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Autore: Dew_Drop    19/03/2015    3 recensioni
La St. Paul è una nave di lusso. Una di quelle costose, una di quelle che hanno la pretesa e il coraggio di tagliare l'Atlantico. Che, detto in soldoni, non è posto per noi.
Vi siete mai fatti una crociera? Che la vostra risposta sia sì o no, ho intenzione di farvi passare la voglia. Un investigatore e un agente federale hanno deciso di fare per me questo sporco lavoro.
Dal testo: «Sono arrivati dall’oceano.» La voce di Stevenson. Un frugare roco e indistinto fra alghe sul fondale. «Sono arrivati dall’oceano, e volevano portarci sotto.»
Ci fu uno scambio di sguardi fra Alan e Mitchell, come lo scattare di una scossa elettrica.
«Mitch», disse Callaway. «Amico mio, mi devi dieci dollari freschi.»
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono Arrivati dall'Oceano




«SONO ARRIVATI DALL’OCEANO»

 

“L'acqua in polvere: è sufficiente aggiungere dell'acqua per ottenere dell'acqua.” 

Jean Baudrillard

 

 


I
naspettatamente, dopo aver dato un colpo d’indice alla sigaretta ed aver osservato qualche attimo di silenzio, McKain lo guardò e rise. Rise così forte che a confronto il rumore della pioggia battente sembrò il docile sciacquio di un ruscello di prateria.
    «Stevenson non parlerà», affermò nel tono più sicuro del mondo. Si prese ancora una boccata di fumo con un sorriso stoico stampato in faccia e solo dopo un momento decise di infierire. «Adesso mi spieghi perché dovrebbe aprir bocca dopo più di quarantotto ore di scena muta.»
    «Non potrà certo restarsene zitto per il resto dei suoi giorni.»
    «Un uomo no. Ma un animale?»
    Alan Callaway sbirciò il collega e tornò a guardare lo svincolo scuro e deserto di Bridgerose Street. «Deve essere rimasto qualcosa di umano in lui, altrimenti avrebbe fatto la stessa fine di tutti gli altri a bordo della St. Paul. Dobbiamo farlo parlare», aggiunse, scostandosi in modo brusco la sigaretta dalle labbra. «Sappiamo entrambi che quando entrerà ad Hatfield, non potrà più dirci nulla.»
    «Sicuro. Troppi matti assieme fanno cortocircuito», sentenziò McKain con un sorriso dolciastro.
    «Mitch?»
    «Che ho detto?»
    «Risparmiami il tuo sarcasmo.»
    Mitchell scosse il capo tenendo per sé un sorrisetto e tra di loro calò il silenzio. Sulle strade vuote e lucide come specchi crepitava il diluvio. In lontananza, la luce intermittente del passaggio a livello faceva l’occhiolino alla sera.
    «Ci pensi, Call?», se ne uscì ad un tratto McKain, con l’atteggiamento di chi si è ricordato in ritardo la propria battuta. «E se il buon George fosse infetto? Se si stesse trasformando in una di quelle creature?»
    «Non lo è. Dai test non è risultato nulla di sospetto.»
    «Senza contare che se lo fosse, a quest’ora si starebbe mangiando anche l’altra mano.»
    «Questa potevi risparmiartela.» Alan storse il naso in un’espressione di disgusto e gettò la sigaretta a terra. «Rientriamo. Voglio sentire la sua voce prima della mezzanotte».
    «Ci speri ancora?»
    «A volte la speranza è l’unica cosa davvero utile nel nostro lavoro.»
    «Gli anni passati qui dentro ti hanno conciato davvero male, Call. Tra te e Stevenson, il matto sei tu.»
    Callaway gli scoccò un sorriso fiero. «Lo so. È questa la cosa divertente.»
    A quelle parole, Mitchell McKain rise di nuovo prima di gettare la sigaretta oltre il portico, lì sotto il diluvio, dove si spense come una piccola stella cadente ancor prima di finire sull’asfalto. «Di questo passo finiremo ad Hatfield con lui. Il nostro mestiere è un po’ come fare gli strizzacervelli.»
    «E allora andiamo a spremergli la materia grigia», concluse Alan. Sfilò dal taschino del doppiopetto scuro una banconota e gliela sfarfallò davanti agli occhi con un sorrisetto di sfida. «Dieci dollari che il buon George aprirà la bocca.»
    Mitch guardò prima il verdone e poi il collega. «Dieci», accettò alla fine. «E sarò io a prenderli: non parlerà. In vent’anni di carriera non ho mai perso una scommessa e non accadrà nemmeno oggi.»
    «Zitto e cammina, McKain», lo apostrofò Callaway, ma stava sorridendo. Dieci minuti più tardi erano già di fronte allo sguardo vibrante e scuro di George Stevenson.

 

 

***

 

Alan accese il registratore portatile e accostò la bocca al piccolo microfono. La voce piatta, fissata su una sola frequenza: l’abitudine.
    «Quattordici giugno, ore venti e trentasette. Dipartimento di Rocksands West. Investigatore Alan Callaway e agente federale Mitchell Paul McKain. Sesto interrogatorio a George Stevenson.» Una pausa. Le sopracciglia di Alan si sollevarono in una domanda implicita che gli corse dalla mente alla lingua in poco meno di due secondi. «Come va, vecchio George? La pausa di riflessione ti ha fatto cambiare idea sulla tua ostinazione al silenzio?»
    Dall’altra parte del vetro, George Stevenson rimase a guardarlo con l’espressione più apatica del mondo. Dietro le lenti tonde degli occhiali, a imitazione delle labbra stropicciate in un’inquietante smorfia che quasi pareva il sorriso di un omicida, il suo sguardo instupidito e fisso non diede alcuna risposta.
    McKain, che a differenza del collega se ne era rimasto in piedi a braccia conserte, tamburellò impaziente le dita sui grossi bicipiti e se ne rimase qualche attimo a fissare George nel tentativo di cavare un qualsiasi segno di vita da quel volto olivastro, finché non si sporse in avanti e picchiettò l’indice sul vetro. «Stevenson? Hai sentito cosa ti ha chiesto il mio amico?»
    Silenzio in risposta.
    «Call, forse avresti fatto meglio a tenerti la scommessa per un’altra volta», dichiarò Mitchell con un sorrisetto.
    «Io invece credo che il nostro George non abbia ancora capito che vogliamo solo aiutarlo.»
    «Forse sulla St. Paul, oltre ad aver perso la testa, ha smarrito anche l’alfabeto. O si è mangiato anche quello.»
    «Mitch.» Alan gli indicò il registratore con lo sguardo.
    «Oh, scusa.»
    «George», riprese Callaway poggiando i gomiti sul ripiano e sporgendosi verso il vetro, verso quegli occhi scuri che lo fissavano senza un’anima. «Vogliamo sapere cosa è successo sulla St. Paul. Cosa è successo nell’Atlantico. Non finirai in una prigione federale.»

    Ma in un ospedale psichiatrico
, avrebbe dovuto aggiungere, ma tenne per sé quella precisazione. L’Hatfield era uno di quegli istituiti che vantavano di una così lunga e prestigiosa esperienza in materia che i matti impazzivano di gioia al solo pensiero di esserci spediti; uno di quei manicomi, si sarebbe detto, dove gli psichiatri erano tanto schizzati quanto i loro pazienti. Ma era positivo. La comprensione reciproca è sempre positiva, ovunque si vada.
    Stevenson mosse impercettibilmente le pupille, con l’indolente iniziativa di un animale braccato che finge di esser passato a miglior vita. La sua testa era ancora orribilmente inclinata su una spalla e un ciuffo color cenere spiccava a mo’ di virgola trionfante dalla chioma scompigliata; le mani, l’una integra, l’altra mancante e sostituita – o coperta? – da una fasciatura bianca, se ne restavano ferme sul ripiano. Messo a quel modo, tanto immobile e rigido da far invidia ad un cadavere, pareva la statua malriuscita di un giocatore di scacchi.
    Mitchell scostò lo sguardo e storse le labbra. «Cristo, Call. Mi fa impressione. Non si può guardare.»
    «George» continuò imperterrito Alan, ignorandolo. «Sei salpato da San Francisco un mese e mezzo fa sulla St. Paul, di proprietà della Green Sea. Con te c’erano tua moglie, tua figlia, altre tremilasettecento persone, equipaggio incluso. Solo altre ventitré oltre a te sono tornate vive. Cosa è successo?»
    Come da previsione, l’imputato non si mosse. Il suo sguardo suggeriva un’espressività unica nel suo genere, l’assente dialogo di un introverso bambolotto di ceramica che altro non può fare se non scrutarti con i suoi pallidi, fissi occhi di vetro. E la cosa incredibile fu che, con un brivido, Alan Callaway si accorse che il paragone aveva persino una sua logica.
    Il taciturno signore che lo fissava dall’altra parte del vetro aveva trascorso quasi un mese in compagnia di esseri vomitati chissà come dalle acque dell’Atlantico. Roger Simpson, uno dei colleghi di Mitchell, gli aveva mostrato il cadavere di una di quelle creature e Alan si era sentito pronto a giurare di fronte al buon Dio che mai, mai aveva visto qualcosa di tanto orribile. Lo avevano ammazzato con qualche chilo di piombo, gli aveva detto il buon Roger, fino a fargli saltare gli occhi come gelatina andata a male.
    «Non è propriamente ciò che un bambino si aspetta di trovare in un’enciclopedia di animali», aveva quindi aggiunto in tono grave. «Questo era in una delle camere.»
    I piedi neri e palmati che sporgevano dal lettino dell’obitorio bastavano a confermare, a riprova delle misure prese, che quell’essere misurava quasi due metri. Lungo, stretto, con gambe tanto sottili da far pensare a due forbici. Le braccia erano smisurate, un paio di scheletrici aghi di pino con tanto di dita troppo simili a tentacoli per non esserlo. Dal busto e dal collo trivellati di colpi si sollevavano brandelli di carne scura e lucida come sacchetti dell’immondizia. Quella che doveva essere stata la faccia era solo un ammasso di colla nera. E l’odore.
    «Petrolio», era intervenuto Simpson quando si era accorto che il naso di Alan si era arricciato in una punta di fastidio. «Sono petrolio, Callaway.»

 

 

***

 

 

Quando quei cosi, per i quali dubitava esistesse una definizione più appropriata, avevano assaltato la St. Paul atteggiandosi a mancati e certo indesiderati predoni dei mari, della nave da crociera si erano perse le tracce per giorni interi. Erano riusciti a rintracciarla dopo quasi settantadue ore, e altro tempo i soccorsi avevano impiegato per raggiungerla. L’Atlantico non è esattamente un laghetto di montagna. Tutto si aspettavano, dall’avaria all’incidente con un’altra imbarcazione, con il problema che non si trattava di nulla di tutto ciò.
    La St. Paul grondava petrolio. E dov’era rosso, dove le chiazze si aprivano in grandi rose viola, era perché il sangue dei passeggeri aveva fatto la sua parte. Poi avevano trovato le creature. Sembravano apprezzare la carne dei turisti, forse trovandole squisitamente esotiche (a quel pensiero decisamente poco gradevole e rispettoso, Callaway si era dato del bastardo senza cuore), e si erano sparpagliate per la nave lasciandosi dietro strisce di penetrante oro nero. Alcuni passeggeri, anche se sopravvissuti, erano cambiati diventando come loro.
    Nessuno si era preso la briga di contarle; alcune testimonianze, perlomeno le poche che avevano potuto raccogliere, parlavano di un numero che andava da ottanta a centocinquanta, un risultato decisamente troppo vago per poter trarre conclusioni certe. Ammesso che di cose certe ce ne fossero, e qui i dubbi banchettavano. In fondo non c’era nulla di logico all’idea che uomini fatti di petrolio, alti come lampioni e secchi come stecche di legno, fossero stati vomitati dal mare e avessero assaltato la St. Paul tanto per ammazzare il tempo. Oltre alla gente.
    Callaway e McKain erano stati assegnati al caso insieme a altri tra agenti, investigatori e federali. Il fatto che avessero deciso di lavorare in coppia non dipendeva da nessun organo o autorità, né da una delle artificiose costruzioni del potere superiore: semplicemente, il primo aveva conosciuto il secondo al battesimo della figlia, così si erano messi a fare il pane e il burro. Quando tua figlia ti permette involontariamente di lavorare accanto a una testa dura, per non dire di cazzo, come quella di Mitch McKain. Eppure Alan lo rispettava e sapeva che faceva il lavoro per cui era pagato. Non avrebbe mai ammesso che in fondo quel ragazzotto prossimo ai quarant’anni gli stava simpatico come un ridente Gesù Bambino sotto l’albero di Natale; rendeva più allegre le giornate, per quanto potessero essere state allegre quelle che erano appena trascorse.
    Di allegro c’era però il caffè che si erano scolati in compagnia. Era una soddisfazione farsi una pausa dopo aver tentato invano di far parlare il caro, vecchio George, e strafarsi di quella cocaina liquida scambiandosi deprimenti battute su quanto facesse schifo il loro lavoro. Anche starsene nei corridoi grigi del dipartimento faceva parte del contratto. E poi, diciamocelo, faceva la sua porca figura. Due uomini in giacca e cravatta appoggiati alla macchinetta delle bevande calde? Uno sballo!
    Con il problema che stavolta Alan Callaway non voleva uscirne sconfitto. In vita sua aveva già provato l’eccitante, splendida sensazione di lasciare una stanza per gli interrogatori con in faccia l’espressione che voleva dire “riesco a far parlare anche i muri”. Oh sì che l’aveva provata, e voleva provarla ancora. Quel giorno. Con George Stevenson dall’altra parte del vetro, chiuso in quella cella di sicurezza come un tramezzino strizzato impietosamente sottovuoto. E poi c’erano i dollari che aveva scommesso con McKain. Erano dieci, erano pochi, ma valevano il suo orgoglio.
    «Sono le venti e quarantanove, Georgie», insistette, riparando su quel nomignolo tanto per provare la soddisfazione di storpiargli il nome.
    «Ed è ancora il quattordici di giugno», lo spalleggiò McKain, appoggiandogli la battuta. Poi, sorridendo di se stesso: «Accidenti, penso che a casa il calendario sia ancora sulla pagina di maggio. Quella con la sosia di Cicciolina.»
    Callaway lo ignorò. Il ronzio del registratore acceso lo avrebbe fatto pentire più tardi di tutte le idiozie che si stava mettendo in bocca. «E parlerai, perché sei uno dei pochi non infetti e integri che sono scesi dalla St. Paul.» Non sapeva quanto di vero ci fosse in quelle parole. Alcuni si erano spinti a dire che Stevenson potesse aver banchettato con la famiglia, e non seduti tutti e tre allo stesso tavolo. Semmai, qualcuno ci era stato sopra. «Dicci quando ti sei accorto di loro. Dicci che ore erano e da dove sono arrivati.»
    Dietro il vetro, gli occhi opachi di George ruotarono verso il soffitto, insofferenti come mosche ubriache, prima di inchiodarsi in quelli grigi dell’investigatore.
    «Oh, adesso ricomincia, buon Dio», borbottò McKain, ancora in piedi alle spalle del collega. «Ricomincia a giocare alla bambolina con le pile a intermittenza.»
    «Sono arrivati dall’oceano.» La voce di Stevenson. Un frugare roco e indistinto fra alghe sul fondale. «Sono arrivati dall’oceano, e volevano portarci sotto.»
    Ci fu uno scambio di sguardi fra Alan e Mitchell, come lo scattare di una scossa elettrica.
    «Mitch», disse Callaway. «Amico mio, mi devi dieci dollari freschi.»

 

 

***

 

 

«Sono arrivati dall’oceano», aveva detto George Stevenson. «Sono arrivati dall’oceano, e volevano portarci sotto.»
    Portarci sotto.
    Qualche ora più tardi, seduto di fronte al computer su cui aveva trascritto il colloquio, McKain si ritrovò a chiedersi quanto sotto avesse inteso. L’Atlantico era sconfinato, immenso in ogni direzione in un modo quasi sgradevole; l’idea che trasmetteva era di una profondità orrida e ignota. Creature di petrolio avevano cinto d’assedio una nave colma di sfortunati viaggiatori e solo questo dettaglio lasciava credere che ancora poco si sapeva delle cose – oh, che termine deliziosamente vago - che galleggiavano là nel blu, che s’infilavano rapide e scattanti fra alghe e rocce schizzando verso l’avvolgente nero degli abissi.
    A dirla tutta, non troppo di quanto George Stevenson aveva detto aveva un senso compiuto. Riascoltando la registrazione a distanza di poche ore, Mitchell si era sentito cogliere da un’indesiderata sensazione di irrealtà, il sentore che quell’interrogatorio fosse lontano giorni e non solo qualche giro di lancette nell’orologio. Lo stesso risultato otteneva quando rileggeva quel che aveva scritto sul documento Word aperto di fronte a sé, splendente nello schermo tirato a lucido come il vetro di un acquario di lusso. Il ronzio del computer, simile al viaggio scomposto di un moscerino, aveva cominciato a dargli fastidio già da parecchi minuti. Lì di fianco alla tastiera, nel bicchierone di plastica prima colmo di caffè, era rimasto solo qualche goccio ormai freddo. Freddo come il sudore che si sentiva incollare la camicia sulla schiena mentre dava una rilettura.

 

Dipartimento di Rocksands West

Stesura delle dichiarazioni rilasciate da George Stevenson – caso: St. Paul

 

[Stevenson] «Sono arrivati dall’oceano, e volevano portarci sotto. Non hanno parlato. Si trascinavano lungo i corridoi. Sapevano di petrolio. C’era tanto odore. Oh, lasciavano oro nero sui muri, sui tappeti, ne hanno lasciato nel ristorante e sul ponte, sulle porte, nelle cabine. Tanto oro sprecato. Tanto, e tutto sprecato, tutto quello che inquina il mare. Così volevano inquinare noi.
    Hanno preso la gente. Entravano nelle camere e stanavano tutti dai loro nascondigli. Li mangiavano, aprivano le bocche e se li prendevano. Non respiravano; erano lucidi come sacchi per l’immondizia. Gorgogliavano. Sapevano di plastica.
    La nave è grande. Sulla nave potrebbe starci tutta l’umanità, ma loro sono ovunque. E i giorni passano, e tu stai lì nella cabina, in un magazzino, chiuso nelle cucine o nel cinema, con persone che non conosci, e preghi Dio che quelle cose non ti trovino, anche se non sai se Dio guarderà dalla tua parte e non verso la terraferma. Perché sei in mezzo all’oceano, in un pluridirezionale nulla, e da qualche parte ci sono quegli esseri che si muovono e strisciano e biascicano alghe.
    Non hai una pistola. I telefoni non prendono; non sai spiegartelo. Dubiti che un’arma sarebbe utile, ma almeno potresti ammazzare te stesso. C’è cibo, ma uscire a trovarlo è come uccidersi. Mangi quello che puoi, o non mangeresti affatto. I comandi sono guasti, grondanti di petrolio. Arrivano i soccorsi, ma non è l’esercito. Quello arriva dopo, e arriva tardi. Arriva e sputa piombo in un posto viscido di oro e sangue.»

 

Dopo essere stato ulteriormente sollecitato a continuare, queste sono le uniche parole che l’interrogato ha voluto o saputo dire. Verrà presto trasferito all’Hatfield Asylum, stanza settantacinque, ala ovest, come da ordini. Invieremo documento di riferimento.

In data quattordici giugno duemilaquattordici, ore ventidue e quaranta,

 

Alan Callaway, Mitchell Paul McKain

 

 

    «Sono stanco di rileggere», annunciò McKain. Salvò il documento, spuntò qualcosa sull’agenda aperta lì vicino e chiuse il programma di videoscrittura. Aria fresca nei polmoni. «Call, com’è che hai deciso che fossi io a trascrivere questo delirio? Non è stato, diciamo, piacevole, e il capo non mi darà un premio per il coraggio.»
    Callaway, che si chiese per l’ennesima volta perché il collega gli accorciasse il cognome e non il nome come la gente normale (non che sognasse di sentirsi da lui chiamare Al, con tanto di sfumatura romantica), abbassò gli occhi dalla bacheca a cui erano affisse le foto dei sopravvissuti della St. Paul. «Perché la scommessa l’ho vinta io, pertanto ho deciso di lasciarti il lavoro.»
    «Non lo avevi specificato. Avevi parlato solo di dieci dollari.»
    «Dieci dollari sono pochi. Volevo prendermi un’altra soddisfazione.»
    L’agente federale fece un sorriso da orecchio a orecchio. In barba alla stanchezza e a quanto aveva dovuto ascoltare e poi fare, sembrava ancora di buonumore. L’altro lo definiva il Potere McKain. «Quindi con Stevenson abbiamo finito?»
    «Finito. Anche se ci rimane da capire cosa fossero quelle cose.»
    «Ho sentito ancora Roger. Simpson, uno dei medici legali. Non ha novità.»
    «Non penso che un’autopsia risolverà la questione.» Alan sbirciò ancora la bacheca, poi si voltò del tutto verso il collega. Le luci che salivano dalla strada distante due piani disegnavano ombre sul suo viso già teso, denso di riflessioni. «Penso che rimarrà un mistero. È un bene che la storia sia passata come un semplice guasto meccanico. Di questo dobbiamo ringraziare la stampa; perdita dei segnali radar, caduta della linea, ritardo dei soccorsi, passeggeri disperati che si sono contesi le scorte di cibo. Ci è scappato qualche morto, un bel po’ di morti. Se sapesse, la gente sarebbe in grado di credere che quelle cose, qualunque cosa siano, potrebbero ritornare.»
    «E tu? Tu lo credi?» chiese McKain, ma con cautela. Adesso non scherzava.
    Callaway lo guardò per un lungo istante, con intensità. «Lo credo», rispose dopo quel silenzio. I suoi occhi erano gravi, inflessibili. «Lo credono tutti, e lo credi anche tu.»

  

 

***

 

 

[Hatfield Asylum. Due settimane più tardi]

 

Jenna era così bella. Un po’ giovane per lui, a dire il vero, ma l’età non rientrava nelle preoccupazioni di Adam quando si trattava di mettere gli occhi sulle ragazze. Avrebbe detto – e anzi l’aveva già detto, da qualche parte e a qualche suo amico – che le infermiere e le donne che lavoravano all’Hatfield erano drammaticamente di bell’aspetto, vivide come una macchia giallo canarino piazzata su una parete grigia. Insomma, in un ambiente come quello, pieno di anziani decerebrati e personalità scomode e instabili, spiccavano. Accidenti se spiccavano.
    Jenna rispondeva però alla regola secondo cui la bellezza è il più delle volte il guscio di una stupidità un po’ troppo lampante. Messa la questione sotto questi termini, gli strati di trucco che le rilucevano in faccia, più che farle guadagnare punti, glieli facevano perdere. C’era poi da chiedersi, e Adam non era il solo a porsi la domanda, perché mai quella ragazza di venticinque anni provasse il bisogno di agghindarsi con così tanta cura solo per andare a ripulire le camere dei malati di mente. Era un bel mistero, ma anche questo faceva parte del suo fascino, così come ne faceva parte il suo basso quoziente intellettivo. Persino le colleghe ridevano dei suoi commenti e dei suoi modi di fare, giudicandoli un po’ troppo... impacciati? Insensati? Qualcosa del genere.
    Oh, dettagli. Era una bella ragazza, quindi il resto cosa diavolo importava?
    E Adam la pensava esattamente così. La pensava come tutti gli altri, benché avesse benissimo potuto essere suo padre. Così allungava l’occhio quando la vedeva passare, ne approfittava per chiederle di fare quello o quell’altro, e solo per gustarsi il suo faccino servizievole e il suo sì, dottore, o il suo certo, dottore, o ancora, il suo preferito: come vuole, dottore.  
    Quante cose vorrei, pensava Adam, e gongolava.
    Quello che non sapeva era che Jenna era più intelligente di quanto si pensasse e che la stupidità che aveva attorno non era in grado di riconoscerle questo merito. D’altronde gli stupidi non capiscono come funzionano le menti più sveglie. È un dato di fatto. Il dottore lavorava in un ospedale psichiatrico, a proposito di mente, ma non conosceva nemmeno questa regola. Esiste anche una bella frase in merito: e come possiamo vincere quando gli sciocchi possono essere re? Si tratta dei Muse. Bella gente.
    E in ogni caso, Jenna era una di quelle che non possono vincere. Stava dando una sistemata alla stanza settantacinque, ala ovest (il tizio, un certo Stevenson, se non ricordava male, era stato trasferito in un’altra camera. Non era in suo potere conoscere vita, morte e miracoli dei pazienti, ma sapeva che era uno dei sopravvissuti della St. Paul), quando dalla porta aperta si affacciò il dottore.
    «Jen», cinguettò Adam. Era bello chiamarla così. «Jen, mia cara, ricordati di farmi quel favore. Di portarmi su le cartelle delle stanze fra la ventisette e la quaranta.»
    «Certo, dottore.» Una risposta rapida, un sorriso fugace e disponibile. Aveva giusto finito di lisciare le coperte del letto appena rifatto. Trovarsi in un ambiente tirato a lucido le faceva sempre respirare una zaffata di primavera, forse per colpa di tutto quel metodico, igienico bianco. «Dottore, il paziente...»
    «Oh, questa stanza avrà presto un altro proprietario», la interruppe lui. Sempre sorridendo. «Quello della St. Paul è nella est, ben al sicuro.»
    Lei allungò un sorrisetto un poco nervoso mentre si voltava del tutto. «Sa», cominciò, nel tono imbarazzato di chi sta per confessare un appunto di poco conto, «quando ho cominciato a pulire la camera, qualche giorno fa, le coperte erano un poco... sporche.»
    Adam la guardò con tenerezza, quasi stesse per annunciarle che i bambini non arrivano con le cicogne. «Jen, qui ospitiamo gente con esigenze particolari. È giustificabile che alcune di loro abbiano problemi di incontinenza.»
    «No, non intendevo quello.» Jenna stava ancora sorridendo come una scolaretta alle prime armi. «C’era una macchia, sul lenzuolo. E sapeva di...»
    «Di?»
    «Odorava, dottore, di benzina. O petrolio.»
    A quel punto, gli occhi di lui si accesero di sincero divertimento. Si lasciò scappare una risata, sventolò la mano. «Sciocchezze, Jen. Sciocchezze», e si allontanò per il corridoio senza riuscire a contenere uno sbuffo d’ironia.
    Jenna era una ragazza intelligente, dicevo. Con il problema che nessuno la prendeva mai sul serio.

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Angolino autrice

Cominciai a scrivere questo breve racconto qualcosa come un anno fa. Di recente l’ho ripescato dai meandri del pc, mi sono fatta una rilettura e mi son detta: “Dai, finiamolo.”
E questo è quello che è uscito. Ricordo che cominciai a scrivere questa storia perché ero rimasta affascinata da una leggenda secondo cui nell'Adriatico (credo, ma non ne sono troppo sicura) si aggira una nave fantasma colma di marinai morti di peste nera. Che sballo, eh? È una fantasia molto inquietante, ma che ha un suo perché. Non che le creature di petrolio abbiano qualcosa a che vedere con questo (piuttosto, sono un bel dito puntato contro l'inquinamento marino), solo mi piaceva l’idea di una nave in un qualche modo “infetta”.
Ah, sì, per chi se lo chiedesse: ascolto spesso i Muse. La canzone da cui ho tratto quella frase è Knights of Cydonia.
Ringrazio come al solito chi giungerà alla fine e chi lascerà un commento <3

 

Dew_


   
 
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