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Autore: Nymeria90    20/03/2015    1 recensioni
Tutti conosciamo la storia del comandante Shepard, ma della persona che era prima di diventare il paladino della galassia e dell’umanità sappiamo ben poco. La mia storia si propone di ricostruire le origini di Shepard prima che diventasse comandante, dalla nascita fino al suo arrivo sulla Normandy SR1.
“ La notte calò sul pianeta Akuze. Una notte senza stelle, illuminata solo dalla flebile luce di una piccola luna, lontana e stanca. Nel silenzio assoluto di un pianeta senza vita giacevano i corpi di chi, quella vita, aveva tentato di portarcela.
Cinquanta uomini e donne erano arrivati sul pianeta alla ricerca di gloria e conquista, di loro non rimanevano che i corpi spezzati sparsi per il deserto.
[...]. Erano morti tutti. Tranne uno.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parigi, 2178
 
Come ogni mattina negli ultimi sei mesi l’ex-comandante dell’Alleanza Albert Cross entrò nell’atrio luminoso dell’ospedale militare di Parigi.
Il largo schermo del televisore posizionato di fronte all’entrata offriva immagini diventate tristemente famose: il lontano pianeta di Akuze aveva raggiunto una notorietà che nessuna colonia, per quanto meravigliosa, avrebbe mai potuto apportargli. Dopo quello che era successo agli sfortunati militari che vi erano approdati, non esisteva persona nella galassia a non conoscerne il nome.
Si avvicinò al bancone della reception chiedendo cortesemente alla segretaria di spegnere il televisore; la donna parve sorpresa ma lo accontentò. Cross ringraziò e si avviò all’ascensore. Mentre aspettava la cabina un militare gli si avvicinò; non ebbe difficoltà a riconoscere un suo vecchio allievo dell’Accademia nell’uomo dalla pelle scura e l’aria distinta che gli porse la mano. Non era cambiato molto da quando, quasi vent’anni prima, si era presentato nella sua classe con la stessa aria di pacata compostezza che ostentava ora. Aveva solo qualche ruga in più e l’aria stanca di ogni soldato che ha combattuto per davvero.
- Anderson …- lo accolse, ricambiando vigorosamente la stretta - … che piacere vederti.-
Il militare accennò un sorriso – Il piacere è mio, signore.-
Cross ammiccò – Sono in pensione ormai, ragazzo, non c’è più bisogno di essere formali.-
Anderson annuì – Non era lei che diceva sempre che non è una divisa a fare di un uomo un soldato?-
Cross sorrise, compiaciuto – Non credevo che qualcuno ascoltasse le mie parole.-
Anderson ridacchiò seguendolo all’interno dell'ascensore, quando le porte si chiusero si girò nuovamente verso di lui, serio - Scusi se glielo chiedo ma … è qui per lei?-
Schietto come lo ricordava. Si augurò che non intraprendesse mai la carriera politica, non era uomo da sotterfugi e intrighi diplomatici.
- Vedo che non hai perso l’abitudine di andare dritto al sodo, Anderson.- aspettò che l’ascensore cominciasse a muoversi prima di dire qualcosa - La conosci?-domandò.
Il viso solitamente impassibile di Anderson si contrasse – Ero con la prima squadra di soccorso che è arrivata sul pianeta. Sono stato io a portarla sulla navetta. L’ufficiale medico era convinto che sarebbe morta prima di raggiungere la nave, ma io sapevo che ce l’avrebbe fatta. Non si sopravvive ad una cosa del genere per poi morire in ospedale.-
Cross contrasse la mascella, masticando nervosamente il sigaro spento che aveva tra le labbra – Ancora faccio fatica a realizzare che sia l’unica sopravvissuta. La 33 non era solo la mia squadra: era la mia famiglia. Quei ragazzi erano i miei figli e ora non ci sono più.- si strofinò le mani, come per togliere il sangue invisibile che le macchiava – Avrei dovuto essere su quel sasso con loro; non per salvarli. Lei mi ha raccontato quello che è successo e so per certo che non avrei potuto fare nulla di più di quello che ha fatto Shepard. – scosse il capo – No, non sarei riuscito a salvarli. Ma era giusto morire al loro fianco. Eravamo una famiglia e sarei dovuto restare con loro fino alla fine.-
Anderson gli posò una mano sulla spalla – Non sono morti tutti.-
– Sasha …- sospirò - … quella ragazza è un mistero che non riesco a penetrare. Dopo quello che ha passato, quello che ha perso, chiunque la posto suo cercherebbe un po’ di pace. Invece non stava ancora in piedi che già aveva ricominciato a sparare. L’ho implorata di prendersi una vacanza ma non vuole sentire ragioni.-
- Lei non è stato su Akuze, Cross.- replicò Anderson con voce pacata – Se avesse visto quello che ho visto io … credo che crollare sfinita nel letto dopo un allenamento massacrante sia l’unica cosa che le permetta di dormire la notte. Una vacanza la ucciderebbe: sarebbe obbligata a ricordare. –
- Capisco cosa vuoi dire, ma sta sottoponendo il suo fisico a degli sforzi inumani. Non è ancora guarita e se continua così si ammazzerà.-
Anderson scosse il capo – Se voleva ammazzarsi lo avrebbe già fatto, io stesso le ho dato quella possibilità. Quella ragazza conosce perfettamente i suoi limiti e posso affermare una cosa, con assoluta certezza: lei è affamata di vita, più di chiunque altro io abbia mai incontrato.-
Con un lieve fremito l’ascensore si fermò e le porte si aprirono, i due uomini uscirono nel corridoio e Cross guardò il suo ex allievo con un misto di curiosità e stupore; era raro che una persona in grado di compiere una carriera brillante in seno all’Alleanza lo facesse senza snaturare la sua natura.
Cross ricordava un ragazzo dall’animo buono, sempre pronto a mettersi al servizio di chiunque avesse bisogno, come i cavalieri dei tempi antichi: ora aveva di fronte un uomo che era riuscito a non tradire il ragazzo che era stato.
- Quando Sasha tornerà in servizio io non potrò più aiutarla; sarei più tranquillo se sapessi che ci sei tu a tenerla d’occhio.-
Anderson sorrise e gli porse la mano – Anche se non me lo avesse chiesto, comandante, lo avrei fatto comunque: veglierò su di lei. Sempre.-
Lo salutò con gratitudine e si separarono. Nuovamente solo, Cross percorse il lungo corridoio dell’ospedale e si fermò di fronte ad una delle tante porte che ospitavano soldati dell’Alleanza feriti in battaglia.
Bussò con discrezione e, quando una voce dall’altra parte gli rispose, entrò.
Sasha era seduta sul letto, intenta ad infilarsi le scarpe. Operazione complicata dalle spesse fasciature che ancora le avvolgevano le gambe.
- Sei in ritardo.- bofonchiò, senza alzare lo sguardo.
Cross si addossò alla parete, le braccia incrociate al petto, prendendosi un po’ di tempo per osservare quella ragazza sfuggita alla morte.
Non aveva più tagliato i capelli che ora scendevano a sfiorarle le spalle; una massa rossa e compatta sotto la quale spuntava un viso pallido e scavato che sembrava essersi dimenticato di come si faceva a sorridere; una sottile cicatrice le attraversava il volto, dal sopracciglio alla curva della mandibola. Uno sfregio che non toglieva nulla alla bellezza di quei lineamenti, ma conferiva loro una durezza inadatta al viso di una ragazza di appena vent’anni.
Non c’era mai stata l’innocenza dei bambini o la spensieratezza degli adolescenti in lei, ma nemmeno le terribili esperienze della sua infanzia erano riuscite a toglierle la capacità di sognare. Akuze, invece, aveva trionfato laddove le violenze terrestri avevano fallito.
Guardando gli occhi verdi di Sasha, il bel viso segnato dalla morte, il corpo esile cosparso di cicatrici, non si poteva fare altro che osservare il prodotto dell’ambizione umana e del prezzo pagato per realizzarla.
- Com’è andato l’allenamento oggi?- domandò per scacciare quei pensieri.
Sasha si alzò a fatica ma Cross non fece un passo per aiutarla, sapeva che qualsiasi suo gesto sarebbe stato respinto.
- Bene. Sono riuscita a correre per qualche metro. È da un po’ che non vieni a vedermi.-
I primi tempi si era recato al simulatore, ma non gli piaceva guardarla combattere. I suoi occhi erano troppo freddi, la sua espressione troppo dura: era tornata ad essere il soldato perfetto.
- Stai chiedendo troppo al tuo fisico.-
Lei gli si avvicinò, zoppicando leggermente, la divisa dell’Alleanza troppo larga per quel corpo debilitato dalla lunga convalescenza – Conosco i miei limiti, Cross. Ho scelto di vivere ed è quello che sto facendo.-
Le porse il braccio e lei vi si appoggiò con sollievo, lasciandosi guidare fuori dalla stanza e poi all’ascensore.
Scesero in silenzio, senza scambiarsi una parola, lui impegnato a riflettere su quanto le aveva detto, lei persa sulla sabbia nera di un pianeta lontano.
Dopo che le navette dell’Alleanza erano arrivate su Akuze e l’avevano tratta in salvo, unica superstite dei cinquanta marines della spedizione, era scoppiato un putiferio. L’intelligence stessa era finita sotto inchiesta e la società che aveva finanziato la colonizzazione di Akuze aveva chiuso i battenti. Molte persone erano finite sotto inchiesta e l’Alleanza aveva fatto muro attorno all’unica superstite. Il resoconto di Sasha aveva convinto gli investigatori che il massacro di Akuze era stato il frutto di un tragico incidente.
Si era supposto che i coloni fossero incappati nello stesso destino dei soldati giunti in loro soccorso. Il famigerato segnale che l’intelligence aveva attribuito ad una base mercenaria probabilmente non era altro che un’indecifrabile richiesta di soccorso lanciata dai coloni scomparsi.
Dopo pochi mesi l’inchiesta era stata chiusa e catalogata come “disastro naturale”. I mostri di Akuze erano stati riconosciuti per quello che erano: Divoratori. Era la prima volta che la specie umana incontrava quelle enormi bestie aliene estremamente letali, ma i Krogan li combattevano dall’alba dei tempi; la maggior parte delle specie della galassia, prima o dopo, si era dovuta confrontare con loro. Su Akuze era stato il turno degli ultimi arrivati.
Il Consiglio, dopo essere stato duramente attaccato dall’ambasciatore umano che li accusava di aver taciuto l’esistenza di un nemico così pericoloso, si era prodigato nel fornire all’Alleanza le armi necessari per abbattere i Divoratori. A soli sei mesi dall’immane tragedia che aveva colpito le forze armate umane, Akuze era stata completamente privata di tutti i suoi guardiani. Ma una triste fama circondava quel pianeta lontano.
Akuze era un luogo di morte e nessuna colonia avrebbe mai potuto prosperarvi. Così l’Alleanza aveva abbandonato il suo progetto di colonizzazione e Akuze si apprestava a divenire un santuario abitato solo dai fantasmi degli uomini e delle donne morti per conquistarlo.
Cross sospirò mentre le porte dell’ascensore si aprivano e guidava Sasha fuori da quelle mura asettiche che erano diventate la sua casa. Una delle tante.
Con la coda dell’occhio osservò la ragazza che gli camminava affianco sbalordendosi, come ogni giorno, per la rapidità con cui il suo corpo era guarito.
Quando era arrivata in ospedale i medici si erano subito mostrati pessimisti; se fosse sopravvissuta, avevano detto, difficilmente sarebbe riuscita a riprendersi completamente, e come avrebbe potuto?
Aveva il bacino fratturato, tre vertebre schiacciate, entrambe le gambe spezzate in più punti, tendini e legamenti strappati, milza spappolata e diverse altre lesioni di varia entità. Solo un secolo prima sarebbe sicuramente morta; la medicina moderna era riuscita a salvarla, persino a farla tornare a camminare, ma la possibilità che tornasse a combattere era inesistente.
Quando i medici le avevano comunicato il referto Sasha si era limitata a stringersi nelle spalle dicendo che quella perizia era valida per chiunque, ma non per lei. Aveva deciso che sarebbe tornata a combattere, diventando persino migliore di prima e, contro ogni aspettativa, ce la stava facendo.
Cross riceveva quotidianamente i risultati dei suoi addestramenti ed erano straordinari.
Andarono a sedersi su una panchina a pochi metri dall’ospedale; la Senna correva davanti ai loro occhi e in lontananza la cupola dorata dell’Hotel des Invalides riverberava la luce del sole. Era una fresca giornata di primavera e una leggera brezza muoveva le foglie appena nate degli alberi e il cinguettio degli uccelli gli ricordava perché, nonostante i meravigliosi luoghi che aveva visitato, la Terra era il solo pianeta che riusciva a chiamare casa.
Sasha chiuse gli occhi, il viso alzato verso quel sole lontano che riscaldava i suoi figli con il calore dei suoi raggi; malgrado la tranquillità di quegli istanti il viso di Sasha era contratto, la mente in balia di chissà quali incubi.
Il suo corpo era guarito in fretta ma le ferite della sua anima avrebbero messo anni a cicatrizzarsi e non sarebbero mai scomparse del tutto.
Le tolse una ciocca di capelli dalla fronte e gliel’agganciò dietro l’orecchio, sperando di poter fare qualcosa, qualunque cosa, per alleviare il dolore che le gravava sul cuore, ben consapevole che la sola cura era il tempo. Nient’altro.
Sasha socchiuse gli occhi e si strinse a lui alla ricerca della sola cosa che potesse aiutarla a guarire: l’amore di un padre.
Cross passò un braccio attorno a quelle spalle esili mentre davanti ai loro occhi un bateau mouche scivolava docilmente sulle acque grigie della Senna. Era confortante pensare che in quel luogo il tempo si era fermato: non c’erano astroauto che sfrecciavano nel cielo o voci sintetiche che risuonavano nell’etere; c’erano solo loro seduti su una panchina ad osservare un vecchio battello scivolare lentamente sulle acque di un fiume secolare.
Sentì i muscoli di Sasha sciogliersi sotto la sua mano e la strinse un po’ di più a sé, per farle sentire che lui c’era e ci sarebbe sempre stato. Come un padre che veglia sulla figlia.
Era la stessa cosa tutti i giorni: si sedevano su quella panchina, senza parlare. Se pioveva si riparavano sotto un ombrello, ascoltando il rumore dalla pioggia, se c’era il sole si lasciavano riscaldare dai suoi raggi che avevano il potere di scacciare, almeno per qualche ora, quel freddo impertinente che si era insediato nelle loro ossa.
Quelle poche ore trascorse sulle rive della Senna erano la cosa più vicina alla serenità che entrambi riuscivano a concepire.
Uno scoppio di risa li fece sobbalzare, poi una palla rotolò fin sotto i loro piedi.
Sasha si riscosse mentre un bambino scalzo correva nella loro direzione, i capelli ricci che gli ricadevano sul viso.
Cross s’irrigidì, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione di Sasha di fronte a quell’evento imprevisto.
Per un attimo lei rimase impassibile, il viso privo di qualsiasi emozione, squadrò il bambino come un robot che analizza un soggetto.
Il bambino si avvicinò, torcendosi le mani, intimidito da quei due soldati in cui non c’era traccia di umanità.
Alzò gli occhi azzurri su di loro e azzardò un sorriso sghembo.
Sasha ebbe un piccolo sussulto, poi si chinò a prendere la palla finita sotto i suoi piedi e gliela porse.
Il bambino la prese con mani incerte e sussurrò un ringraziamento. Fu allora che accadde l’impensabile: Sasha sorrise.
Non il sorriso triste e spento che le aveva visto fare, di tanto in tanto. Un vero sorriso, con le fossette ai lati della bocca, e gli occhi verdi di nuovo vivi, di nuovo belli.
Era la Sasha dei tempi migliori, quella che conosceva l’amore e l’amicizia; la ragazza dolce e spensierata che era uscita dal guscio della teppistella terrestre. Fino a quel momento Cross aveva pensato che la parte migliore di lei fosse morta su Akuze assieme al resto della squadra e che a restare in vita fosse stata la spietata e cinica delinquente il cui unico scopo era la semplice sopravvivenza.
Scoprire di essersi sbagliato lo rese felice come non lo era da molto tempo.
La guardò seguire con gli occhi il bambino che correva via, il pallone stretto tra le braccia. L’espressione del suo viso non esprimeva né rabbia né dolore c’era solo nostalgia. La nostalgia con cui si ricorda la felicità perduta.
- Perché ti ostini a voler combattere?- domandò, senza riuscire a trattenersi – Potresti avere una vita normale, lontano dall’Alleanza e dai brutti ricordi.-
Sasha sollevò le gambe, raccogliendole contro al petto, una lieve smorfia di dolore increspò il suo viso quando i legamenti appena ricuciti le ricordarono che non poteva ancora permettersi certe libertà – È troppo tardi, Cross. Ho voltato le spalle ad una vita normale tempo fa.- il suo sguardo non si staccò dal ragazzino che si era messo a giocare a pallone poco lontano, insieme ad un suo amico – C’era una sola persona con cui avrei potuto avere una vita normale, ma l’ho respinta e ora non c’è più. Io volevo la fama, Cross, volevo che la gente si ricordasse di me.- una smorfia amara increspò le sue labbra e, bruscamente, smise di guardare i bambini che giocavano – Ho ottenuto quello che volevo. Sono “speciale” adesso. Ora non devo fare altro che conviverci.-
- Sei troppo dura con te stessa.-
Lo sguardo che gli rivolse lo fece arrossire, e si sentì come un allievo stupido redarguito dal suo maestro – Non sono dura, Cross, sono giusta.-
Lui scosse il capo, esasperato – È per questo che ti massacri ogni giorno sul campo di addestramento? Cos’è, una specie di punizione per essere sopravvissuta a tutti gli altri?-
Sasha si appoggiò con la schiena alla panchina – Non è una punizione, Cross. Potrebbe, ma non lo è.- si passò una mano sul viso – Prima di morire Shepard mi ha chiesto di vivere al posto suo. Malgrado tutte le belle parole, le belle intenzioni, Shepard non avrebbe mai abbandonato l’Alleanza. Lui apparteneva alle stelle, non alla Terra, nemmeno a me, solo alle stelle. Shepard era destinato a grandi cose, lo sappiamo entrambi. Il meglio che l’umanità aveva da offrire è morto con lui e coi ragazzi della “33”. Io sono tutto ciò che resta di loro. E loro lottavano per l’umanità e la galassia intera, Shepard lottava per questo. Continuerò a farlo in loro nome: è per questo che sono sopravvissuta, è per questo che non ho intenzione di arrendermi.- serrò la mascella e si sporse verso di lui, guardandolo con una franchezza che lo imbarazzò – Prima di morire il mio comandante mi ha dato una missione e io la porterò a termine. Sono viva per questo. Solo per questo.-
In quello sguardo così franco e sincero, Cross lesse tutto quello che non era riuscito a decifrare in quei sei mesi in cui l’aveva guardata rimettere insieme i cocci della sua esistenza.
Quella che aveva scambiato per disperazione era in realtà accettazione, l’indifferenza era determinazione e la tristezza era solo nostalgia.
Nostalgia per quello che era stato e non sarebbe più potuto essere, per quello che avrebbe potuto essere e non si era mai realizzato, per ciò che si era realizzato a scapito di tutto il resto.
Sasha non stava rinunciando alla vita, stava solo affrontando le conseguenze della vita che si era scelta.
“Attento a ciò che desideri” diceva il proverbio “potrebbe realizzarsi.”
Cross si alzò lentamente, gli occhi fissi sulla cupola dorata che risplendeva in lontananza, retaggio di antiche glorie e grandi uomini.
- In ogni caso sono felice che tu sia sopravvissuta.- si avvicinò a lei e le posò un bacio sulla fronte – Dovremmo rientrare.-
Sasha gli strinse piano la mano – Tu vai pure, io rimango qui ancora qualche minuto.-
- Sicura?-
Un tenue sorriso increspò le sue labbra – Sono certa che riuscirò a trovare la strada anche da sola.-
Restituì il sorriso, sentendosi tranquillo per la prima volta da quando era tornata da Akuze. Sasha aveva scelto la vita, nient’altro contava.
- Ci vediamo domani, Cenerentola.-
- A domani, comandante.-
Attraversò la strada con decisione senza notare la donna appoggiata alla balaustra che sovrastava il fiume; se l’avesse vista l’avrebbe sicuramente riconosciuta e, certamente, l’idea che rimanesse sola con Sasha non gli sarebbe piaciuta per niente. Ma non la vide e lei non fece nulla per attirare la sua attenzione. Gli occhi scuri seguirono Cross che si allontanava, abbandonando la larga schiena dell’uomo solo quando vi fu la certezza che non sarebbe tornato indietro.
 

Per una persona abituata a vivere nello spazio era difficile adattarsi alla confusione della Terra. Troppi suoni differenti, troppa luce, troppo caos.
Non l’amava, non l’aveva mai amata ma ne subiva il fascino come qualunque altro essere umano. Che la si amasse o la si odiasse la Terra era pur sempre il “pianeta natale”.
Hannah Shepard osservò il fiume scorrere tranquillo tra gli argini innalzati da mani antiche e sapienti, compiacendosi della capacità dell’uomo di domare la natura, d’incanalarla, di portare l’ordine nel caos.
Era così che le sarebbe piaciuta la Terra: ordinata, regolamentata, prevedibile. Ma non lo era e questo la faceva imbestialire.
Odiava le cose che sfuggivano al suo controllo ed era una situazione che ormai si ripeteva in continuazione, da anni. E tutto perché non aveva saputo vedere il male laddove era evidente.
Avrebbe dovuto saperlo che una vita costruita sulle bugie era fragile come argini di cartone. Era stato l’amore a farla mentire, l’amore per suo marito e suo figlio, e a causa di quell’amore li aveva perduti entrambi. Stupida donna che aveva messo i sentimenti davanti alla ragione.
Con la punta delle dita sfiorò il datapad che aveva in tasca: un piccolo oggetto che aveva il potere di far crollare imperi ed esplodere pianeti. C’era la verità celata tra i circuiti elettrici di quel sottile foglio elettronico. La verità sui vivi e sui morti, su ciò che era stato e su ciò che avrebbe dovuto essere.
Nomi e date, esperimenti e massacri, attentati e giochi politici. Sarebbe bastata una pressione del dito e l’intera galassia avrebbe saputo la verità.
La verità sulla morte del Maggiore Boris Dolgorukov, suo marito e padre di suo figlio; la verità sull’assalto alla colonia di Mindoir e del “suicidio” dell’unica persona che avrebbe potuto svelarla; la verità su un “terrorista” morto la cui unica colpa era quella di essere stato un buon soldato; la verità, infine, sui quarantanove marines dell’Alleanza massacrati su Akuze.
L’Alleanza si era allevata in seno una serpe pronta a distruggerla, una cellula segreta in grado di colpire chiunque, in qualunque luogo e non pagarne le conseguenze.
Suo marito aveva indagato su di loro, suo figlio aveva indagato su di loro e lei, che avrebbe dovuto amarli e proteggerli fino alla fine dei suoi giorni, non aveva avuto il coraggio di ammettere di essere stata responsabile della nascita di Cerberus.
Prima che Cerberus si mostrasse per il mostro che era realmente, quando ancora operava con la benedizione dell’Alleanza, Hannah Shepard era stata una delle dispensatrici di quella benedizione. Lei non era stata una semplice collaboratrice: era l’ufficiale che aveva autorizzato a quella futura cellula terroristica l’accesso totale alle strutture dell’Alleanza, garantendone l’immunità e la segretezza.
Lei aveva sempre sospettato la vera natura di Cerberus e dell’uomo che lo aveva creato, eppure, pur di vincere una guerra già persa in partenza, aveva finto di non vedere la corruzione che si celava in essa, convinta che si trattasse di un male necessario, certa di essere in grado di contenerlo.
Aveva fallito. Lei, il capitano Hannah Shepard, aveva fallito; raggirata da un uomo affascinante e subdolo, accecata dalla sua stessa arroganza. Quando aveva capito la vera natura di Cerberus era stato troppo tardi. E così aveva fatto l’impensabile: si era girata dall’altra parte, aveva finto di non vedere, di non sapere, per non perdere ciò che amava di più al mondo. Suo marito, suo figlio e la sua nave.
Ma Hannah Shepard era una donna intelligente, sapeva che prima o poi ciò che le bugie avevano comprato, le bugie avrebbero perso.
Prima Boris, poi Alexander. Le sue menzogne non avevano salvato né l’uno né l’altro, erano solo servite a farla odiare da entrambi.
Tutto ciò che aveva fatto, i suoi goffi tentativi di frapporsi tra la sua famiglia e la creatura frutto della sua ambizione, non erano serviti a niente.
La sua famiglia era morta e Cerberus pareva ormai inarrestabile; le rimaneva una sola arma ed era il datapad infilato nella sua tasca ma, ancora una volta, tra lei e il suo bersaglio c’era qualcuno.
Qualcuno che non avrebbe mai pensato di amare o rispettare e che, invece, suo malgrado amava e rispettava.
Guardò la ragazza seduta sulla panchina. Quella ragazza che era viva quando avrebbe dovuto essere morta.
La rispettava perché era riuscita a superare l’orrore, perché, nonostante tutto, era uscita a testa alta dalla fossa dell’inferno.
E la amava, perché suo figlio l’aveva amata più della sua stessa vita.
Su Akuze Alex era morto per lei. Non aveva bisogno che qualcuno glielo dicesse, non erano necessarie prove o filmati: lo sapeva e basta. Conosceva abbastanza bene suo figlio da sapere che Alex non avrebbe accettato di vivere in un mondo in cui Sasha non c’era.
Si allontanò dal parapetto e si avvicinò con passo marziale alla panchina su cui era seduta l’unica cosa, nell’intera galassia, che le parlava di suo figlio.
Erano le due facce della stessa medaglia e lei era stata così spaventata, cieca ed egoista da non capirlo. Aveva avuto paura che lei glielo portasse via, con la sua indole ribelle e il cuore al posto della testa, e non era stata in grado di rendersi conte che l’aveva giù perduto quando gli aveva costruito attorno un muro di menzogne che sperava potessero proteggerlo.
Si sedette accanto a Sasha, la schiena dritta e le mani compostamente appoggiate sulle ginocchia; lei non parve notarla, non la guardò, non parlò, né il suo volto tradì sorpresa o fastidio. Rimasero sedute l’una accanto all’altra due statue di marmo che il tempo non poteva scalfire.
Erano scolpite dalla stessa mano sapiente nello stesso materiale immutabile, capaci di sopravvivere alle più gravi catastrofi e non mostrare dolore.
Fu Hannah, infine, a parlare per prima; non perché non sopportasse il silenzio o perché si sentiva in debito con la donna amata da suo figlio. Fu la prima a parlare perché era giusto così. Aveva cercato lei Sasha, non viceversa.
- Hanno deciso di costruire un memoriale su Akuze. È lì che verranno sepolti i corpi.-
La reazione di Sasha fu esattamente quella che si aspettava, perché era la stessa che avrebbe avuto lei alla sua età. Si voltò di scatto, sgranando gli occhi, il viso trasfigurato dalla rabbia – Dovrebbero bombardare quel posto dall’orbita, non farci un memoriale! Nessuno dovrebbe rimanere su quel pianeta, nemmeno chi ci è morto.- nei suoi occhi comparvero lacrime che fu brava a ricacciare immediatamente indietro – Alex non dovrebbe rimanere lì. Non è il suo posto. Non è il posto di nessuno di loro.-
- E qual è il posto di mio figlio?- la sua voce non tradì alcuna emozione, come sempre – Dovrei seppellirlo accanto ad un padre che non conosceva su un pianeta che gli è sempre stato estraneo? –
- Qualunque posto è meglio di Akuze.-
Hannah scosse il capo – Il suo posto è accanto alla sua famiglia e la sua famiglia era la sua squadra. Nient’altro importa.-
Sasha la guardò negli occhi per la prima volta, aveva pensato di trovarci odio o dolore o disperazione, invece vi lesse solo stanchezza – È già tutto deciso, non è così? E io non ho alcun potere per impedire che quel memoriale venga realizzato. I miei amici, Alex … verranno seppelliti su quel sasso che io lo voglia o no. Perché è venuta a dirmelo?-
Hannah si umettò le labbra, trovandosi a corto di parole per la prima volta dopo tanto tempo – Immagino di essere qui perché abbiamo qualcosa in comune: entrambe amavamo Alexander, entrambe lo abbiamo deluso e infine lo abbiamo perso. Volevo solo assicurarmi che tu non ti ritenessi responsabile della sua morte. Per quanto mi riguarda tu non hai alcuna colpa.-
Sasha si strinse nella sua divisa troppo grande, lo sguardo perso nel vuoto – Non sono così arrogante da pensare di avere avuto potere di vita o di morte su Alex o sugli altri membri della squadra. Ciò che è accaduto era più grande di me, più grande di tutti noi. Chiesi io ad Alex quell’ultima missione, questo non lo nego. Ma la morte è compagna di ogni soldato, ciascuno di noi sa che ogni battaglia potrebbe essere l’ultima. Nadine, C.J., Dario, Abigale, Alex … erano soldati e sapevano che su Akuze, come su qualunque altro pianeta, avrebbero potuto trovare la morte eppure nessuno di loro si è mai tirato indietro, né su Akuze né da qualunque altra parte. Erano dei soldati, i migliori, e sono morti da soldati.- abbassò lo sguardo sulle sue mani intrecciate, chiuse gli occhi e tacque per un istante; quando li riaprì la sua apparente tranquillità era evaporata – So che è così, ma certi giorni è difficile ricordarselo.-
Hannah si sorprese a fare qualcosa che mai nella sua vita avrebbe pensato di poter fare: le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé.
Sasha nascose il viso nell’incavo del suo collo e, sulla pelle, sentì scorrere le lacrime silenziose della ragazza. Lei stessa non riuscì a trattenere una lacrima: unica concessione fatta al suo dolore di madre.
- La tua unica colpa è stata quella di aver dato peso ai vaneggiamenti di una vecchia. Tu meritavi mio figlio molto più di quanto lo meritassi io.-
Sasha si separò da lei, asciugandosi rapidamente gli occhi umidi – È inutile giocare a darsi la colpa, non crede? Loro sono morti e io sono viva. Qualunque cosa diciamo, qualunque cosa facciamo, questa è la sola cosa reale.-
Hannah infilò una mano in tasca, con la punta delle dita sfiorò la superficie fredda del datapad, esitò, poi tolse la mano dalla tasca: vuota.
Alex era morto ma Sasha, la sua Sasha, era ancora viva.
Hannah aveva un ultimo proiettile nella sua pistola, ma non poteva colpire Cerberus senza colpire anche Sasha. Le sue rivelazioni potevano ferire Cerberus ma non s’illudeva di avere gli strumenti necessari per distruggerlo; in compenso, qualunque sua azione contro l’organizzazione avrebbe messo in serio pericolo la vita di Sasha. Hannah digrignò i denti: non col sangue di Sasha che voleva comprare la sua vendetta. Non era così che Alex avrebbe voluto essere vendicato e nemmeno Boris.
Sollevò lo sguardo su Sasha e capì che era nella sua vita, non nella sua morte, che si nascondeva la chiave per distruggere gli assassini della sua famiglia.
Non era sopravvissuta senza una ragione; Cerberus aveva commesso un errore nel lasciarla in vita e presto o tardi ne avrebbero pagato le conseguenze.
Ma il momento della vendetta era ancora lontano.
Pazienza, ricordò a se stessa.
- Io non credo nel caso.- mormorò – Non si sopravvive all’apocalisse senza che vi sia una ragione. Tu sei destinata a grandi cose.- le prese il mento tra le mani e la costrinse a guardarla – Di questo sono certa.-
Sasha parve a disagio, tesa per la prima volta da quando avevano cominciato a parlare.
Si alzò, avvicinandosi al parapetto, zoppicando leggermente – Sono stata convocata dal consiglio dell’Alleanza, tra una settimana. Immagino lei sappia il perché.-
- Sì.- sospirò – Non conosco i dettagli ma so che vogliono onorare le tue azioni su Akuze.-
Sasha si lasciò sfuggire una risatina sarcastica – Come se ci sia qualcosa da onorare ...- abbassò la testa e scosse il capo, forse per scacciare uno sciame di pensieri velenosi che minacciavano di assalirla – Ma non importa. Ho anch’io una richiesta per l’Alleanza ma prima ho bisogno del suo consenso.-
Incuriosita, Hannah si avvicinò a lei, ne ascoltò le parole, guardò dritto dentro quegli occhi risoluti e non ebbe dubbi della purezza delle sue intenzioni.
Quando Sasha ebbe finto di parlare, il capitano si concesse qualche istante per pensare, non al fatto di dare o meno il suo consenso, quello era scontato, ma sull’ironia di quella proposta.
In passato le parole di Sasha l’avrebbero fatta infuriare, ora invece ne era onorata.
- Non è un furto o un’usurpazione.- si affrettò ad aggiungere Sasha, fraintendendo i motivi del suo silenzio – Ne sarò la custode affinché non venga dimenticato. Devo ad Alex la mia vita e il mio futuro: è giusto che l’intera galassia lo sappia. Non gli recherò disonore. Ha la mia parola.-
- Lo so.- annuì – Io … io ne sarei onorata: è sempre appartenuto a te.-
La vide sorridere per la prima volta da quando la conosceva e si sentì bene all’idea di essere stata lei, lei che era stata la causa principale delle sue sofferenze, ad averle portato un po’ di sollievo.
- Grazie, capitano.- le prese una mano tra le sue e la strinse – Mi ero sbagliata su di lei.-
- Anch’io. Avrei solo voluto capirlo prima.-
Sasha si congedò col saluto militare prima di avviarsi zoppicando verso l’ospedale. Hannah non si propose di accompagnarla, né lei se lo era aspettato. Dubitava che si sarebbero più riviste, se non per incontri formali, non sarebbero mai arrivate ad amarsi come madre e figlia. Ma nessuna delle due si aspettava quello.
Non c’era bisogno di gesti plateali o parole melense: avevano l’una il rispetto dell’altra e questo era più che sufficiente.
Hannah Shepard guardò la Senna fluire davanti a lei e immaginò tutti coloro che, nei secoli, avevano guardato le sue acque in cerca di risposta.
Non importava che fossero re o mendicanti, imperatori o popolani, generali o soldati: quel fiume ascoltava tutti e non rispondeva a nessuno.
Hannah prese il datapad dalla tasca, lo accese e lo gettò nel fiume.
Era un altro segreto che si aggiungeva ai mille altri che quelle acque custodivano.
 
  
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