“L'acqua in polvere: è sufficiente aggiungere dell'acqua per
ottenere dell'acqua.”
Jean Baudrillard
Inaspettatamente,
dopo aver dato un colpo d’indice alla sigaretta ed aver osservato qualche
attimo di silenzio, McKain lo guardò e rise. Rise così forte che a confronto il
rumore della pioggia battente sembrò il docile sciacquio di un ruscello di
prateria.
«Stevenson non parlerà», affermò nel tono più
sicuro del mondo. Si prese ancora una boccata di fumo con un sorriso stoico
stampato in faccia e solo dopo un momento decise di infierire. «Adesso mi
spieghi perché dovrebbe aprir bocca dopo più di quarantotto ore di scena muta.»
«Non potrà certo restarsene zitto per il resto
dei suoi giorni.»
«Un uomo no. Ma un animale?»
Alan Callaway sbirciò il collega e tornò a
guardare lo svincolo scuro e deserto di Bridgerose Street. «Deve essere rimasto
qualcosa di umano in lui, altrimenti avrebbe fatto la stessa fine di tutti gli
altri a bordo della St. Paul. Dobbiamo farlo parlare», aggiunse, scostandosi in
modo brusco la sigaretta dalle labbra. «Sappiamo entrambi che quando entrerà ad
Hatfield, non potrà più dirci nulla.»
«Sicuro. Troppi matti assieme fanno cortocircuito»,
sentenziò McKain con un sorriso dolciastro.
«Mitch?»
«Che ho detto?»
«Risparmiami il tuo sarcasmo.»
Mitchell scosse il capo tenendo per sé un
sorrisetto e tra di loro calò il silenzio. Sulle strade vuote e lucide come
specchi crepitava il diluvio. In lontananza, la luce intermittente del
passaggio a livello faceva l’occhiolino alla sera.
«Ci pensi, Call?», se ne uscì ad un tratto
McKain, con l’atteggiamento di chi si è ricordato in ritardo la propria
battuta. «E se il buon George fosse infetto? Se si stesse trasformando in una
di quelle creature?»
«Non lo è. Dai test non è risultato nulla di
sospetto.»
«Senza contare che se lo fosse, a quest’ora si
starebbe mangiando anche l’altra mano.»
«Questa potevi risparmiartela.» Alan storse il
naso in un’espressione di disgusto e gettò la sigaretta a terra. «Rientriamo.
Voglio sentire la sua voce prima della mezzanotte».
«Ci speri ancora?»
«A volte la speranza è l’unica cosa davvero
utile nel nostro lavoro.»
«Gli anni passati qui dentro ti hanno conciato
davvero male, Call. Tra te e Stevenson, il matto sei tu.»
Callaway gli scoccò un sorriso fiero. «Lo so. È
questa la cosa divertente.»
A quelle parole, Mitchell McKain rise di nuovo
prima di gettare la sigaretta oltre il portico, lì sotto il diluvio, dove si
spense come una piccola stella cadente ancor prima di finire sull’asfalto. «Di
questo passo finiremo ad Hatfield con lui. Il nostro mestiere è un po’ come
fare gli strizzacervelli.»
«E allora andiamo a spremergli la materia grigia»,
concluse Alan. Sfilò dal taschino del doppiopetto scuro una banconota e gliela
sfarfallò davanti agli occhi con un sorrisetto di sfida. «Dieci dollari che il
buon George aprirà la bocca.»
Mitch guardò prima il verdone e poi il collega.
«Dieci», accettò alla fine. «E sarò io a prenderli: non parlerà. In vent’anni
di carriera non ho mai perso una scommessa e non accadrà nemmeno oggi.»
«Zitto e cammina, McKain», lo apostrofò
Callaway, ma stava sorridendo. Dieci minuti più tardi erano già di fronte allo
sguardo vibrante e scuro di George Stevenson.
***
«Quattordici giugno, ore venti e trentasette. Dipartimento
di Rocksands West. Investigatore Alan Callaway e agente federale Mitchell Paul
McKain. Sesto interrogatorio a George Stevenson.» Una pausa. Le sopracciglia di
Alan si sollevarono in una domanda implicita che gli corse dalla mente alla lingua
in poco meno di due secondi. «Come va, vecchio George? La pausa di riflessione
ti ha fatto cambiare idea sulla tua ostinazione al silenzio?»
Dall’altra parte del vetro, George Stevenson
rimase a guardarlo con l’espressione più apatica del mondo. Dietro le lenti
tonde degli occhiali, a imitazione delle labbra stropicciate in un’inquietante
smorfia che quasi pareva il sorriso di un omicida, il suo sguardo instupidito e
fisso non diede alcuna risposta.
McKain, che a differenza del collega se ne era
rimasto in piedi a braccia conserte, tamburellò impaziente le dita sui grossi
bicipiti e se ne rimase qualche attimo a fissare George nel tentativo di cavare
un qualsiasi segno di vita da quel volto olivastro, finché non si sporse in
avanti e picchiettò l’indice sul vetro. «Stevenson? Hai sentito cosa ti ha
chiesto il mio amico?»
Silenzio in risposta.
«Call, forse avresti fatto meglio a tenerti la
scommessa per un’altra volta», dichiarò Mitchell con un sorrisetto.
«Io invece credo che il nostro George non abbia
ancora capito che vogliamo solo aiutarlo.»
«Forse sulla St. Paul, oltre ad aver perso la
testa, ha smarrito anche l’alfabeto. O si è mangiato anche quello.»
«Mitch.» Alan gli indicò il registratore con lo
sguardo.
«Oh, scusa.»
«George», riprese Callaway poggiando i gomiti
sul ripiano e sporgendosi verso il vetro, verso quegli occhi scuri che lo
fissavano senza un’anima. «Vogliamo sapere cosa è successo sulla St. Paul. Cosa
è successo nell’Atlantico. Non finirai in una prigione federale.»
Ma in
un ospedale psichiatrico, avrebbe dovuto aggiungere, ma tenne per
sé quella precisazione. L’Hatfield era uno di quegli istituiti che vantavano di
una così lunga e prestigiosa esperienza in materia che i matti impazzivano di
gioia al solo pensiero di esserci spediti; uno di quei manicomi, si sarebbe
detto, dove gli psichiatri erano tanto schizzati quanto i loro pazienti. Ma era
positivo. La comprensione reciproca è sempre positiva, ovunque si vada.
Stevenson mosse impercettibilmente le pupille,
con l’indolente iniziativa di un animale braccato che finge di esser passato a
miglior vita. La sua testa era ancora orribilmente inclinata su una spalla e un
ciuffo color cenere spiccava a mo’ di virgola trionfante dalla chioma
scompigliata; le mani, l’una integra, l’altra mancante e sostituita – o
coperta? – da una fasciatura bianca, se ne restavano ferme sul ripiano. Messo a
quel modo, tanto immobile e rigido da far invidia ad un cadavere, pareva la
statua malriuscita di un giocatore di scacchi.
Mitchell scostò lo sguardo e storse le labbra.
«Cristo, Call. Mi fa impressione. Non si può guardare.»
«George» continuò imperterrito Alan,
ignorandolo. «Sei salpato da San Francisco un mese e mezzo fa sulla St. Paul,
di proprietà della Green Sea. Con te c’erano tua moglie, tua figlia, altre tremilasettecento
persone, equipaggio incluso. Solo altre ventitré oltre a te sono tornate vive. Cosa
è successo?»
Come da previsione, l’imputato non si mosse. Il
suo sguardo suggeriva un’espressività unica nel suo genere, l’assente dialogo
di un introverso bambolotto di ceramica che altro non può fare se non scrutarti
con i suoi pallidi, fissi occhi di vetro. E la cosa incredibile fu che, con un
brivido, Alan Callaway si accorse che il paragone aveva persino una sua logica.
Il taciturno signore che lo fissava dall’altra
parte del vetro aveva trascorso quasi un mese in compagnia di esseri vomitati chissà
come dalle acque dell’Atlantico. Roger Simpson, uno dei colleghi di Mitchell, gli
aveva mostrato il cadavere di una di quelle creature e Alan si era sentito
pronto a giurare di fronte al buon Dio che mai, mai aveva visto qualcosa di
tanto orribile. Lo avevano ammazzato con qualche chilo di piombo, gli aveva
detto il buon Roger, fino a fargli saltare gli occhi come gelatina andata a
male.
«Non è propriamente ciò che un bambino si
aspetta di trovare in un’enciclopedia di animali», aveva quindi aggiunto in
tono grave. «Questo era in una delle camere.»
I piedi neri e palmati che sporgevano dal
lettino dell’obitorio bastavano a confermare, a riprova delle misure prese, che
quell’essere misurava quasi due metri. Lungo, stretto, con gambe tanto sottili
da far pensare a due forbici. Le braccia erano smisurate, un paio di scheletrici
aghi di pino con tanto di dita troppo simili a tentacoli per non esserlo. Dal
busto e dal collo trivellati di colpi si sollevavano brandelli di carne scura e
lucida come sacchetti dell’immondizia. Quella che doveva essere stata la faccia
era solo un ammasso di colla nera. E l’odore.
«Petrolio», era intervenuto Simpson quando si era
accorto che il naso di Alan si era arricciato in una punta di fastidio. «Sono
petrolio, Callaway.»
***
Quando
quei cosi, per i quali dubitava
esistesse una definizione più appropriata, avevano assaltato la St. Paul
atteggiandosi a mancati e certo indesiderati predoni dei mari, della nave da
crociera si erano perse le tracce per giorni interi. Erano riusciti a
rintracciarla dopo quasi settantadue ore, e altro tempo i soccorsi avevano
impiegato per raggiungerla. L’Atlantico non è esattamente un laghetto di
montagna. Tutto si aspettavano, dall’avaria all’incidente con un’altra
imbarcazione, con il problema che non si trattava di nulla di tutto ciò.
La St. Paul grondava petrolio. E
dov’era rosso, dove le chiazze si aprivano in grandi rose viola, era perché il
sangue dei passeggeri aveva fatto la sua parte. Poi avevano trovato le
creature. Sembravano apprezzare la carne dei turisti, forse trovandole
squisitamente esotiche (a quel pensiero decisamente poco gradevole e rispettoso,
Callaway si era dato del bastardo senza cuore), e si erano sparpagliate per la
nave lasciandosi dietro strisce di penetrante oro nero. Alcuni passeggeri,
anche se sopravvissuti, erano cambiati
diventando come loro.
Nessuno si era preso la briga di
contarle; alcune testimonianze, perlomeno le poche che avevano potuto
raccogliere, parlavano di un numero che andava da ottanta a centocinquanta, un
risultato decisamente troppo vago per poter trarre conclusioni certe. Ammesso
che di cose certe ce ne fossero, e qui i dubbi banchettavano. In fondo non
c’era nulla di logico all’idea che uomini fatti di petrolio, alti come lampioni
e secchi come stecche di legno, fossero stati vomitati dal mare e avessero
assaltato la St. Paul tanto per ammazzare il tempo. Oltre alla gente.
Callaway e McKain erano stati
assegnati al caso insieme a altri tra agenti, investigatori e federali. Il
fatto che avessero deciso di lavorare in coppia non dipendeva da nessun organo
o autorità, né da una delle artificiose costruzioni del potere superiore:
semplicemente, il primo aveva conosciuto il secondo al battesimo della figlia,
così si erano messi a fare il pane e il burro. Quando tua figlia ti permette
involontariamente di lavorare accanto a una testa dura, per non dire di cazzo, come quella di Mitch McKain. Eppure
Alan lo rispettava e sapeva che faceva il lavoro per cui era pagato. Non
avrebbe mai ammesso che in fondo quel ragazzotto prossimo ai quarant’anni gli
stava simpatico come un ridente Gesù Bambino sotto l’albero di Natale; rendeva
più allegre le giornate, per quanto potessero essere state allegre quelle che
erano appena trascorse.
Di allegro c’era però il caffè che si
erano scolati in compagnia. Era una soddisfazione farsi una pausa dopo aver
tentato invano di far parlare il caro, vecchio George, e strafarsi di quella
cocaina liquida scambiandosi deprimenti battute su quanto facesse schifo il
loro lavoro. Anche starsene nei corridoi grigi del dipartimento faceva parte
del contratto. E poi, diciamocelo, faceva la sua porca figura. Due uomini in
giacca e cravatta appoggiati alla macchinetta delle bevande calde? Uno sballo!
Con
il problema che stavolta Alan Callaway non voleva uscirne sconfitto. In vita
sua aveva già provato l’eccitante, splendida sensazione di lasciare una stanza
per gli interrogatori con in faccia l’espressione che voleva dire “riesco a far parlare anche i muri”. Oh sì
che l’aveva provata, e voleva provarla ancora. Quel giorno. Con George
Stevenson dall’altra parte del vetro, chiuso in quella cella di sicurezza come
un tramezzino strizzato impietosamente sottovuoto. E poi c’erano i dollari che
aveva scommesso con McKain. Erano dieci, erano pochi, ma valevano il suo
orgoglio.
«Sono
le venti e quarantanove, Georgie», insistette, riparando su quel nomignolo
tanto per provare la soddisfazione di storpiargli il nome.
«Ed
è ancora il quattordici di giugno», lo spalleggiò McKain, appoggiandogli la
battuta. Poi, sorridendo di se stesso: «Accidenti, penso che a casa il
calendario sia ancora sulla pagina di maggio. Quella con la sosia di
Cicciolina.»
Callaway
lo ignorò. Il ronzio del registratore acceso lo avrebbe fatto pentire più tardi
di tutte le idiozie che si stava mettendo in bocca. «E parlerai, perché sei uno
dei pochi non infetti e integri che sono scesi dalla St. Paul.» Non sapeva
quanto di vero ci fosse in quelle parole. Alcuni si erano spinti a dire che
Stevenson potesse aver banchettato con la famiglia, e non seduti tutti e tre
allo stesso tavolo. Semmai, qualcuno ci era stato sopra. «Dicci quando ti sei
accorto di loro. Dicci che ore erano e da dove sono arrivati.»
Dietro
il vetro, gli occhi opachi di George ruotarono verso il soffitto, insofferenti
come mosche ubriache, prima di inchiodarsi in quelli grigi dell’investigatore.
«Oh,
adesso ricomincia, buon Dio», borbottò McKain, ancora in piedi alle spalle del
collega. «Ricomincia a giocare alla bambolina con le pile a intermittenza.»
«Sono
arrivati dall’oceano.» La voce di Stevenson. Un frugare roco e indistinto fra
alghe sul fondale. «Sono arrivati dall’oceano, e volevano portarci sotto.»
Ci
fu uno scambio di sguardi fra Alan e Mitchell, come lo scattare di una scossa
elettrica.
«Mitch»,
disse Callaway. «Amico mio, mi devi dieci dollari freschi.»
***
«Sono
arrivati dall’oceano»,
aveva detto George Stevenson. «Sono
arrivati dall’oceano, e volevano portarci sotto.»
Portarci sotto.
Qualche ora più tardi, seduto di
fronte al computer su cui aveva trascritto il colloquio, McKain si ritrovò a
chiedersi quanto sotto avesse inteso.
L’Atlantico era sconfinato, immenso in ogni direzione in un modo quasi
sgradevole; l’idea che trasmetteva era di una profondità orrida e ignota.
Creature di petrolio avevano cinto d’assedio una nave colma di sfortunati
viaggiatori e solo questo dettaglio lasciava credere che ancora poco si sapeva
delle cose – oh, che termine
deliziosamente vago - che galleggiavano là nel blu, che s’infilavano rapide e
scattanti fra alghe e rocce schizzando verso l’avvolgente nero degli abissi.
A dirla tutta, non troppo di quanto
George Stevenson aveva detto aveva un senso compiuto. Riascoltando la
registrazione a distanza di poche ore, Mitchell si era sentito cogliere da
un’indesiderata sensazione di irrealtà, il sentore che quell’interrogatorio
fosse lontano giorni e non solo qualche giro di lancette nell’orologio. Lo
stesso risultato otteneva quando rileggeva quel che aveva scritto sul documento
Word aperto di fronte a sé, splendente nello schermo tirato a lucido come il
vetro di un acquario di lusso. Il ronzio del computer, simile al viaggio scomposto
di un moscerino, aveva cominciato a dargli fastidio già da parecchi minuti. Lì
di fianco alla tastiera, nel bicchierone di plastica prima colmo di caffè, era
rimasto solo qualche goccio ormai freddo. Freddo come il sudore che si sentiva
incollare la camicia sulla schiena mentre dava una rilettura.
Dipartimento di
Rocksands West
Stesura delle dichiarazioni rilasciate da George
Stevenson – caso: St. Paul
[Stevenson] «Sono arrivati dall’oceano, e volevano portarci sotto. Non hanno
parlato. Si trascinavano lungo i corridoi. Sapevano di petrolio. C’era tanto
odore. Oh, lasciavano oro nero sui muri, sui tappeti, ne hanno lasciato nel
ristorante e sul ponte, sulle porte, nelle cabine. Tanto oro sprecato. Tanto, e
tutto sprecato, tutto quello che inquina il mare. Così volevano inquinare noi.
Hanno preso la
gente. Entravano nelle camere e stanavano tutti dai loro nascondigli. Li
mangiavano, aprivano le bocche e se li prendevano. Non respiravano; erano lucidi
come sacchi per l’immondizia. Gorgogliavano. Sapevano di plastica.
La nave è grande.
Sulla nave potrebbe starci tutta l’umanità, ma loro sono ovunque. E i giorni
passano, e tu stai lì nella cabina, in un magazzino, chiuso nelle cucine o nel
cinema, con persone che non conosci, e preghi Dio che quelle cose non ti
trovino, anche se non sai se Dio guarderà dalla tua parte e non verso la
terraferma. Perché sei in mezzo all’oceano, in un pluridirezionale nulla, e da
qualche parte ci sono quegli esseri che si muovono e strisciano e biascicano
alghe.
Non hai una
pistola. I telefoni non prendono; non sai spiegartelo. Dubiti che un’arma
sarebbe utile, ma almeno potresti ammazzare te stesso. C’è cibo, ma uscire a
trovarlo è come uccidersi. Mangi quello che puoi, o non mangeresti affatto. I
comandi sono guasti, grondanti di petrolio. Arrivano i soccorsi, ma non è l’esercito.
Quello arriva dopo, e arriva tardi. Arriva e sputa piombo in un posto viscido
di oro e sangue.»
Dopo essere stato ulteriormente sollecitato a
continuare, queste sono le uniche parole che l’interrogato ha voluto o saputo
dire. Verrà presto trasferito all’Hatfield Asylum, stanza settantacinque, ala
ovest, come da ordini. Invieremo documento di riferimento.
In data quattordici giugno duemilaquattordici,
ore ventidue e quaranta,
Alan Callaway,
Mitchell Paul McKain
«Sono
stanco di rileggere», annunciò McKain. Salvò il documento, spuntò qualcosa
sull’agenda aperta lì vicino e chiuse il programma di videoscrittura. Aria
fresca nei polmoni. «Call, com’è che hai deciso che fossi io a trascrivere
questo delirio? Non è stato, diciamo, piacevole, e il capo non mi darà un
premio per il coraggio.»
Callaway,
che si chiese per l’ennesima volta perché il collega gli accorciasse il cognome
e non il nome come la gente normale (non che sognasse di sentirsi da lui
chiamare Al, con tanto di sfumatura
romantica), abbassò gli occhi dalla bacheca a cui erano affisse le foto dei
sopravvissuti della St. Paul. «Perché la scommessa l’ho vinta io, pertanto ho
deciso di lasciarti il lavoro.»
«Non
lo avevi specificato. Avevi parlato solo di dieci dollari.»
«Dieci
dollari sono pochi. Volevo prendermi un’altra soddisfazione.»
L’agente
federale fece un sorriso da orecchio a orecchio. In barba alla stanchezza e a
quanto aveva dovuto ascoltare e poi fare, sembrava ancora di buonumore. L’altro
lo definiva il Potere McKain. «Quindi
con Stevenson abbiamo finito?»
«Finito.
Anche se ci rimane da capire cosa fossero quelle cose.»
«Ho
sentito ancora Roger. Simpson, uno dei medici legali. Non ha novità.»
«Non
penso che un’autopsia risolverà la questione.» Alan sbirciò ancora la bacheca,
poi si voltò del tutto verso il collega. Le luci che salivano dalla strada
distante due piani disegnavano ombre sul suo viso già teso, denso di
riflessioni. «Penso che rimarrà un mistero. È un bene che la storia sia passata
come un semplice guasto meccanico. Di questo dobbiamo ringraziare la stampa; perdita
dei segnali radar, caduta della linea, ritardo dei soccorsi, passeggeri
disperati che si sono contesi le scorte di cibo. Ci è scappato qualche morto,
un bel po’ di morti. Se sapesse, la
gente sarebbe in grado di credere che quelle cose, qualunque cosa siano,
potrebbero ritornare.»
«E
tu? Tu lo credi?» chiese McKain, ma con cautela. Adesso non scherzava.
Callaway
lo guardò per un lungo istante, con intensità. «Lo credo», rispose dopo quel
silenzio. I suoi occhi erano gravi, inflessibili. «Lo credono tutti, e lo credi
anche tu.»
***
[Hatfield Asylum. Due
settimane più tardi]
Jenna
era così bella. Un po’ giovane per lui, a dire il vero, ma l’età non rientrava
nelle preoccupazioni di Adam quando si trattava di mettere gli occhi sulle
ragazze. Avrebbe detto – e anzi l’aveva già detto, da qualche parte e a qualche
suo amico – che le infermiere e le donne che lavoravano all’Hatfield erano
drammaticamente di bell’aspetto, vivide come una macchia giallo canarino piazzata
su una parete grigia. Insomma, in un ambiente come quello, pieno di anziani
decerebrati e personalità scomode e instabili, spiccavano. Accidenti se spiccavano.
Jenna rispondeva però alla regola
secondo cui la bellezza è il più delle volte il guscio di una stupidità un po’
troppo lampante. Messa la questione sotto questi termini, gli strati di trucco
che le rilucevano in faccia, più che farle guadagnare punti, glieli facevano
perdere. C’era poi da chiedersi, e Adam non era il solo a porsi la domanda, perché
mai quella ragazza di venticinque anni provasse il bisogno di agghindarsi con
così tanta cura solo per andare a ripulire le camere dei malati di mente. Era
un bel mistero, ma anche questo faceva parte del suo fascino, così come ne
faceva parte il suo basso quoziente intellettivo. Persino le colleghe ridevano
dei suoi commenti e dei suoi modi di fare, giudicandoli un po’ troppo...
impacciati? Insensati? Qualcosa del genere.
Oh, dettagli. Era una bella ragazza,
quindi il resto cosa diavolo importava?
E Adam la pensava esattamente così. La
pensava come tutti gli altri, benché avesse benissimo potuto essere suo padre. Così
allungava l’occhio quando la vedeva passare, ne approfittava per chiederle di
fare quello o quell’altro, e solo per gustarsi il suo faccino servizievole e il
suo sì, dottore, o il suo certo, dottore, o ancora, il suo
preferito: come vuole, dottore.
Quante cose vorrei, pensava Adam, e
gongolava.
Quello che non sapeva era che Jenna
era più intelligente di quanto si pensasse e che la stupidità che aveva attorno
non era in grado di riconoscerle questo merito. D’altronde gli stupidi non
capiscono come funzionano le menti più sveglie. È un dato di fatto. Il dottore
lavorava in un ospedale psichiatrico, a proposito di mente, ma non conosceva
nemmeno questa regola. Esiste anche una bella frase in merito: e come possiamo vincere quando gli sciocchi
possono essere re? Si tratta dei Muse. Bella gente.
E in ogni caso, Jenna era una di
quelle che non possono vincere. Stava dando una sistemata alla stanza settantacinque,
ala ovest (il tizio, un certo Stevenson, se non ricordava male, era stato
trasferito in un’altra camera. Non era in suo potere conoscere vita, morte e
miracoli dei pazienti, ma sapeva che era uno dei sopravvissuti della St. Paul),
quando dalla porta aperta si affacciò il dottore.
«Jen»,
cinguettò Adam. Era bello chiamarla così. «Jen, mia cara, ricordati di farmi
quel favore. Di portarmi su le cartelle delle stanze fra la ventisette e la
quaranta.»
«Certo,
dottore.» Una risposta rapida, un sorriso fugace e disponibile. Aveva giusto
finito di lisciare le coperte del letto appena rifatto. Trovarsi in un ambiente
tirato a lucido le faceva sempre respirare una zaffata di primavera, forse per
colpa di tutto quel metodico, igienico bianco. «Dottore, il paziente...»
«Oh,
questa stanza avrà presto un altro proprietario», la interruppe lui. Sempre
sorridendo. «Quello della St. Paul è nella est, ben al sicuro.»
Lei
allungò un sorrisetto un poco nervoso mentre si voltava del tutto. «Sa»,
cominciò, nel tono imbarazzato di chi sta per confessare un appunto di poco
conto, «quando ho cominciato a pulire la camera, qualche giorno fa, le coperte
erano un poco... sporche.»
Adam
la guardò con tenerezza, quasi stesse per annunciarle che i bambini non
arrivano con le cicogne. «Jen, qui ospitiamo gente con esigenze particolari. È giustificabile
che alcune di loro abbiano problemi di incontinenza.»
«No,
non intendevo quello.» Jenna stava ancora sorridendo come una scolaretta alle
prime armi. «C’era una macchia, sul lenzuolo. E sapeva di...»
«Di?»
«Odorava,
dottore, di benzina. O petrolio.»
A
quel punto, gli occhi di lui si accesero di sincero divertimento. Si lasciò
scappare una risata, sventolò la mano. «Sciocchezze, Jen. Sciocchezze», e si
allontanò per il corridoio senza riuscire a contenere uno sbuffo d’ironia.
Jenna
era una ragazza intelligente, dicevo. Con il problema che nessuno la prendeva
mai sul serio.
Cominciai a scrivere questo breve racconto
qualcosa come un anno fa. Di recente l’ho ripescato dai meandri del pc, mi
sono fatta una rilettura e mi son detta: “Dai, finiamolo.”
E questo è quello che
è uscito. Ricordo che
cominciai a scrivere questa storia perché ero rimasta
affascinata da una leggenda
secondo cui nell'Adriatico (credo, ma non ne sono troppo sicura) si
aggira
una nave fantasma colma di marinai morti di peste nera. Che sballo, eh?
È una
fantasia molto inquietante, ma che ha un suo perché. Non che le
creature di
petrolio abbiano qualcosa a che vedere con questo (piuttosto, sono un
bel dito puntato contro l'inquinamento marino), solo mi piaceva
l’idea di
una nave in un qualche modo “infetta”.
Ah, sì, per chi se lo chiedesse: ascolto
spesso i Muse. La canzone da cui ho tratto quella frase è Knights of Cydonia.
Ringrazio come al solito chi giungerà alla
fine e chi lascerà un commento <3
Dew_