesilea, nel frattempo, si era allontanata in
silenzio,
soddisfatta.
Ares dormiva e
sognava. Si svegliò di
colpo, udendo un rumore.
“Arles!
Sei tu! Smettila di farmi
spaventare!” borbottò.
Si
alzò a sedere, un pochino intontito,
e solo in quel momento si accorse dello stato in cui versava il figlio.
“Che
ti è capitato? Non dirmi che
sono stati Phobos e Deimos!”.
Il sacerdote
camminò lentamente e si
inginocchiò dinnanzi al padre.
“Chiedo
perdono” mormorò “Avevate
chiesto la testa di Marte ma io, per quella, non sono ancora pronto.
Vogliate,
intanto, accettare questa”.
Con riverenza,
Arles mostrò al Dio il
suo trofeo: la testa di Diana. Ares sobbalzò.
“Arles!
Hai affrontato Diana da
solo?”.
“Sì”.
“Sei
un pazzo!”.
“Perdonatemi.
È che..avevo un peso
dentro di me..”.
“Ed
ora se n’è andato?”.
“No..”
sospirò Arles, chinando ancora
più il capo.
Il Dio della
guerra pose una mano fra
i capelli del figlio.
“Sono
fiero di te” gli disse “Ma non
correre rischi inutilmente. Potevi morire..”.
“Lo
so. Ma che importa?”.
“In
guerra contano gli uomini
migliori. Se li perdo per strada, non va certo bene! Ora va a riposare.
Sei
ferito”.
Arles si
rialzò, senza dire nulla. Si
trascinò fino alla grande vasca della tredicesima e,
spogliatosi di vesti ed armatura,
vi si immerse. L’acqua limpida cambiò colore,
tingendosi di rosso sangue. Il
sacerdote gemette e chiuse gli occhi. Si sentiva meglio, ora che lo
sciabordio
della lieve corrente lavava via ogni segno dello scontro. Si
ritrovò con le
lacrime sul viso. Che razza di ennesimo mostro era diventato? Accecato
dalla
rabbia e dalla vendetta, aveva affrontato ed ucciso una Dea. Una figura
in cui
molti credevano ed ora ai quei molti mancava una guida. E quante altre
vite
aveva distrutto, uccidendo le sacerdotesse? E tutto questo per quale
motivo?
Eleonore non sarebbe mai tornata, mai più. Un rumore lo
distrasse da quei
pensieri. Un’ancella, una delle poche rimaste al tempio, era
entrata e si era
lasciata sfuggire un gridolino di spavento.
“Chiedo
perdono!” si affrettò a dire
“Io a quest’ora pulisco, perché non
c’è mai nessuno. Me ne vado subito”.
Iniziò
a raccogliere gli asciugamani
che aveva fatto cadere in terra. Quando rialzò lo sguardo,
Arles le stava di
fronte. Le afferrò i polsi, facendo di nuovo finire in terra
i panni.
“La
prego, non mi punisca. Mi
dispiace!” supplicò lei “Non
succederà più”.
Il sacerdote non
cambiò espressione.
La strinse a sé e la fece sua. La fanciulla gridò.
“Scusami”
gemette Arles “È che questa
battaglia mi ha decisamente eccitato”.
Chiedo
perdono per chi si sentirà in qualche modo turbato da certi
passaggi e grazie a tutti coloro che stanno seguendo la storia fin ora.
A presto!