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Autore: PapySanzo89    18/03/2015    8 recensioni
John Watson è tornato dall'Afghanistan e un suo vecchio collega gli consiglia di andare ad uno speed date per tirarsi su di morale. Controvoglia accetta il consiglio ma non sa che l'uomo che incontrerà lì gli cambierà con tutta probabilità la vita.
#Parentlock
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John, Watson, Sherlock, Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mi sento stra-incolpissima per essere sparita tipo due settimane (col capitolo pronto per giunta, solo da ricontrollare) ma sono state due settimane intensissime e tipo era un miracolo che riuscissi a respirare (e no Sherlock, respirare non è noioso…) ma detto questo, ecco a voi quello che è praticamente l’ultimo capitolo (perché il prossimo è l’epilogo e avrà tipo 3 paginette, quindi insomma, qui succede il tutto diciamo XD) è anche l’ultimo capitolo corposo quindi “godetevelo” perché quello dopo sarà –appunto- miserello. XD
Vi auguro una buona lettura e grazie a tutti, davvero. <3
 
 
 
 
 
 
4.
 
 
 
 
 
Angelo appoggia una candela sul tavolo passando poi a prendere gli ordini e né John né Sherlock (ma questo è già più normale) dicono qualcosa a riguardo.
 
Il tavolo è il loro solito, vicino alla finestra con vista sulla strada (e il fatto che abbiano un loro solito tavolo forse dovrebbe già dire qualcosa) e John si ritrova a sorridere senza motivo apparente, solo felice della situazione.
 
Chiacchierano del più e del meno, Sherlock gli racconta di come abbia finalmente trovato la soluzione al caso di Lestrade (un alquanto semplice e banale giro di droga che andava avanti da parecchio tempo) e di come fossero tutti degli emeriti idioti a non notare certi particolari evidenti. John gli chiede cosa non abbiano notato quelli della scientifica e Sherlock fa un verso spazientito alzando gli occhi al cielo e riassumendo il suo pensiero in un aspro e secco tutto. John ride sotto i baffi ma cerca di redarguirlo almeno un po’.
 
Sono un po’ più vicini del solito, i gomiti e le ginocchia di sfiorano, entrambi si sporgono sul tavolo come se dovessero sentire meglio ciò che l’altro ha da dire nonostante non sia mai servito avvicinarsi in quella maniera, ridono per un nonnulla e Sherlock –dopo diverso tempo- finalmente rilassa le spalle che aveva contratto fin quel momento (come se John non se ne fosse accorto) e il dottore si rende conto di non riuscire a levargli gli occhi di dosso. Beh, perché mai dovrebbe farlo?
 
Angelo fa ritorno con i piatti e i due si scostano, quasi dimentichi di essere al ristorante e non in una specie di bolla di cristallo fatta solo per loro e John realizza solo in quel momento quanto fossero davvero vicini, davvero intimi, e si chiede se siano così persino quando sono a casa, se i loro spazi personali si siano ridotti talmente tanto da quando si conoscono che ormai non si rendono nemmeno conto di essere disdicevoli in pubblico.
John scrolla mentalmente le spalle. Non gliene potrebbe fregare di meno.
 
Sherlock inizia una tiritera su un’idea che gli è balenata in mente per uno studio da fare con la cenere e John lo ascolta volentieri, ma nega l’iniziativa dell’altro bollandola come inutile e noiosa e Sherlock sembra prendersela mortalmente, mangiando una forchettata di pasta e guardandolo come se avesse appena annunciato che al mondo non esistono più criminali (che per Sherlock sarebbe decisamente peggio che morire).
John scuote la testa e nota che Sherlock, per una volta, mangia con gusto (e non a spizzichi e bocconi e muovendo il cibo con la forchetta nemmeno avesse cinque anni) e dopo averlo guardato un altro po’ e riso del suo muso lungo fa finalmente la domanda che gli preme.
 
«Quindi finalmente abbiamo il nostro primo appuntamento.» ed effettivamente non gli è venuta fuori come una domanda ma piuttosto come un’affermazione, ma crede sia meglio metterla su questo piano.
 
Sherlock alza gli occhi dal piatto e li punta nei suoi, rimanendo a fissarlo e togliendosi dalla faccia quel finto muso lungo.
Finisce di masticare con grande calma sempre guardandolo, lasciandolo sulle spine, e John pensa che vorrebbe strangolarlo quando fa così. Quell’uomo gli provoca istinti omicidi in egual misura all’affetto che prova per lui.
 
Sherlock si pulisce le labbra con il tovagliolo e finalmente sembra intenzionato a parlare. John pensa di cambiare discorso solo per irritarlo.
 
«Da parte mia non lo definirei il primo, ma possiamo in effetti dire che sia il primo ufficiale.» e Sherlock sorride, di uno di quei sorrisi aperti e sinceri che fa davvero troppo raramente e che John ama dal profondo del cuore. E sembra davvero felice.
 
John mette giù la forchetta e rimane a guardare l’espressione spensieratamente giocosa di Sherlock e pensa di non averlo mai visto così da quando lo conosce. Si ritrova a sorridere di rimando. «Quello che ho detto io.»
 
«No, in realtà non hai detto proprio questo.»
 
John alza gli occhi al cielo. «Praticamente sì.»
 
«No, veramente no…» ma prima che possa dire qualcos’altro il suo cellulare squilla ed entrambi portano gli occhi sull’apparecchio che vibra e suona sul tavolo.
Sherlock guarda il mittente e sbuffa seccato, rifiutando la chiamata e riappoggiando il cellulare al tavolo.
 
«Scusa, dicevo…» il telefono squilla di nuovo e Sherlock, seccato, stringe i denti trattenendo il respiro, adocchiando l’aggeggio come fosse opera del demonio. «Lo spengo.» dice infine con un ulteriore cenno di scuse, rifiutando nuovamente la chiamata e sbloccando il telefono per spegnerlo.
 
«È Lestrade?» chiede John, vedendo la faccia scocciata ma curiosa dell’altro.
 
Sherlock risponde con un cenno non curante della mano ma John lo ferma prima che possa davvero spegnere il telefono.
 
«Rispondi, magari è importante.»
 
Sherlock adocchia John e poi il telefono. «No, non credo, sarà qualche sciocchezza come al solito.»
 
«E allora rispondigli e mandalo al diavolo!» dice John sorridendo e Sherlock, dopo qualche istante, restituisce il sorriso. «Non ho voglia di passare la serata con te distratto perché “chissà cosa aveva da dire Lestrade”.» e a dire questo John è serio. Sa perfettamente com’è Sherlock quand’è preso da un caso, o quando semplicemente pensa possa essercene uno, e non ha voglia di finire la sua lasagna parlando con Sherlock mentre l’altro gli risponde a una domanda sì e due no perché mentalmente è da un’altra parte.
 
Sherlock guarda ancora un attimo John e stringe le labbra in una linea sottile. Non è così che dovevano andare le cose, doveva essere una serata tranquilla, dovevano avere quel famoso appuntamento che John tanto voleva, dovevano chiacchierare e magari bere un po’ più del solito e John doveva divertirsi e loro dovevano…
 
Il telefono squilla di nuovo e Sherlock risponde con rabbia, maledicendo Lestrade e l’incapacità dei suoi sottoposti dall’altro capo del telefono.
 
John lo osserva stringere gli occhi e poi passarsi una mano su tutta la faccia facendo qualche domanda a Greg e sollevando gli occhi al cielo alle risposte, sbottando poi che era un completo imbecille e chiudendo la chiamata senza aggiungere altro.
 
Cala il silenzio tra di loro per qualche secondo e Sherlock rimane a guardare il cellulare con l’aria di volerlo prendere e lanciare fuori dalla finestra (cosa di cui John è in realtà abbastanza preoccupato possa succedere).
 
«John, io-»
 
«Cos’è successo?» chiede e Sherlock si rilassa un pochino contro la sedia e si limita a sbuffare.
 
«Il caso di droga si è appena trasformato in un caso di omicidio.» spiega e John nota come Sherlock si ritrovi ad essere in difficoltà perché è evidente che da una parte non vorrebbe far altro che alzarsi e andarsene di lì, correre là e risolvere il caso; mentre dall’altra vorrebbe rimanere lì con lui, come gli aveva promesso. Il vederlo così in difficoltà comunque gli scalda in un certo e alquanto egoistico modo il cuore: alla fine non ha scelto il caso al posto suo ad occhi chiusi.
 
«E c’è bisogno di te?»
 
Sherlock stringe per un attimo la mascella e si limita ad annuire. Stranamente nessun tipo di offesa parte verso l’incapacità di un certo Anderson (di cui ha sentito le peggio cose) e John pensa che possa essere grave.
 
«Allora andiamo.» si limita a dire, poggiando la forchetta e lasciando metà della sua lasagna, prendendo la giacca e iniziando ad indossarla.
E Sherlock lo guarda con occhi grandi e intensi e per diversi secondi non si muove, sembrando dubbioso.
 
«Andiamo?» domanda allora sorpreso e John annuisce.
 
«È un appuntamento no? Non penserai ti lasci andare da solo? Soprattutto non dopo l’ultimo episodio.»
 
Sherlock a quello pare offendersi. «Non ho bisogno di una balia.»
 
John sorride e gli si fa vicino, prendendogli il cappotto ed esortandolo a metterselo. «No, ma a quanto pare hai bisogno di qualcuno che ti guardi le spalle, quindi muoviti, non abbiamo tutta la serata.»
 
Sherlock lo guarda ancora qualche istante e poi si alza, sinuoso, indossando il cappotto che John gli sta porgendo.
 
Quando escono dal locale Sherlock sorride talmente tanto che deve alzare il colletto del cappotto per evitare di farsi vedere.
 
 
***
 
 
 
Il caso si risolve in poco meno di due ore (due dei ricettatori avevano finito con l’azzuffarsi per una parte non ben condivisa del denaro e uno dei due aveva risolto la faccenda tirando fuori la pistola) e ora entrambi si ritrovano all’entrata del 221 a ridere come imbecilli perché si son ritrovati a inseguire l’omicida per mezza Londra, sono finiti in una sparatoria, l’assassino è quasi riuscito a fuggire (non fosse stato per l’intervento tempestivo di John che l’ha sbattuto prepotentemente a terra, bloccandolo con tutto il proprio peso) e loro tutto questo lo trovano divertente. Lestrade li ha fulminati con un’occhiataccia e a stento sono riusciti a non ridere più forte.
 
Si appoggiano entrambi contro il muro e aspettano di riprendere fiato cianciando ancora sul caso (sperando di non svegliare la signora Hudson) e a John pare di aver fatto la cosa più assurda di tutta la sua vita.
 
«E dire che hai invaso l’Afghanistan.» è ciò che gli risponde Sherlock e John si ritrova a ridere ancora di più, scuotendo la testa. Si passa una mano sulla fronte e tenta di riprendere il controllo di sé almeno per dirgli qualcosa a tono, ma l’unica cosa che gli esce è un flebile «Sì, ma non ero da solo.»
E a conti fatti non sa se sia meglio o peggio.
 
Sherlock appoggia la testa contro il muro, butta fuori tutta l’aria dai polmoni e finalmente si calma, iniziando a respirare più regolarmente mentre John si volta verso di lui e nota il collo pallido esposto (la sciarpa ancora in mano dopo essersela tolta per riprendere fiato), il pomo d’Adamo che si alza e abbassa quando deglutisce, la pelle sotto il mento vagamente arrossata per la barba fatta probabilmente quella mattina e pochi secondi dopo non sa nemmeno lui come si ritrova a condividere lo stesso spazio vitale di Sherlock. Si ritrova appoggiato contro di lui e le mani di Sherlock sulla sua schiena mentre se lo preme addosso. Il primo bacio sa un po’ di terrore e di siamo a casa, sa di urgenza e di voglia e quelli che seguono non li portano ad altro se non a togliersi i cappotti mentre tentano di salire le scale. Si sottraggono l’un l’altro solo per non inciampare nei gradini e per non ritrovarsi come due adolescenti a pomiciare sulle scale mentre vengono scoperti dalla madre, ma per riuscire ad arrivare all’appartamento come due uomini adulti capaci di tenere a bada gli ormoni. E per almeno una buona metà riescono nell’intento, ma i cappotti e la sciarpa rimangono sul loro pianerottolo mentre John viene sbattuto violentemente contro la porta e tenta di aprire quest’ultima a tentoni. Quando è chiaro ad entrambi che quella maniglia non ha intenzione di venire abbassata da John, Sherlock ricollega per un attimo le sinapsi per allontanarsi quel poco che gli serve e allungare una mano sulla maniglia, facendo ruzzolare entrambi nell’appartamento.
 
Ridono come gli idioti che sono quando finiscono a terra e John sa che il giorno dopo il braccio sul quale è caduto gli farà male, ma per ora non ha importanza.
 
Sherlock si alza e aiuta John porgendogli una mano che quello accetta senza fiatare e le cose sembrano proseguire con più calma.
 
S’incamminano verso la camera ma si fermano ogni tre passi per sfiorarsi in punta di dita o a pieno palmo, toccando pelle calda e cercando la bocca dell’altro. Sbattono contro gli angoli dei mobili perché non fanno attenzione a dove stanno andando e prima di riuscire ad imboccare lo stretto corridoio, Sherlock va a scontrarsi con un gomito contro il muro e un verso di dolore gli esce dalla bocca, ma cerca di ricacciarlo indietro mentre spinge John in avanti cosicché si addentri in camera senza che il suo lato da medico se ne esca fuori e inizi a preoccuparsi per lui.
 
Si spogliano vicendevolmente e Sherlock, mentre John gli slaccia la camicia, gli accarezza le guance ruvide con i pollici, traccia le borse sotto gli occhi di notti insonni con reverenza, sfiora la fronte scostandogli i capelli che si sono leggermente allungati e non si frena dal porgersi verso di lui e baciarlo nuovamente, perché semplicemente non ci riesce.
 
John ha aspettato anche troppo tempo. Ha osservato quella figura longilinea scorrazzargli davanti negli abiti più impensabili, ha cercato di rubare scorci di pelle con sguardi furtivi, ha approfittato di ogni momento di stanchezza dell’altro per rimanere ad osservarlo senza alcun cipiglio crucciato e ora può semplicemente alzare una mano e toccare, aprire gli occhi e guardare, allungare le braccia e stringere e non si fa di certo pregare per un contatto, così quando Sherlock si china per baciarlo lui semplicemente si alza per raggiungerlo.
 
E poi sono semplicemente lì, mezzi svestiti in mezzo alla stanza, a fissarsi e toccarsi e parlarsi e John ad un certo punto allunga una mano e afferra quella di Sherlock e si accinge a raggiungere il letto, non fosse per una certa rigidità in Sherlock che lo fa fermare e voltare, preoccupato che qualcosa che non vada. E forse quel qualcosa c’è perché Sherlock lo guarda e sembra preoccupato e no, non c’è assolutamente nulla di cui bisognerebbe essere preoccupati in quel momento.
 
Sherlock per qualche istante fissa le loro dita intrecciate, finché poi non alza i suoi occhi immensi e azzurri in quelli di John e John può notarne una sfumatura allarmata.
 
«John, io…» Sherlock si schiarisce la gola e John ritorna sui propri passi, riavvicinandosi a Sherlock e poggiandogli una mano sulla schiena, accarezzandola. Sherlock chiude gli occhi e fa un piccolo sorriso, talmente sincero che John si ritrova a sorridere di conseguenza.
 
E poi semplicemente le guance di Sherlock prendono un po’ di colore e John si chiede se stia davvero arrossendo -lì, adesso- e per quale strano motivo. E poi Sherlock parla.
 
«Io è da tanto, ma davvero tanto che non…» la frase resta in sospeso, Sherlock si schiarisce la gola di nuovo, guarda John negli occhi e finalmente l’altro capisce il motivo di tanto imbarazzo e scuote la testa.
 
«Nemmeno io se è per questo.» e per lui il discorso sarebbe chiuso non fosse che Sherlock rimane rigido con la schiena e la mano che stringe la sua fa ancora un po’ più forza.
 
«Non vorrei che… fosse…» e John sa perfettamente come Sherlock vorrebbe concludere quella frase e deludente è la prima parola che gli viene in mente.
 
«Sherlock, l’unica cosa che voglio adesso è trovarmi in quel letto con te, possibilmente nudo.» e quando finisce la frase si appoggia con la fronte sul petto dell’altro e scuote la testa, mormorando a bassa voce in maniera abbastanza imbarazzata che è una cosa che non doveva proprio dire. E poi da quand’è che è lui a dire le cose in modo diretto e Sherlock a spezzare le frasi a metà?
 
Quando sente sotto la fronte il petto di Sherlock alzarsi ed abbassarsi per una risata, John non può far altro che tirargli uno schiaffo sul fianco e intimargli di smetterla.
 
«È già abbastanza imbarazzante senza che tu ti metta a ridere di me.»
 
Sherlock lo circonda con le braccia e lo attira a sé e John si adatta, appoggiando la guancia sul suo collo e respirando il suo odore, ridendo sommessamente con Sherlock, che sembra non riuscire smettere.
 
«Credo sia la cosa più romantica che qualcuno mi abbia mai detto, in effetti.»
 
John storce la bocca. «Non voglio immaginare con chi uscissi prima allora.»
 
Sherlock scuote la testa. «No, non lo vuoi.» dice e con una mano fa voltare piano il viso di John cosicché possano guardarsi nuovamente. «Ma comunque, dimostrami quant’è grande la tua voglia di avermi in quel letto, nudo.»
 
John ghigna, lo bacia, e lo spinge facendolo cadere sul letto ridendo.
 
 
***


 
Sherlock gli è addosso, spossato e tranquillo come mai lo ha visto prima, e lo accarezza, gli struscia il naso sul collo e sulla guancia, si spinge contro di lui per avere più pelle calda possibile contro altra pelle calda e continua a mormorare qualcosa all’orecchio di John che però John non riesce bene a cogliere, perché le parole vengono sussurrate troppo piano e il suo senso di spossatezza e appagamento al momento è troppo alto per poter far qualcosa che non sia bearsi delle sensazioni e del calore che lo permea in tutto il corpo.
 
La sua testa è leggera quasi quanto il suo cuore e la sua mano non riesce a fare altro se non aggrovigliarsi in quei ricci sudati nel tentativo di districarli senza fargli male e portarlo verso di sé quando ha voglia di baciarlo un’altra volta.
 
E Sherlock lo fa, si fa prendere con una certa forza e si fa avvicinare alle labbra di John senza fare un minimo verso di dissenso, e questo è semplicemente straordinario, perché vedere Sherlock che si arrende alle voglie di qualcun altro, che esegue quasi una sottospecie di ordine quando pochi istanti prima era intento a catalogare una parte del corpo di John piuttosto che un’altra, è un fenomeno più unico che raro e al momento è il fenomeno di John.
 
«Ad un certo punto temevo mi rifiutassi.» è ciò con cui se ne esce Sherlock diverso tempo dopo e John non è poi così sicuro di aver ben inteso.
 
«Come scusa?»
 
Sherlock sorride ma non lo guarda, troppo intento a sondare in punta di dita e con lo sguardo la cicatrice che John ha sulla spalla.
 
«Ma sì, dopo tutto devo ammettere che il mio carattere, per la maggior parte della gente, che è idiota ricordiamocelo, non è forse dei più semplici e sicuramente i miei trascorsi non sono dei migliori. Ho un figlio e l’intera situazione potrebbe essere problematica anche per il mio lavoro. Ma invece tu sei qui…» e detto questo alza gli occhi verso John che continua a sorridere per il non è forse dei più semplici e rimane a contemplarlo «Se devo essere onesto mi sono buttato nonostante mi fossi detto di non provarci, soprattutto perché averti come amico era meglio che non averti affatto, ma alla fine pare che io non riesca nemmeno ad ascoltare i miei stessi consigli.»
 
«E meno male!» è l’unica cosa che John si sente di dire e ride, ride forte, affondando la testa nel cuscino e dando così la possibilità a Sherlock –che non si fa pregare e si solleva sulle braccia, avvicinandosi- di esplorare il suo collo.
 
«Sai, pensavo non sapessi come rifiutarmi senza risultare scortese.» Sherlock incurva le labbra in un sorriso mentre succhia la pelle dietro l’orecchio di John e per un attimo il dottore è perso in quel tocco e non fa caso alle parole di Sherlock che sono tutto fuorché casuali.
 
«Mh?» si limita a chiedere voltando il viso così da poter dare più accesso all’altro. Sherlock sorride ancora di più.

«Ma come, non ti ricordi? Potrei quasi sentirmi offeso. Al nostro primo incontro, ciò che hai detto di quell’uomo. Raul, Bob…»
 
«Paul.» riesce a dire John prima di finire di nuovo preda della lingua di Sherlock che gli accarezza lieve il lobo e poi tutta la linea dell’orecchio. John alza le mani e va a circondare i fianchi di Sherlock, stringendoli forte ogni qual volta quella lingua gli fa partire brividi lungo la schiena.
 
«Fa lo stesso. Non sapevi come rifiutare lui, parole tue, magari ti stavi facendo degli scrupoli anche per me.»
 
«Come se fossi completamente idiota. È da quel giorno che ti ho messo gli occhi addosso. E che tu sia dannato se davvero non te ne sei accorto prima, mio caro consulente investigativo
 
Sherlock ride e John per un attimo ripensa a quel giorno che gli sembra avvenuto una vita fa. Ripensa a come si fosse trovato quasi in difficoltà quando aveva capito che Paul ci stava effettivamente provando, ricorda la speranza negli occhi dell’uomo e il suo cattivo umore nel non sapere come liberarsene, ma soprattutto ricorda la comparsa di Sherlock (o di Hamish che dir si voglia, e al solo pensiero a John viene da ridere), del suo cappotto nero svolazzante, dei suoi occhi azzurri annoiati, dei suoi modi completamente inopportuni ma fottutamente attraenti. Ricorda anche di aver pensato di non sopportare i tipi logorroici come Paul, eppure è finito a letto con Mister Ultima Parola e se con Paul sarebbe risultato difficile vincere una conversazione con Sherlock le probabilità sfiorano praticamente lo zero ma a John tutto questo non riesce davvero a importare, perché Sherlock Holmes è un uomo talmente straordinario, la sua mente è talmente brillante, la sua noia è talmente bizzarra che John semplicemente lo ama con tutto se stesso.
 
E poi si ricorda di un dettaglio.
 
«Quel giorno io ti ho dato il mio numero.»
 
Sherlock mugola in segno di assenso e struscia la propria guancia su quella di John.
 
«Ma quando sono uscito dal locale il foglietto era a terra.»
 
Sherlock si irrigidisce un attimo e alza gli occhi colpevoli verso di lui. «L’ho infilato nella tasca del cappotto ma poi prendendo fuori il cellulare deve essermi caduto e ritornando poi sui miei passi non l’ho più trovato.»
 
Ma non è questo ciò che John voleva chiedere.
 
«No, io volevo sapere come avessi fatto poi ad avere il mio numero di telefono.»
 
Sherlock aggrotta le sopracciglia. «Me l’hai dato tu.» e il suo viso sembra voler dire non è ovvio?
 
John sbuffa, seccato. «Già, e tu l’hai perso.» e la faccia di Sherlock si fa talmente offesa che John la troverebbe quasi impagabile (ed adorabile) non fosse che la situazione gli sembra alquanto ridicola.
 
«John, ho letto il tuo numero prima di mettere il foglietto in tasca.» e ciò pare risolvere il mistero.
 
«Mi stai dicendo che ti è bastato leggerlo una volta per memorizzarlo? Hai detto che non te ne fai nulla di informazioni inutili, a cosa ti sarebbe servito memorizzare il mio numero di telefono?»
 
E Sherlock pare non sapere se sentirsi seccato o divertito dalla situazione. «Evidentemente il mio cervello sapeva di dover registrare l’informazione così da non perderla per nessun motivo al mondo. In fin dei conti sono un genio e, del resto, dove si trovano ex-medici militari così attraenti a Londra?»
 
John ride di cuore e trascina Sherlock sopra di sé.
 
Sherlock lo bacia con un’accuratezza inaudita, con una passione e una tenerezza che fa crescere un calore denso e delizioso nel petto di John che per tutta risposta non gli nega nulla, nemmeno la richiesta di Sherlock di rimanere fermo perché lo vuole osservare e nel mentre John si sente tanto un esperimento su un vetrino, non fosse che Sherlock non guarda i suoi esperimenti con quella luce negli occhi. Sherlock non guarda nulla con la devozione con cui sta guardando John al momento (tranne Hamish anche se in maniera ovviamente diversa) e John non si sente più un batterio su un vetrino.
 
Sherlock è straordinario. È semplicemente straordinario e prima che possa fare una sciocchezza come perdersi nel suo palazzo mentale per catalogare qualsiasi cosa riguardante il suo dottore, John lo prende per un braccio e lo tira a sé, invertendo le posizioni e stendendosi lui su Sherlock e ricercando la sua totale attenzione.
 
 
 
 
***
 
 
Mycroft, seduto comodamente sulla sua poltrona di pelle in soggiorno, chiude il libro che sta leggendo e  alza un sopracciglio seccato verso il suo cellulare, che sta squillando, e lo fissa per diversi istanti prima di afferrarlo bruscamente e leggere il nome del mittente.
 
Al nome Sherlock che gli compare davanti non può far altro che sbuffare e alzare ancora più seccato gli occhi al cielo (evidentemente è un caratteristico gene di famiglia quello di essere melodrammatici) e posa gli occhi sul nipote, che sta davanti al caminetto a fissare il fuoco come incantato mentre cerca di disegnare strane forme ovali su un foglio di carta, prima di rispondere.
 
«Tuo figlio sta bene.» su risolve a dire invece di altri convenevoli «Non è stato rapito né maltrattato, è ben che sveglio, ha cenato e no, non ho tentato di mangiarmelo.»
 
«Buono a sapersi, posso parlare con lui allora?»
 
La voce di John, non c’è che dire, lo sorprende dall’altra parte del telefono e resta per qualche istante basito per poi riprendere il suo naturale aplomb.
 
«Dottor Watson, mi sorprende sentirla.» a quelle parole Hamish si volta verso lo zio e sorride a bocca piena e si alza, lasciando il disegno incompiuto davanti al fuoco e avvicinandosi a braccia tese verso Mycroft che capisce subito le intenzioni del bambino e decide di passargli il telefono senza fargli domande.
 
John, disteso a letto abbracciato da Sherlock, aspetta di sentire un rumore che non si fa attendere -la piccola manina di Hamish batte contro il ricevitore- e lui sa che è all’ascolto.
 
«Ciao tesoro, credo sia ora di andare a dormire cosa dici? Papà mi darà una mano a fare le voci questa sera.»
 
L’occhiata che John lancia a Sherlock non lascia scelta all’altro che, tutt’altro che convinto, vuole iniziare a replicare che non vuole farlo, che ne hanno già parlato e che lui queste cose non sa e non le vuole  fare, ma ormai John ha parlato e lui non ha di certo intenzione di deludere suo figlio.
Per tutta risposta però pizzica un fianco di John talmente forte che è sicuro gli lascerà il segno e John si scansa in tutta fretta coprendo il telefono con una mano e imprecando contro Sherlock che ora se la ride della grossa.
 
«Te la farò vedere io, dopo.» è l’unica minaccia di John a cui Sherlock  ride per poi tornare ad abbracciarlo e levargli la mano dal ricevitore per poter parlare di nuovo con Hamish.
John si sistema meglio nell’abbraccio di Sherlock e inizia a raccontare la storia di un giovane Hobbit della Contea.
Sherlock storce la bocca per quasi tutto il racconto ma non dice nulla e fa del suo meglio per dare voce ai personaggi che John gli ha affidato, ricompensato da una mano che gli accarezza con amore i capelli.




***


E come aveva previsto John nulla cambia ma semplicemente si sistema. Non deve più andare avanti e indietro tra il suo vecchio appartamento e casa di Sherlock (casa loro), Hamish non deve nemmeno abituarsi alla sua presenza perché è come se John ci fosse sempre stato dall’inizio e non fa più distinzione tra Sherlock e John quando deve chiedere silenziosamente qualcosa.
 
Sherlock continua a fare esperimenti di cui John, la maggior parte delle volte, non capisce l’utilità e John continua a rimproverarlo e ad alzare la voce quando questi stessi esperimenti non vengono fatti con la dovuta attenzione.
Vanno insieme sulle scene del crimine e Lestrade non sa se sentirsi più esasperato o altro, ma comunque accetta la presenza di John come una benedizione –almeno qualcuno che riesce a tenere a bada Sherlock c’è- e uno dei due (solitamente John) tenta sempre di tornare a casa per non lasciare Hamish solo la notte. Una sottospecie di routine si forma tra di loro e John può finalmente dirsi veramente ed intensamente felice dopo anni di assoluto nulla.
 
 
***
 
 
John prepara Hamish per uscire e il bambino fissa le mani di John abbottonargli il maglioncino con un sorriso contento e facendo penzolare le gambe al bordo del letto con fare soddisfatto.
Siccome è una bella giornata John ha deciso di far muovere il culo a Sherlock e di portare assieme Hamish al parco come avrebbero già dovuto fare da diversi mesi e, nonostante Sherlock non sembri dell’idea di volersi muovere, è andato a farsi una doccia senza lamentarsi e questo John può decisamente considerarlo un buon segno.
 
Peccato che il suo piccolo angolo di paradiso venga distrutto in meno di dieci secondi da un suono che conosce fin troppo bene provenire dal bagno e dalla voce bassa e profonda di Sherlock che risponde al telefono.
 
John alza gli occhi al cielo e finisce di vestire Hamish. «E chi potrebbe mai essere?» domanda con ironia più a se stesso che al bambino che lo guarda con occhi ancora contenti e sbuffando energicamente.
Non fa in tempo nemmeno a finire di sospirare che Sherlock è già fuori dal bagno, semi nudo, e lo guarda con sguardo colpevole.
John non ha poi molto da dire.
 
«Vedi di metterci il meno possibile e raggiungici lì.» del resto non vuole rimanere a casa, non dopo che Hamish si è dimostrato così entusiasta di andare al parco e non con quella bella giornata.
Sherlock si limita ad annuire e fa ritorno in bagno per finire di vestirsi.
John prende lo zainetto di Hamish e ci mette dentro qualche giocattolo, delle merendine e una bottiglietta d’acqua.
 
«Andiamo dolcezza.» si limita a dire prendendo Hamish in braccio e dirigendosi verso il bagno, bussando alla porta.
Sherlock esce di fretta e afferra John per la nuca, avvicinandolo a sé e baciandolo, forte. Poi si volta verso Hamish e gli lascia una bacio sulla guancia.
 
«Sarà di sicuro qualcosa di assolutamente banale ed inutile.» dice e John non sa se sia un modo di rassicurare loro o se stesso e semplicemente annuisce, baciandolo di nuovo.
 
«Allora vedi di muovere il culo, qui c’è qualcuno che vuole giocare anche con te.» e detto questo lo bacia di nuovo e si avvia lungo il corridoio mentre Hamish si rabbuia un pochino nel vedere che il papà non li segue e finisce col salutarlo con la manina.
 
Sherlock li guarda sparire oltre il corridoio e poi si rinchiude in bagno di nuovo: deve muoversi.
 
 
***
 
 
Il parco pullula di genitori, bambini, ragazzi con cuffie o un libro in mano, gente che fa jogging o semplicemente cammina e John, con una giornata del genere, non si aspettava nulla di meno.
 
Hamish sembra contento nonostante la calca e quando finalmente viene lasciato libero di correre la prima cosa che fa è lanciarsi contro l’unica altalena libera di tutto il parco e cercare di arrampicarcisi sopra (almeno finché John non gli dà una mano a salire) e dondolarsi come può con le gambette corte, sorridendo allegro a John che scuote la testa e inizia a spingerlo con delicatezza.
 
Hamish sorride, si diverte e alza di più le gambette quando l’altalena arriva in alto e si volta a guardare John ogni tanto come per accertarsi di trovarlo ancora lì e a quel punto John gli sorride e lo spinge con ancora un po’ più di forza.
 
E poi John nota un gruppetto di bambini che corre sulla pista da pattinaggio, qualche metro più in là, e si sofferma un attimo a guardarli quando nota che devono avere tutti solo qualche anno più di Hamish e gli viene un’idea.
Forse non una delle più splendide, ma sicuramente un’idea.
 
«Hamish…» dice, fermando l’altalena per le catenelle d’acciaio e guardando in basso verso il bambino che alza la testa con aria curiosa sul perché si sia fermato tutto improvvisamente. «Vuoi venire un attimo con me?»
 
Il bambino si spinge un po’ indietro appoggiandosi con la testa allo stomaco di John, continuando a fissarlo, e pare rifletterci su, decidendo poi che sì, vuole andare con lui, così annuisce.
John sorride e lo fa alzare, prendendolo per mano e avvicinandosi alla pista da pattinaggio sulla quale non c’è nemmeno un pattinatore.
 
Hamish si guarda intorno curioso, cercando di capire cosa John voglia fare, continuando a seguirlo senza segni di reticenza e John spera che continuerà a essere così disponibile anche tra un po’.
 
Oltrepassa la recinzione della pista (aiutando Hamish sullo scalino troppo alto) e richiama l’attenzione dei bambini.
Hamish gli stringe la mano più forte e blocca i suoi passi.
 
«Scusatemi…» fa John ai bambini che sentendo l’uomo rivolgersi a loro fermano la propria corsa e lo guardano con aria circospetta e diffidente, notando poi il bambino che tiene per mano. «Volevo chiedervi se per caso mio figlio potesse giocare con voi.» ed è una strana sensazione dirlo. Quel mio figlio, s’intende.
 
John scuote la testa ed evita di pensarci al momento, coccolando con la mano libera i capelli ribelli del piccolo.
 
Uno dei bambini più grandi del gruppetto gli si avvicina, osservando però Hamish che si nasconde dietro la gamba di John e pare non voler avere niente a che fare con tutta quella situazione.
 
Il bambino (all’incirca sui sette anni) alza la mano e indica Hamish per poi alzare lo sguardo verso John.
 
«Non vuole giocare con noi.» dice semplicemente e continua a puntare il dito contro Hamish e a John, per qualche infinitesimale secondo, viene quasi da ridere al pensiero di cosa avrebbe potuto dire Sherlock a quell’affermazione.
 
«È solo molto timido, non è vero, Hamish?» ma Hamish non pare per nulla convinto dell’idea di John e continua ad aggrapparsi ai suoi pantaloni non volendo alzare gli occhi da terra. John sospira. «A cosa stavate giocando?»
Il bambino si volta verso gli amichetti che lo stanno aspettando spazientiti e poi torna a guardare John.
«Acchiapparella.»
John annuisce.
«So che sono troppo grande per queste cose, ma se giocassi con voi una sola partita?»
Hamish alza gli occhioni blu-azzurro verso di lui e John gli restituisce lo sguardo, accarezzandogli nuovamente la testa.
 
Il bambino dinnanzi a lui si volta di nuovo verso i compagni e sembra sondare un attimo il terreno.
 
«Va bene.» sembra decidere infine «Io sono Archie.» dice, porgendo la mano in segno di saluto e anche per questo a John viene un po’ da ridere della cosa.
 
«Piacere Archie, io sono John e lui è Hamish.»
 
Archie annuisce e va a presentarli agli amichetti.
 
 
 
John in realtà rimane a giocare a malapena dieci minuti, giusto il tempo per vedere Hamish divertirsi, e poi si allontana, annunciando di essere troppo vecchio per quel genere di cose e mostrando a Hamish una panchina poco più in là, dove lo avrebbe aspettato.

E Hamish, già accaldato per la corsa, gli sorride con le guance rosse come mele e gli occhi gioiosi, annuendo.
 
John si allontana con un peso in meno sul petto.
 
 
 
Hamish non si è fermato un attimo e Archie, come buon capo di quella piccola gang, gli è stato dietro tutto il tempo attento che non si facesse male.
Molto responsabile per avere quell’età.
 
«Mi scusi, è occupato?»
 
John distoglie per un attimo l’attenzione da Hamish per portarla alla voce che ha parlato.
 
Una donna –altezza media, magra, vestitino bianco con pellicciotto, capelli scuri fermati da una croccia e dei grandi occhi celesti- lo sta fissando con un sorriso furbo sulle labbra tinte di rosso.
 
John le sorride cortese e si fa un po’ più in là, mostrandole a gesti più che a parole che se vuole può sedersi.
 
«Grazie.» fa lei «Sto aspettando una mia collaboratrice ma sembra essere in ritardo come al solito.»
 
John ride della cosa. «Non me ne parli, conosco un uomo che probabilmente non riuscirebbe ad arrivare puntuale nemmeno al suo funerale.»
 
La donna ride serafica e si sistema la gonna bianca, facendo cogliere all’occhio di John la carnagione chiara della pelle e lo smalto abbinato al rossetto.
 
«Uno di quelli è suo figlio?» chiede la donna giusto per fare conversazione nell’attesa.
E John, semplicemente perché se la sente di farlo e non ha voglia di dare spiegazioni, annuisce e indica Hamish con una mano.
La donna stringe le mani in grembo e guarda Hamish con qualcosa di simile alla meraviglia.
 
«È un bambino bellissimo.»
 
«Grazie.» il merito non è di certo suo, ma che importanza ha?
 
E poi Hamish cade.
Un passo falso che lo fa finire a terra e che fa alzare John di scatto, pronto ad andare da lui.
Ma Archie va in soccorso di Hamish prima ancora che John possa fare un passo e il dottore nota che Hamish ha i lacrimoni ma non sembra essersi fatto davvero qualcosa di grave e, non appena Archie gli toglie quel poco di terra dai pantaloni e gli dà una pacca sulla spalla, Hamish sembra riprendersi e dimenticarsi l’accaduto ricominciando a correre dietro agli altri bambini.
 
John sospira pesantemente e si risiede. Troppo apprensivo. Troppo.
 
La donna accanto a lui sorride.
 
«Sono bambini, è normale che cadano ogni tanto.»
 
John non riesce ad evitarsi di alzare un sopracciglio abbastanza seccato dall’affermazione (perché lui lo sa che i bambini cadono, grazie tante, ma possibilmente preferirebbe che il suo di bambino non si facesse male), ma cerca di nasconderlo il più possibile guardando da un’altra parte.
 
Rimangono in silenzio qualche minuto e John inizia a pensare che la collaboratrice di quella donna sia una persona davvero, davvero, davvero ritardataria.
 
«Comunque com’è come bambino? Bravo? Intelligente?» chiede lei dopo un altro po’ di silenzio.
 
John si volta verso la donna che mantiene quella sua aria serena e quel suo sorriso serafico ma qualcosa gli fa pensare che sia nervosa. E questo suo pensiero gli fa capire quanto sia evidente che frequenti Sherlock.
 
«È molto intelligente e anche se è una cosa che ogni genitore dice le posso assicurare che è così. È un pochino troppo viziato su certi aspetti ma come figlio è comunque un angelo, quindi di certo non ho di che lamentarmi.»
 
Il cellulare di John vibra e lui si scusa un attimo, prendendo fuori il telefono e notando la notifica di un messaggio.
 
Arrivo. –SH
 
John sorride e lo mette via senza rispondere.
 
Hamish, attento allo scalino alto, scende dalla pista e inizia a correre a perdifiato verso di lui facendo gli ultimi metri con le braccia aperte e andando a sbattergli violentemente addosso, abbracciandolo e sollevando il viso facendo un gesto con la mano chiedendo da bere.
 
È tutto sudato. Tutto il viso è ora di un rosso vivo come mai John lo ha visto, i capelli sono sudati e ancora più ricci del solito e lo sguardo è davvero felice.
E John si sente felice con lui e di vederlo così, come dovrebbe essere un bambino della sua età.
 
«Va bene campione, ma vedi di non strafare che sei già tutto sudato.» detto ciò apre lo zainetto e ne tira fuori la bottiglietta, passandogliela. «E papà ha detto che sta arrivando.»
 
Hamish spalanca gli occhioni mentre beve avidamente l’acqua e poi sorride restituendogli la bottiglietta, correndo via a razzo per tornare a giocare.
 
«Non gliene frega niente.» dice John tra sé e sé, ridendo.
 
«Kate!» la donna seduca accanto a lui alza elegantemente un braccio verso l’alto e fa cenno ad una donna (elegante quanto lei) per farsi vedere dall’altra parte della pista. La signorina –Kate- alza una mano in segno di riconoscimento e aspetta, evidentemente è la donna accanto a lui che deve raggiungerla.
 
La donna si alza e si volta verso di John, un ulteriore sorriso a stenderle le labbra.
 
«È stato un piacere. E ancora complimenti per il bambino.» si limita a dire prima di mettersi gli occhiali da sole e voltarsi.
 
«Sa…» fa John senza un apparente motivo, come fulminato da un’illuminazione. «Lei mi ricorda qualcuno, non ci siamo già visti da qualche parte?»
 
La donna gli sorride.
 
«Impossibile, sono appena tornata in città dopo anni e si fidi, mi ricorderei di un bel dottore come lei.»
 
John le fa un sorriso sincero e la lascia andare.
Non si è nemmeno accorto di non averle detto che fa il medico. [1]
 
 
***
 
 
Hamish ha un incubo e Sherlock e John (entrambi distesi sul divano in soggiorno incuranti dell’ora) lo capiscono benissimo quando la porta della cameretta di sopra viene sbattuta violentemente e dei passetti leggeri corrono lungo il corridoio per scendere poi le scale.
 
Sherlock si alza immediatamente e corre verso di lui, raggiungendolo a metà rampa di scale e prendendolo in braccio mentre il piccolo corpicino di Hamish viene scosso dai singhiozzi.
 
«Ehi, ehi, va tutto bene. Siamo qui.»
 
Hamish gli si aggrappa al collo ma sembra non volersi calmare e John si avvicina a loro con calma, osservando Sherlock baciare la tempia di Hamish mentre continua a sussurrargli qualcosa per tentare di calmarlo. John si limita ad alzare una mano e poggiarla sulla schiena di Hamish, accarezzandola dolcemente e rimanendo in silenzio, lasciando parlare Sherlock.
 
«Porto la tv in camera così si distrae un po’.» fa John dopo un po’ di tempo in cui Hamish ha sì smesso di piangere ma non sembra in vena di riaddormentarsi molto presto.
 
Sherlock annuisce e si avvia, con Hamish sempre in braccio, verso la loro stanza mentre John stacca cavi, cerca il telecomando e impreca contro le prese che non si staccano e il tutto cercando di fare il meno rumore possibile.
 
Hamish è appoggiato interamente contro il fianco di Sherlock quando John entra in camera e sembra non essere intenzionato a muovere un solo muscolo. Deve aver fatto qualche brutto sogno su Sherlock.
 
S’infila a letto e si porta quanto più possibile vicino ai due, accendendo su  un canale a caso e iniziando a fare zapping sperando di trovare qualcosa di decente nonostante siano le tre di mattina e Hamish si spinge con la schiena un po’ contro di lui e allora John si avvicina ulteriormente non lasciando alcun spazio tra di loro. Sherlock gli infila una mano tra i capelli e John si sofferma in quel tocco mentre appoggia la sua sul fianco del bambino.
 
 
 
Sherlock si copre il viso con una mano e scuote la testa trovando ridicolo ciò che stanno guardando mentre Hamish invece sembra trovare quei piccoli cosi blu assolutamente adorabili.
 
È passata almeno un’ora da quando Hamish si è svegliato in preda agli incubi e nonostante tutto ancora non sembra in vena di riaddormentarsi. Fortunatamente per tutti e tre John ha trovato un canale che manda in onda cartoni animati ventiquattr’ore su ventiquattro anche se così si sono dovuti sorbire gli Snorky (o qualcosa con un nome altrettanto inquietante), I Barbapapà (e forse questo nome è pure più inquietante del primo) e, dulcis in fundo, adesso tocca ai Puffi con Hamish che sorride ogni volta che uno di quei cosi fa una qualche battuta assolutamente insensata (e Sherlock pensa che chi fa lo script di questi cartoni dev’essere sicuramente un tossico come lui non era nemmeno nei momento più bui) aggiungendo a fine frase qualcosa di terribilmente simile a puffando.
 
John, dal canto suo, se la sta godendo un mondo a vedere la sua insofferenza a riguardo.
 
Sherlock sospira infastidito dalla faccia sorniona di John ma alla fine si rilassa pensando che almeno a Hamish è passata la crisi isterica e sembra essere del tutto dimenticata e per il calore della mano di John che gli sposta delicatamente i capelli e gli massaggia con dita esperte il collo.
 
«Questa cosa, perché davvero non c’è altro modo per poter descrivere ciò che stiamo guardando, credo sia l’esempio del perché le persone, da adulte, diventano dei serial-killer. Potrei farci uno studio sopra. Oltre ad essere il programma televisivo più orrendo che io abbia mai visto, mettiamolo bene in chiaro.»
 
Hamish, che fino a quel momento stava sorridendo alla tv e muoveva allegramente le mani quando c’erano delle canzoncine, blocca il suo entusiasmo e si volta a guardare il papà con l’aria estremamente grave e seccata, come se avesse detto la cosa più brutta e assurda del mondo.
 
Sherlock si volta a guardarlo e capisce benissimo cosa il figlio stia tentando di dirgli solo con lo sguardo ma non ha intenzione di cedere su quel punto.
 
E chi tra i due sarebbe il bambino?
 
«Papà.» fa Hamish guardando Sherlock negli occhi chiari e sollevandosi sul materasso, tenendosi sul bicipite del padre. «Puffi belli.» si limita a dire non distogliendo gli occhi dall’altro che per la prima volta in vita sua si ritrova senza sapere cosa dire.
 
Cala il silenzio nella stanza per qualche istante poi Hamish si risiede (annuendo al padre come a dirgli ho ragione io) e si volta verso John, dandogli un colpetto sulla coscia. «Puffi belli.» ripete e si volta di nuovo verso Sherlock come a voler dire diglielo al papà che i puffi sono belli, ma John non può dire assolutamente nulla e così pare non riuscire a fare nemmeno Sherlock che non riesce a togliere gli occhi dalla testa del figlio che è tornato a guardare la tv come nulla fosse.
 
Sherlock prende Hamish e lo avvolge in un abbraccio, il bambino sembra sorpreso della cosa ma non si fa alcun problema e si sistema più comodo contro di lui muovendo nuovamente le manine a ritmo di musica, appoggiandogli la fronte sulla testa, rimanendo così abbracciato a lui senza riuscire a dire assolutamente nulla per un tempo talmente lungo che John inizia a preoccuparsi.
 
«Mi ha chiamato papà.» dice infine, il viso ancora seppellito nei capelli del figlio, e John si avvicina e stringe entrambi e Hamish sembra non capire l’intera situazione ma quando c’è un abbraccio è sempre pronto per mettersi in mezzo senza lamentarsene.
 
«Sì, ed è stata anche la sua prima parola a conti fatti.» gli fa notare John mentre gli bacia la testa e tenta di non stringere la presa su entrambi troppo forte.
 
Sherlock annuisce ma non alza il viso e John trova giusto lasciargli la sua privacy, così si volta anche lui a guardare la televisione e aspetta, sentendo la testa stranamente leggera e il cuore libero e un affetto incommensurabile per le persone che ha al suo fianco.
Non vede l’ora che Hamish inizi a parlare a macchinetta proprio come suo padre.
 
«Hamish, hai ragione…» dice Sherlock con la voce nuovamente ferma «I Puffi sono belli.»
 
Hamish alza il viso a guardarlo e sorride gioioso. «Sì, papà.» e nuovamente il sottinteso te l’avevo detto si fa sentire e fa capire a John che avranno dei bei grattacapi tra qualche anno, ma non potrebbe andare meglio di così.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NOTE: 
[1] Spero sia chiaro che la donna è Irene XD
 
   
 
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