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Autore: Relie Diadamat    20/03/2015    36 recensioni
L’analista si sistemò sulla sua poltrona, trovando la posizione a lui più comoda, poi si portò una mano a sorreggere il mento, esaminando professionalmente il volto arrabbiato della giovane francese «Posso vedere i suoi occhi sanguinare anche da qui. Colgo la tristezza repressa nei suoi deliri onirici; un dolore troppo forte per essere esternato.» si rigirò la stilografica tra le mani affusolate, senza mai distogliere lo sguardo dalla bionda «Vede Alexandra, siamo tutti malati a questo mondo.»
La ventiduenne deglutì a vuoto, incassando il colpo amaro della verità. Odiava essere zittita; Alexandra sentiva di dover sempre avere l’ultima parola.
«Dunque anche lei, dottore, è malato?» lo provocò, lasciando incurvare le labbra screpolate in un sorriso incerto.
[...] Alexandra prese a girare un anello invisibile nell’anulare della sua mano sinistra, inspirando nervosamente quanta più aria poté «Non sono io a dover compatire questa città, dottor Pruvost.» si morse l’interno labbra dalla tensione, per poi proiettare le sue iridi ambrate in quelle glauche di Raymond «E’ Parigi che non perdona.»
Genere: Drammatico, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
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Terza classificata al contest "Il mio titolo, la tua storia". 
 
Parigi non perdona
 
Parigi, Ottobre 1946

«Mi parli del suo sogno.»
Il rumore nella stanza sembrava essersi annullato. L’unico suono che si udiva era il continuo ticchettare di un orologio a pendolo, appeso al muro, accanto agl’immensi scaffali ricolmi di volumi.
La luce era fievole e conferiva un colore intimo al tessuto verdastro del maglione dell’uomo, sdraiato sulla sua poltrona, a gambe accavallate. Dai mocassini s’intravedevano dei calzini grigi che scomparivano sotto la stoffa cinerea dei pantaloni.
«S-sangue…» la voce uscì come un sussurro dalle labbra malferme della donna. Le mani le tremavano leggermente, lo sguardo si era perso in un punto morto della stanza.
Le iridi ceruli dello psicoanalista si erano fissate in quelle ambrate della bionda. Con la mano sinistra sorreggeva un taccuino tascabile, mentre nella destra impugnava una penna stilografica gialla ocra.
«C’era del sangue nel suo sogno, mademoiselle Morel?»
Il tono dell’uomo era gentile anche s’esigeva risposta.
La donna corrugò la fronte pallida, trovando maggior interesse verso un mobile in legno su cui erano adagiati diversi soprammobili in ceramica «I miei occhi sanguinavano. Sentivo l’odore disgustoso sulle mie guance e poi sulle mie mani.» il tremolare delle sue labbra sottili era un chiaro segnale che la donna stesse figurando quelle immagini nella sua mente.
Il volto inespressivo dell’analista rimase rivolto nella sua direzione, senza mai cedere lo sguardo alle pagine rigate del taccuino.
«Ne sentivo il sapore nel palato… Era disgustoso.» una smorfia di ribrezzo affiorò sul viso della donna, le cui iridi ambrate erano ancora paralizzate sul ninnolo a forma di cavallo fatto di ceramica. Gli occhi erano lucidi e tradivano la sua posizione difensiva nei confronti dell’uomo.
«Si ripetono spesso questo tipo di sogni?» la interrogò ancora con diplomatica pazienza.
La mascella della bionda si contrasse, mentre repentina si voltò verso lo psicoanalista con fare brusco «Le ripeto che non ho bisogno di uno strizzacervelli.» sibilò a denti stretti, fregandosene del bon-ton.
L’accenno di un sorriso allargò di poco le labbra sottili dell’uomo, mentre ricce ciocche castane gli coprivano la fronte.
«So che mia madre le ha proferito il contrario. A quanto pare le piace sperperare denaro in cose futili.» i capelli composti le ricadevano dolcemente sulle spalle, incorniciandole un pallido viso crucciato «Immagino che lei informerà madame Morel dei miei continui progressi.»
«Sono tenuto al segreto professionale, mademoiselle Alexandra.» la mascella dell’uomo si muoveva al ritmo delle sue parole, lasciando danzare la pelle ruvida delle sue guance, ricoperte da uno strato di barba curata «Il mio unico compito è quello di curarla.»
«Non sono malata!» gli ringhiò contro la donna, stringendo forte la mano destra in un pugno, sul suo grembo.
L’analista si sistemò sulla sua poltrona, trovando la posizione a lui più comoda, poi si portò una mano a sorreggere il mento, esaminando professionalmente il volto arrabbiato della giovane francese «Posso vedere i suoi occhi sanguinare anche da qui. Colgo la tristezza repressa nei suoi deliri onirici; un dolore troppo forte per essere esternato.» si rigirò la stilografica tra le mani affusolate, senza mai distogliere lo sguardo dalla bionda «Vede Alexandra, siamo tutti malati a questo mondo.»
La ventiduenne deglutì a vuoto, incassando il colpo amaro della verità. Odiava essere zittita; Alexandra sentiva di dover sempre avere l’ultima parola.
«Dunque anche lei, dottore, è malato?» lo provocò, lasciando incurvare le labbra screpolate in un sorriso incerto.
Raymond Pruvost sostenne lo sguardo della giovane Morel senza mostrare alcun tipo di cedimento; trentenne ed ormai affermato nel campo della psicoanalisi, non si sarebbe fatto mettere con le spalle al muro da una ragazzina inesperta.
«La sua malattia, mademoiselle Morel, è il suo suolo natio.» l’analista distese le gambe, poggiandosi taccuino e penna sulle cosce, per poi congiungere le mani «Penso che la sua unica cura sia quella di perdonare questa terra, iniziando dai ricordi lasciati nell’oblio.»
Alexandra prese a girare un anello invisibile nell’anulare della sua mano sinistra, inspirando nervosamente quanta più aria poté «Non sono io a dover compatire questa città, dottor Pruvost.» si morse l’interno labbra dalla tensione, per poi proiettare le sue iridi ambrate in quelle glauche di Raymond «E’ Parigi che non perdona.»
 
Parigi, dicembre 1938


La neve fioccava silenziosa, accompagnata dal canto invernale del vento di dicembre a ricoprire l’intera capitale francese. Il cielo plumbeo non lasciava spazio ai raggi del sole, rendendo ancora più gelida l’aria pungente che si respirava in città.
Alexandra, avvolta in un cappotto grigiastro, si copriva per bene, infreddolita e tremolante come un gattino bagnato. I capelli biondi ondulati le arrivavano alla schiena, divisi in due codini bassi. Teneva stretti al petto due volumi di Chrétien de Troyes, correndo spedita verso la piazza.
La neve rendeva difficile la corsa, ma la ragazzina non diede accenno di fermarsi, mentre malamente cercava di raggiungere una giovane dai capelli lisci e mori, seduta a capo basso su una panchina.
«Ruth! Li ho trovati!» trillò entusiasta col fiato corto, parandosi dinanzi la visuale della bruna, facendole cenno dei libri che portava contro il petto.
La ragazza alzò lo sguardo verso la bionda, facendo ricadere le sue trecce more sul suo seno acerbo «Alex…» un soffio uscì dalle sue labbra un attimo prima che gli angoli della sua bocca s’incurvassero in un timido sorriso «Temevo non saresti più venuta.»
Alexandra si lasciò ricadere sulla panchina, al fianco della sua amica, proiettando le sue iridi ambrate in quelle quasi nere della ragazza «Un po’ di neve non basterà per fermare una Morel.» sporse i libri che teneva ancorati al petto alla mora, lasciando che ne leggesse i titoli «Io direi di partire da Tristano e Isotta!»
L’altra sorrise acconsenziente, asserendo col capo.
 
*
 
Le due ragazze si rintanarono nella cantina della casa di Alexandra, leggendo sottovoce le pagine ingiallite dei libri, che odoravano di buono.
Con le spalle contro il muro e le gambe distese sul pavimento gelido, la giovane Morel e la timida Ruth se ne stavano l’una appoggiata col capo sulla spalla dell’altra, scappando dalla triste realtà che stava diventando Parigi.
«Alex…» chiamò con un filo di voce la ragazza dalle lunghe trecce brune, volgendo lo sguardo verso l’amica.
Alexandra tenne lo sguardo sulle righe d’inchiostro che tanto amava, prestando poca attenzione al richiamo della mora.
Ruth decise di parlare lo stesso; mosse le labbra come a lasciarle danzare in un fiume di sognanti prospettive, mentre le iridi profonde dei suoi occhi di carbone si perdevano nei biondi fili dorati che erano i capelli di Alexandra «Un giorno le nostre strade si separeranno, vero?»
Solo in quel momento lo sguardo attento della bionda si spostò dalle pagine del libro sino al volto scarnito dell’amica «No. Certo che no, Ruth!» di getto le prese le mani, stringendole saldamente nelle proprie «Non mi separerò mai da te. Qualsiasi cosa succeda.»
La giovane ed ingenua Ruth parve credere alla determinazione miscelata alla dolcezza delle parole della caparbia Alexandra, così le sorrise di riflesso, circondando il corpo dell’amica con le sue braccia gracili e dalla stretta gentile.
La ragazza avvertì l’amore e l’affetto della mora nel suo abbraccio. Amava il modo in cui Ruth si accostava a lei, ma ancora di più adorava Ruth stessa, con tutta la sua anima. La strinse di rimando, incurvando le labbra in un sorriso caldo e sincero, ignorando i piani che il mondo aveva in mente per loro.
Alexandra e Ruth ignoravano totalmente che un’ombra oscura si sarebbe abbattuta sulle loro vite, calpestando ogni cosa, rubando per sempre il calore del sorriso della giovane Morel e la dolcezza nelle movenze della sua amica Ruth.
 


Parigi, autunno 1940
 
I capelli biondo cenere ricadevano ordinati sulla sua fronte pallida, mentre due occhi di ghiaccio scrutavano vigili il territorio francese, assicurandosi che non fosse contaminato da imperfezioni.
Fiero ed impettito, portava al capo il cappello grigiastro tendente al verde, in perfetta assonanza con la sua divisa tedesca. Orgoglioso, impugnava il suo fucile, eseguendo con eccellente rigore gli ordini dei superiori.
Thomas Krüger si era guadagnato in poco tempo la stima dei suoi compagni d’armamento e l’ammirazione delle nuove reclute grazie alla sua diligenza nello svolgere il suo dovere. Eppure, in quell’autunno parigino, lo sguardo glaciale del soldato tedesco si era posato su ribelli capelli dorati, mossi sbarazzini dal vento già pungente di Francia.
A Thomas bastò un solo sguardo per perdere la testa per la giovane sedicenne Morel. La sua alienazione dal mondo che s’intravedeva nelle sue iridi innaturalmente gialle, aveva fatto breccia nel cuore del soldato sin dal primo momento.
Alexandra Morel era un bocciolo di rosa che non appassiva nel freddo e austero autunno; Thomas Krüger si promise, con metodica buon intenzione, di averla tutta per sé.
Ma la giovane Morel, nel fiore della sua età, sembrava assente da tutto ciò che le circondava, quasi nascondesse chissà che cosa in chissà quale luogo. Krüger si convinse che non c’era ragione di continuare a fissarla senza mai farsi avanti, così in un tardo pomeriggio annuvolato di Novembre, il soldato decise di avvicinarsi alla ragazza.
«Cosa fa a quest’ora per strada, mademoiselle?»
L’accento tedesco suonò aspro all’orecchio della giovane, anche se la sua era un’ostilità voluta contro ogni nazista che inquinava il suolo terrestre e non perché il tono del soldato fosse realmente così pungente.
«Tornavo a casa.» la bionda ignorò l’azzurro accecante degli occhi dell’uomo, oltrepassandolo con noncuranza.
Thomas però, non si diede per vinto e, nuovamente, le sbarrò la strada «Non può tornarci da sola, l’accompagno.» insistette, dipingendosi in volto un sorriso sicuro.
«Non è necessario, grazie.» Alexandra si strinse nei suoi panni, cercando il mancato calore che desiderava, tentando tuttavia di sottrarsi dalla presenza del tedesco.
«Insisto.» stavolta l’inflessione tedesca suonò più che altro buffa nella sua insistenza, alle orecchie della bionda, che si fermò nuovamente, bloccata dall’uomo.
«Sarebbe pericoloso lasciare tale bellezza in balia del buio.» le labbra di Thomas s’incresparono in un sorriso soddisfatto, probabilmente dalle sue stesse parole, inchiodando i suoi occhi di ghiaccio sulle labbra rosee e screpolate della giovane.
Fu in quel momento che Alexandra si accorse di quanto l’uomo che le stava dinanzi fosse attraente. Il nazista doveva avere all’incirca una ventina d’anni e l’aria baldanzosa era rivendicata dai muscoli rigidi del suo corpo e dal continuo luccichio dei suoi occhi glaciali. I capelli biondo cenere s’intravedevano a stento sotto la visiera del suo copricapo; erano composti, consoni alla rigidità tedesca.
«Mi permetta di presentarmi.» afferrò con reverenza la mano sinistra della ragazza, portandosela elegantemente alle labbra «Sono il soldato Thomas Krüger.» s’allontano piano il dorso gelido della mano della giovane dalla bocca, incatenando i suoi occhi magnetici in quelli incredibilmente meravigliosi di lei «Al suo servizio.»
Sorpresa da se stessa, la sedicenne francese non tentò di sottrarsi a quel semplice e cordiale contatto, lasciando campo libero a quel tedesco.
Alzò un angolo della bocca, ritirando piano la mano dalla stretta del soldato, facendosela ricadere dolcemente lungo il fianco. Alexandra odiava i nazisti. Odiava tutto ciò che avesse a che fare con Hitler e la sua malsana ossessione verso gli ebrei, eppure quell’uomo non rispecchiava la divisa che portava, almeno non in parte. Agli occhi della giovane apparve diverso, forse anche degno della sua cordialità.
La giovane parigina si era decisa così a presentarsi, svelandogli il proprio nome, ma proprio mentre le sue labbra si schiusero, pronte a proferire parola, la sirena risuonò per tutta la città.
Il viso di Thomas ritornò austero, cancellando ogni singola traccia di sorriso e cortesia dalla sua faccia, mentre i suoi occhi azzurri si perdevano aldilà di Alexandra.
Persone in preda all’ansia correvano lontane dalle loro case, dirigendosi verso il rifugio per i bombardamenti.
Gli occhi ambrati della ragazza erano ancora incollati sul volto contratto del soldato, ammirandone i lineamenti decisi, finché non si sentì strattonare per un braccio, trascinata verso l’ondata terrorizzata dei parigini.
«Alexandra, santo cielo, muoviti!»
La platinata si lasciò trascinare dalla madre, beccandosi continue imprecazioni dovute dall’apprensione materna e dall’imminente attacco aereo. Continuò a girarsi però, in cerca dello sguardo di Thomas, rallentando il passo suo e quello della madre.
«Alex, per l’amor di Dio, sbrigati!»
Alexandra si voltò definitivamente, decidendo che fosse più saggio seguire la madre, mettendosi entrambe a riparo dalle bombe, lasciandosi alle spalle il giovane soldato dagli occhi di ghiaccio ed i capelli biondo cenere.


Parigi, dicembre 1946


«Mi può spiegare perché non siamo nel suo studio, dottor Pruvost?»
La quiete dopo la tempesta era sempre difficile da sostenere, così come un cielo cupo dopo una giornata di sole.
Alexandra comandava controvoglia i suoi piedi di camminare lungo le strade apparentemente serene di Parigi, affiancata da quello che era diventato, per volere di sua madre, il suo psicoanalista.
L’uomo si sistemò al meglio la montatura dei suoi occhiali con l’indice, portando poi entrambe la mani dietro la schiena, ricongiungendole «Siamo nello studio più consono a lei, mademoiselle Morel.»
«Proprio non comprendo la sua ostinazione.» la bionda arrestò il passo sul viale gelido e spoglio, per poi far scivolare lo sguardo diffidente sul volto dell’uomo «E’ da quando la conosco che continua a ripetermi sempre le stesse cose, eppure non mi sembra di essere migliorata.»
«Si guardi intorno, Alexandra.» le disse, indicando con una mano tutto il perimetro circostante «Lei sta camminando per le strade di Parigi.»
«Cammino ogni giorno per le strade di Parigi.» fece nota lei.
«Ma da quanto tempo non s’era più incamminata per questa via?»
Alexandra si zittì, mentre immagini nitide e prepotenti prendevano vita nella sua mente.

Parigi, inverno 1940
 
La vista le si era annebbiata da quando aveva visto quegli uomini trascinare via con prepotenza, la figura esile di Ruth, conducendola a forza verso un carro.
«Lasciatela stare!» Alexandra urlava senza contegno, mentre lacrime amare tentavano di scendere dagli occhi.
Qualcuno li aveva traditi. Qualcuno aveva informato i nazisti che Ruth si nascondesse nella casa dei Morel.
Mentre tre uomini armati di fucile spintonavano la giovane ebrea, dalle trecce scompigliate, sino al carro, Alexandra si catapultò sul nazista rimasto indietro, quello che l’aveva bloccata e l’aveva spintonata indietro «Non ha fatto niente! Lasciatela andare!» le grida di Alexandra erano più ordini in preda al panico che semplici esortazioni.
Il soldato però, ritto nella sua armatura, non accennava a degnarla di una risposta, così iniziò a rivolgersi con i denti stretti e le lacrime agli occhi alla sua amica «Ruth!» la chiamò, tentando di avvicinarsi.
La bruna girò intimorita lo sguardo verso la giovane Morel, riscoprendosi la faccia già bagnata di lacrime. L’avrebbe richiamata a sua volta, se un fucile non avesse fatto pressione sulla sua schiena ossuta, costringendola a salire sul carro.
«Non ti lascio andare via, Ruth. Non ti lascio!» tentò disperatamente di gettarsi verso l’automobile tedesca, ma il nazista che prima la ignorava sembrò prendere improvviso interesse nei suoi confronti, stringendole forte il braccio spintonandola all’indietro, urlando chissà che cosa con un pungente dialetto tedesco.
L’aveva spinta con così tanta forza che Alexandra si ritrovò con la schiena contro il suolo umido e gelido della strada. La rabbia, l’umiliazione, il cuore a pezzi, tante cose aumentarono in quel momento. Nel suo petto c’era un misto d’emozioni così mescolate da loro da togliere il respiro, con un improvviso nodo alla gola.
Quei vermi nazisti stavano portando via la sua Ruth e Dio solo sapeva cosa ne avrebbero fatto. Il sol pensiero bastò per ucciderla.
Strinse forte i pugni, fino a far tingere le nocche di bianco, tenendo stretta nel palmo un ciottolo solitario sull’asfalto. Si rialzò con occhi sanguinanti ed iniettati di collera. Con scatto fulmineo, e la nebbia al cervello, scagliò quel sassolino dietro la schiena del nazista gridando in preda all’ira «Andate all’inferno!»
Il soldato arrestò subito i suoi passi. La mano tremava da convulsioni d’ira, tentata nel prendere la mira col suo fucile. Si girò di scatto, sbraitando qualcosa nella sua lingua, puntandole contro il becco dell’arma. Alexandra indietreggiò vistosamente impaurita, rendendosi conto della sua imprudenza.
«Schmidt!» una voce s’intromise, paralizzando all’istante il tedesco, il cui viso ancora si muoveva in maniera spaventosa, impossessato dalla rabbia.
«Voi andate ai treni, di lei mi occupo io.»
Il cuore di Alexandra perse un battito quando si accorse che l’uomo che avanzava verso di loro, impugnando un fucile, era Thomas Krüger. Slanciato e robusto, si muoveva fiero nella sua divisa da SS, arrivando ad afferrare con brutalità il braccio della giovane parigina, trascinandola dietro un vico.
Alexandra sentì le labbra paralizzarsi nel clima rigido che regnava nell’aria e le si sbatteva sulla faccia. Il suo cuore era in piena agonia, perso ed afflitto nel ricordo della sua Ruth smarrita e tremante, forse rannicchiata in cerca di calore e con gli occhi gonfi di lacrime che pregava, cercando di dare un senso a quel mondo stupido ed illogico che le stava strappando un’adolescenza non fiorita.
Thomas la strattonò con violenza, per poi rigettarla bruscamente in avanti, puntandole il fucile contro il petto. La ragazza tremava per il freddo che sentiva fin dentro le sue ossa, per la paura di non rivedere più la sua amata Ruth e la rabbia per degli uomini senza umanità nell’anima. L’idea del fucile contro il suo petto bastò per accelerarle il battito cardiaco, mentre gli occhi pieni d’ira repressa iniziarono a sanguinare lacrime, amare ed invisibili.
«Sparami.» le labbra ferite dal vento della giovane Alexandra si mossero con pungente sicurezza e con un pizzico di titubanza, mentre sul volto si erano appiccicate ciocche bionde e ribelli; gli occhi d’ambra rimanevano fissi in quelli glaciali del soldato, così pallido da far invidia alla neve che in quel momento sporcava le strade e, così rigido, da figurare un enorme torre di ferro eretta al suolo fino a sfiorare il cielo.
«Risparmiare una vita non ti renderà meno schifoso di ciò che già sei.»
L’arroganza, il viso corrugato dalla rabbia, gli occhi di fuoco che tentavano di bruciare la pelle. Alexandra era diventata un insieme di molteplici cose che isteriche, danzavano nel suo ventre e scoppiavano all’esterno, cercando di ferire quel soldato dalla mascella serrata e l’indice pronto a premere il grilletto.
Durò un breve istante. Il rumore dello sparo fu sordo alle orecchie della giovane, la pelle le era divenuta di marmo ed il cuore di cemento. Si sentì mancare in un attimo, sentendo il vuoto totale scivolarle addosso.
Thomas Krüger aveva mirato volontariamente qualche centimetro distante dal suo corpo, spostando impercettibilmente la bocca del fucile dal suo petto, sparando un colpo secco all’aria ed annullarle ogni battito cardiaco.
«Tu e la tua famiglia siete stati accusati di tradimento.» la voce aspra del soldato risuonò nella testa di Alexandra come un suono straniero, mai udito prima. L’accento tedesco rendeva ogni frase più dura, più difficile da digerire e sopportare ed in alcuni casi, anche da capire.
«Vi garantirò false identità, ma in compenso dovrete lavorare per la Germania.» il soldato non aveva ancora deposto l’arma, e se la teneva stretta tra le mani come se quella fosse l’unica sicurezza alla quale aggrapparsi.
La giovane Morel sentiva le sue parole, ma desiderava tanto non farlo.
«Il tuo nome d’ora in avanti sarà Sandra Müller. Lavorerai al mio fianco nelle SS, soddisfacendo ogni mia richiesta, dalla prima all’ultima. Perderai contatto con tutto ciò che ti è sempre sembrato familiare: amici, parenti, amanti. Da oggi la tua unica ragione di vita sarà la razza Ariana e per questo, dovrai onorarla, che ci serva del sangue ebreo o parigino.» gli occhi di Thomas erano glaciali, così freddi e spinosi da bruciare la pelle e le corde dell’anima.
Alexandra sentì il labbro inferiore tremolare, mentre a stento riuscì a reggersi in piedi con tutto il corpo. Respirò impercettibilmente, richiamando a sé quel coraggio che per un attimo le era mancato, proiettando i suoi occhi ambrati in quelli gelidi del soldato dai capelli biondo cenere, intravisti sotto il cappello della divisa «E se non volessi?»
Il nazista non si scompose, rimanendo composto nella sua divisa tedesca, rivestito d’Ariana rigidità corporea e umana «Morirai.» spiegò, come se avesse esposto il concetto più banale del mondo «Insieme alla tua famiglia.»
La sedicenne non aveva paura di morire pur di non macchiare la propria dignità, ma non era pronta a condannare ad una morte precoce le persone che le stavano più a cuore. Alexandra non poteva gettarli al rogo per il suo orgoglio da ragazzina.
Non sapeva perché quel nazista le stesse offrendo l’opportunità di salvarsi, non sapeva cosa le sarebbe accaduto da quel momento in poi, ma le bastava sapere che sua madre avrebbe continuato a ridere nel suo modo sgraziato di sempre e che suo padre, monsieur Antoine, si sarebbe lamentato ancora una volta del freddo che colpiva Parigi d’inverno.
La gola si fece incredibilmente secca e ciò che uscì dalle labbra della giovane altro non fu che un sussurro suggerito dal tumulto interiore che aveva nel cuore.
«Mi prometti che vivranno?» gli chiese, quasi supplichevole. Una francese che si prostrava ad un vile nazista, le faceva male solo a pensarci, ma era per una giusta causa.
«Non accadrà loro nulla di male se seguiranno i patti.»
L’uomo non accennò ad abbassare la guardia, quasi quella ragazza potesse ferirlo per davvero. Com’era stupido in tutta quella sua aggressività, ripensò Alexandra.
L’ancor giovane Morel inspirò l’aria ghiacciata di quel giorno maledetto, sentendo i polmoni riempirsi d’aria malata, quella che Ruth non avrebbe più respirato, quella che lei stessa non avrebbe più condiviso con la sua famiglia. Si stava vendendo ad un nazista, fedele solo a quel cane di Hitler e nemico dei suoi stessi fratelli, e lo stava facendo per amore. Lo faceva sperando di rivedere Ruth, lo stava facendo per garantire salva la vita ai suoi cari… anche se ciò volesse dire non poterli più rivedere.
 «E sia.» mormorò la giovane dagli occhi di topazio imperiale e le labbra spezzate dal vento, mentre ciocche ribelli presero a danzare lievemente col vento che s’era alzato.
Vide il fucile abbassarsi, mentre sulle labbra del soldato comparì un ghigno soddisfatto.
 
 

Alexandra venne svestita dei propri indumenti, della propria dignità e dei propri ricordi: ogni traccia francese presente nel suo corpo venne eliminata, lasciando il posto a stupide maschere naziste che tanto stonavano col bel viso sofferente della giovane Morel.
Thomas Krüger condusse la sedicenne tremante nei suoi vestiti in una stanza buia, dove vi filtrava luce solo da una finestra. Puzzava. Alexandra non si sarebbe mai dimenticata l’odore fetido che quel posto madido emanava: era come ritrovarsi nel più nero dei laghi, solo senz’acqua.
Le pareti erano fredde e la giovane Morel l’aveva capito anche solo guardandole: bianche e smorte, le ricordarono le distese innevate di Parigi, occupata dai nazisti.
Quella stanza, così simile all’oblio, era gelida, proprio come gli occhi del soldato che ritto alle sue spalle le puntava contro la schiena, fino a sentirsela perforare.
Gli occhi ambrati di Alexandra vagarono sulle pareti immacolate ed umide, rischiarate in minima parte dalla poca luce presente nella stanza.
Voci e ricordi affiorarono nella mente: Ruth. Fu lei la prima cosa che le si parò nella testa. Ne ricordò le trecce brune che odoravano di casa, avvolte nelle fievole luce della prima mattina: erano giovani lei e Ruth e sognavano un mondo fatto a colori, così come il sole dipingeva Parigi nelle caldi estati di anni addietro. La voce dell’amica era gentile e dolce e le accarezzò i pensieri così come una brezza marina avrebbe fatto con la fronte di un marinaio, con lo sguardo volto all’orizzonte.
Il rumore di una sedia trascinata verso il centro della stanza la prese di sprovvista, facendola sussultare. La giovane era così immersa nei suoi pensieri, da non accorgersi nemmeno dei passi ritmici e lenti di Thomas verso un tavolo nel fondo di quel perimetro quadrato, cupo più della notte e triste più della pioggia.
«Siediti.» la intimò il nazista, puntando con la mano callosa la sedia di legno, impolverata.
Tutto era polvere in quel posto. Alexandra ignorava completamente di che tipo di stanza si trattasse, ma la rendeva triste, come mai niente c’era riuscito in vita sua.
Obbedì a quel farabutto, obbligando mente e corpo a sottostare a quella falsa. Ogni passo era una fitta all’orgoglio, ogni ordine eseguito una macchia sulla propria dignità.
Si sedette, proprio come le era stato detto, tenendo le mani tremanti, più per la rabbia che per la paura, intrecciate tra loro tra le cosce, mantenendo una postura rigida, ostentando coraggio. Nulla l’avrebbe piegata ed anche se obbediva ai suoi ordini, non avrebbe mai condiviso quel pensiero illogico e pazzo che albergava nelle menti malate di quei tedeschi. Poteva fingere reverenza, ma per Alexandra, Thomas Krüger rimaneva una bestia per la quale si poteva provare solo disprezzo.
Sentì ancora l’uomo camminare, mentre i suoi passi continuarono a rimbombare nel suo cranio come l’allarme che udì qualche mese prima, quando rischiò di farsi cadere una bomba sul capo solo per voltarsi a guardare quel soldato dagli occhi di ghiaccio ed i capelli biondo cenere. Troppe cose cambiano in troppo poco tempo, pensò la giovane.
Sussultò nel sentirsi improvvisamente toccare i capelli: in quei momenti i suoi pensieri erano così rumorosi da rendere muto tutto ciò che la circondava.
Il nazista prese delle ciocche bionde, con eleganti e soffici boccoli, tra le mani, rigirandoseli con ciò che all’inizio apparve cura per Alexandra, finché non sentì un taglio netto alleggerire il peso della sua chioma. I boccoli dorati ricaddero su quel pavimento madido e scuro come la pece. La parigina serrò i denti, sentendo la rabbia fluire in tutto il suo sangue, arrivando sino al cervello, annebbiandole la vista.
Thomas Krüger procedette senza alcuna cura, tagliando ciocche in maniera irregolare e sgraziata, facendo ricadere al suolo quei boccoli d’oro, tanto amati dalla giovane. Ella chiuse gli occhi, cercando invano di calmarsi, convincendo la sua mente che quello fosse il modo più giusto d’agire. Strinse forte le mani in due pugni, quando l’ennesimo taglio le accorciò le chioma, ormai privata dei suoi ricci più perfetti. Tentò di pensare ad altro, sopportando quella prima tortura alla quale il nazista l’aveva sottomessa.
Serrò forte le palpebre, mentre mordendosi con veemenza il labbro inferiore costringeva le sue lacrime a non scendere sul suo volto. S’impose, un numero considerevole di volte, di pensare ad altro, dimenticarsi dei capelli che cadevano e portare la mente altrove.
Il cervello obbedì ai suoi ordini: le tornò alla memoria l’immagine di un prato verde smeraldo, illuminato dalla calda luce del sole d’Agosto. Gigli gialli venivano mossi dal lieve vento estivo, mentre snelle e giovani gambe correvano tra l’erba fresca, lasciando svolazzare al loro passaggio trecce brune e boccoli d’oro.
Una lacrima vinse sulla resistenza della sedicenne, rigandole la guancia sinistra, mentre mordendosi con più foga il labbro, Alexandra tentava di avere la meglio sui singhiozzi.
La giovane Morel sognava, quando con l’innocenza dei suoi quattordici anni si perdeva nelle righe dei romanzi provenzali, una vita condivisa con gli occhi dolci e profondi della sua adorata Ruth, così scuri da sembrare carbone e nero di seppia, ma capaci con un solo sguardo d’illuminare il volto di Alexandra, rendendolo allegro e sbarazzino.
Sognava la vita perfetta che aveva il diritto di vivere, ma che l’era stata tolta brutalmente da animali, travestiti da uomini col fucile. Così ridicoli ed insipidi nelle loro divise, tessute di vergogna ed ignoranza.
L’ultima ciocca cadde al suolo, così come l’ultima lacrima morì sul gelido e nero pavimento, prima di ferire il volto spento d’ogni sogno della ragazza dagli occhi ambrati ed il cuore spezzato.
 
Parigi, Gennaio 1946


«Mi dica a cosa ha pensato.»
La voce pacata e diplomatica del dottor Raymond scosse Alexandra dal suo stato di trance, riportandola con la mente al presente. Voltò rapida lo sguardo verso l’analista che, a gambe accavallate, se ne stava seduto su una panchina del parco, dipinto dal bianco della neve che, delicata quanto gelida aveva ricoperto intere distese di Parigi.
«Cosa?» la ventiduenne corrugò la fronte, stordita da quel brusco ritorno al presente.
L’accenno di un sorriso cortese si disegnò sul volto, sporcato da una leggera barba, dell’uomo mentre gli occhi azzurri diffondevano una tranquillità e pacatezza spaventosa «Ho parlato di gigli ed il suo sguardo è volato altrove, perdendosi in un mondo distante anni luce dal nostro: mi dica a cosa ha pensato in quel preciso istante.»
L’ambrato lucente degli occhi della giovane si fermò nell’azzurro rassicurante di Raymond, trovando inspiegabilmente il sostegno cercato: da un po’ di tempo con il suo analista succedeva così, lui riusciva a sostenerla anche stando in silenzio, offrendole solo il colore limpido dei suoi occhi.
«Ruth…»
Fu un lieve sussurro, quasi una confidenza intima fuoriuscita dalle labbra rosee di Alexandra, mentre tutt’intorno cominciava a tremare.
 

Parigi, Inverno 1940
 
Alexandra venne inserita nelle SS, guidata dalla figura autoritaria e temibile di Thomas Krüger: il fisico possente ed allenato, misto alla bianca carnagione tipica della razza di appartenenza del soldato, gli conferiva un’aria inquietante, capace di far tremare anche un muro di cemento armato e da far impallidire quella stupida svastica che aveva disegnata sulla fascia che portava al braccio.
La giovane Morel, spogliata dei suoi ricci dorati, dei suoi sogni d’adolescente, del suo nome, imparò a convivere con la realtà nazista. Apprese il modo di comportarsi nella realtà nazista, il modo di mascherare il suo disgusto per tutto ciò che vedeva, realizzava, faceva.
Krüger le mise un manganello tra le mani e la costrinse ad imparare ad usarlo: colpire forte il corpo di uomo anziano, colpevole di aver dato riparo ad un ebreo, tradendo così la propria patria e la razza Ariana.
Quel soldato era spregevole: sapeva che Alexandra, ad ogni colpo di manganello, si sentiva a pezzi, tramortita dal senso di colpa e dalla vergogna per se stessa, per quello che stava facendo.
Il suo piano sembrava quello di volerla vedere crollare, ma lentamente, piegandola con estrema cura, fino a spezzarla del tutto. Ma lei era Alexandra Morel e non una Sandra Müller qualsiasi. Lei era una parigina e non una dannata nazista e mai avrebbe ceduto alle provocazioni di quel vile a cui, augurava solo la morte.
 

«Xandra!»
La sedicenne, vestita nella sua lurida divisa da SS, si voltò verso il soldato, riservandogli un occhiata carica di rammarico e disprezzo che l’uomo non si scomodò nel calcolare. Lui, sembrava trovarci particolarmente gusto in quello stupido ed irritabile gioco di fonetica che si creava a causa del suo aspro accento tedesco: Sandra e ‘Xandra sembravano suonare allo stesso modo.
Ma la giovane Morel non apprezzava quell’ulteriore istigazione; non le divertiva affatto l’idea che quel nazista si beasse nel vederla impotente.
«Xandra, dimmi: sai per caso cosa sono ‘i villaggi’ per ebrei?» il soldato si era avvicinato alla ragazza con un ghigno disegnato sulle sue labbra ispide e pungenti, mentre occhi glaciali fecero capolinea da sotto la visiera del suo cappello.
Alexandra ignorò l’ennesima istigazione, concentrandosi sulla domanda che l’era stata posta. Corrugò la fronte, mostrando tutta la sua ignoranza. Tuttavia, non poteva non rammentare che Thomas era una nazista e come tale, nulla di tutto ciò che proveniva dalla loro mente era sano e qualificabile.
«Villaggi per ebrei?» la bionda ripeté meccanicamente quelle parole, in un sussurro tremolante, quasi temendo la risposta.
«Domani ci verrai con me.» un sorriso di compiacimento, finto quasi quanto il cuore presente nel petto di un nazista, fece capolinea sul volto del soldato, portando la giovane Morel ad uno stato di disgusto, tanto elevato da indurla al vomito.
Thomas si avvicinò, con quel suo passo sicuro e riecheggiante nei suoi scarponi, alla ragazza, annullando quasi del tutto la distanza tra i loro corpi. Alexandra indietreggiò istintivamente, fino a trasalire riscoprendosi le spalle contro il muro freddo di quella ‘stanza delle torture’: il nazista era giunto alla conclusione che alla sedicenne servissero delle vere e proprie lezioni Ariane sul combattimento contro gli ebrei, così aveva condotto Alexandra in quella stanza, sottoponendola a varie prove ‘di fedeltà ad Hitler’.
La mano ruvida e callosa si mosse lungo il profilo della parigina, in modo rozzo, seppur delicato: la giovane Morel definiva rude e disgustoso ogni cosa appartenente ad un nazista, anche il tocco più seducente ed invitante del mondo.
Presto si sentì intrappolata contro la parete ed il corpo del soldato, il quale, lo si evinceva facilmente, era molto su di giri.
Le dita di Thomas sfioravano la pelle di Alexandra, con tale maestria che ella stessa si chiese se, nel loro mondo malato, si allenassero anche per tali esercizi. Presto però, la sentì sul suo seno.
Il cuore fece una strana capovolta nel petto, battendo all’impazzata come mai in vita sua. Lo sentiva palpitare così forte che per un momento ebbe paura che il soldato se ne accorgesse; il ghigno di compiacimento sul volto di Thomas sembrò avvalorare ogni sua tesi.
Proprio quando sentì la mano del nazista stringere il suo seno, Alexandra chiuse violentemente le mani in due pugni, facendo mente locale, cercando di concentrarsi quanto più poté su ciò che l’era intorno: su un tavolo, proprio alla sua destra, c’era un manganello.
Si sentiva gli occhi di ghiaccio addosso, spogliandola col solo sguardo. Tentò di sostenere lo sguardo, con un’espressione contrariata quanto scossa, mentre con la mano destra, quatta lungo la parete, cercava di avvicinarsi al tavolo per afferrare l’oggetto.
Thomas, nel mentre, cercò di insinuare la propria mano sotto gli abiti della bionda, facendola sussultare una volta che le sue dita esperte ebbero toccato la sua pelle candida. Fu proprio in quel momento che Alexandra sudò freddo, vedendo le labbra sottili dell’uomo avventarsi sulla sua bocca.
Sembrò volerla divorare, mangiarsela a morsi. La bionda non aveva mai baciato nessuno prima d’allora, tutto l’era nuovo. Era disgustata dalla rudezza dei suoi gesti, eppure il cuore continuava a palpitarle in modo strano nel petto, mischiando il ribrezzo con un’insolita ed illogica adrenalina.
Il nazista fece pressione sul corpo della giovane, bloccandola contro la parete, mentre i baci aumentavano di foga e le mani si allungavano verso zone proibite. La giovane, soffocata da tutta quella passione a cui una parte di lei voleva cedere, cercava ancora con la mano destra il manganello, trovandolo solo quando Thomas cercò d’inserire la lingua nel suo palato.
Il soldato cercò di insinuarsi con la lingua nel suo palato, mentre con le mani le massaggiava la pelle fredda, quando d’improvviso si sentì colpire violentemente il capo.
Alexandra vide il nazista indietreggiare, portandosi una mano sul punto offeso e l’altra a prendere il fucile; glielo puntò sulla fronte, facendo paralizzare all’istante la bionda. Stava tremando, ma decise che il suo sguardo dovesse continuare ad essere inespugnabile: quel tedesco si era comportato in maniera disdicevole con lei e la giovane non aveva intenzione di pentirsi per ciò che aveva fatto.
L’altro la guardava con un misto di rabbia per il gesto subito e meraviglia, per quella sua ribellione. Alexandra non era una ragazzina mansueta, obbediente e, se da una parte ciò gli rendeva il tutto più complicato, da un’altra lo intrigava anche.
Il silenzio regnò tra i due, mentre con gli occhi tentavano entrambi di sfidarsi, resistendo l’uno all’altra, senza mostrare alcun accenno di cedimento.
Il nazista lasciò incurvare un angolo della bocca in un mezzo sorriso, abbassando l’arma, facendo scorrere la canna del fucile contro la guancia di lei, come ennesima provocazione.
«Hai una lingua troppo delicata.» Thomas ripose l’arma, continuando a guardare con sguardo languido la platinata «Dovremmo lavorarci su.»
Quel tedesco, pensò Alexandra, era il mago del doppio senso e dei giochi di parole. Era così bravo da farla impazzire, provocandole convulsioni di rabbia alle mani «Io odio il tedesco.» ribatté lei, con uno sguardo accigliato.
Il soldato scrollò le spalle «Dovrai fartelo piacere, allora.»
Lei rise stizzita della sua risposta, così baldanzosa e quasi confidenziale da farla parlare senza neanche volerlo «Quali dei due?» chiese, pietrificandosi un attimo dopo, rendendosi conto di aver dato voce ai suoi pensieri.
Thomas parve compiacersi di quella sfacciataggine dimostratagli dalla bionda: non avere tutto sotto controllo, a volte, rendeva il tutto più eccitante.
«Entrambi.» le rispose di rimando, sollevando le sopracciglia alludendo ad un esercizio linguistico tutto a suo modo.
 
 
*

 
Alexandra comprese presto che ‘i villaggi per ebrei’ non erano luoghi allegri ed armoniosi. Quando vi ci arrivò, accompagnata da Thomas e da altri nazisti, era una gelida mattinata di dicembre, ma il freddo che si avvertiva in quel posto era un altro tipo di gelo: c’erano piccole casette, senza imposte alle finestre e senza vetri, a circondare uno spiazzale triste e deserto. L’aria puzzava di vuoto, una sensazione che attanagliava lo stomaco e lo chiudeva all’istante.
Più in là c’erano dei tedeschi, armati di fucili ed altri di manganelli, a guidare un gruppo gracile di persone con una divisa a righe. Erano uomini tra i venti ed i quarant’anni, anche se tutti ne mostravano minimo sessanta: camminavano sulle loro ossa, senza scarpe ai piedi i quali erano sanguinanti e neri come il carbone. I loro volti erano così scarni, da far invidia ad uno scheletro, mentre il capo era privo di capelli.
La giovane Morel scese dal carro nazista, affiancata da alcuni tedeschi, mentre vestita della sua divisa da SS reggeva con la mano destra il suo manganello. Se li vide passare affianco, mentre sfiniti portavano dei grossi pesi verso un portone di legno spalancato, dall’altra parte dello spiazzale.
Alexandra vide i loro sguardi afflitti, imploranti. Quegli occhi neri che chiedevano perdono, altri che avevano già perso la speranza; in tanti continuavano a chiedersi cosa avessero mai fatto di male per meritare tutto quel male, altri smisero di chiederselo subendo i crampi della fame e della stanchezza.
«Abbiamo anche esemplari donna.» il sussurro di Thomas al suo orecchio la fece rabbrividire, costringendola a deglutire a vuoto un misto di emozioni troppi grandi e devastanti da poter spiegare.
 
*
 
Fu condotta nello scomparto dedicato interamente alle detenute ebree: vi erano donne, dalle più giovani alle più mature, vestite solo della sottile stoffa di quella divisa a righe e magre più di un filo di grano. L’igiene era pessima, proprio come le condizioni nelle quali loro stesse riversavano.
Vi erano anche sedicenni, ma Morel non le avrebbe mai riconosciute; Alexandra era sempre sembrata più grande della sua età per via della maturità che mostrava in volto, ma quelle donne erano segnate da altro…
Tutte s’irrigidirono al suo arrivo, saltando giù dalle brande madide e sudice incastonate tra loro.
Davvero mostrate tutto questo rispetto per una divisa che merita solo fuoco? La bionda cercò di abituare i suoi occhi a quella visione, anche se non fu per nulla semplice.
Gli sguardi di quelle donne, così innocenti e così indifese, tremavano, più di quanto i loro corpi già non facessero. Sembravano tante foglie d’autunno, mosse dal vento che violento le schiodava dai loro rami.
Davvero fremete dinanzi a me, una semplice sedicenne con in mano un manganello, ma col vostro stesso corpo, i vostri stessi occhi, le vostre stesse mani… Davvero vi reco tanto terrore?
Una sola si mosse dal gruppo: era piccolissima, forse a stento una dodicenne. Aveva ancora il capo ricoperto di capelli bruni, anche se il viso rimaneva scarno come le altre e gli occhi erano liquidi ed imploranti «Abbiamo fame.» le disse, andandole incontro.
“Alex… voglio invecchiare con te.” Ruth parlò piano, con la testa poggiata sulla sua spalla, mentre il sole d’Agosto batteva forte su Parigi e sulla chioma di quell’albero.
Alexandra sbarrò visibilmente gli occhi, proiettando le sue iridi ambrate sulla figura di quella ragazzina ebrea dal viso scarno e la chioma bruna.
“Certo che invecchieremo insieme!” la bionda abbandonò la lettura per concentrarsi al meglio sullo sguardo dolce e sincero della sua amica, così bella nella sua innocenza. Le prese la mano, portandosela tra le sue, per poi stringergliela forte “Noi saremo amiche per sempre, Ruth.”
«Ruth…» soffiò piano la platinata, mentre allarmata una delle ebree si tirò a sé la ragazzina, rimproverandola. Molto probabilmente aveva provato a nasconderla… fino a quel momento.
«Ruth.» insistette la parigina, avvinandosi di qualche passo.
«Was machst du denn da, schmutzige Jude?»
Una terza voce, molto più aspra e più austera, s’intromise tra Alexandra e la giovane ebrea, paralizzando all’istante tutte le donne.
Una tedesca robusta, capelli color limone e occhi scuri, puntò severa lo sguardo sulla giovane, correndo da lei, per strattonarla e portarla con sé, a forza.
Quella che Alexandra identificò come la madre, si catapultò sulla piccola, cercando di strapparla dalle mani della tedesca, urlando scongiuri con tutto il fiato che aveva in gola.
La donna venne spintonata dalla nazista sul pavimento, con tale foga, che si sentirono scricchiolare le sue ossa gracili contro il suolo. Era così denutrita che le ci volle l’aiuto di più ebree per riuscire a rialzarsi. Avrebbe ritentato, se Alexandra non l’avesse anticipata.
 «Cos’ha fatto di male? E’ solo una bambina!» la giovane Morel si avvicinò alla nazista, tentando d’imitare malamente un accento tedesco.
L’altra la fulminò con lo sguardo, ammutolendola con le sue iridi buie come la notte e fredde come il ghiaccio «E’ un’ebrea!» sputò fuori, ringhiando quasi.
«Dove la porti?» insistette Alexandra, fermando la tedesca per un braccio. Quest’ultima la guardò in malo modo, notando uno strano accento nella sua voce «Dovresti saperlo.»
 
Gli ultimi ricordi che Alexandra conservò di quel giorno, erano un susseguirsi di scene sfocate che la sua stessa mente aveva rimosso, tanto l’erano parse brutali ai suoi occhi.
 

Parigi, Marzo 1946

Si rigirò smaniosa nel suo letto, mentre il sudore le imperlava la fronte. Il respiro divenne affannoso, la gola ostruita da un nodo. Di scatto aprì gli occhi, sollevandosi col capo dal letto.
«Thomas!» urlò, mentre il petto si abbassava e si rialzava con ritmo impazzito.
Bastò qualche minuto per realizzare che si trattasse di uno dei suoi soliti incubi. Scese immediata dal suo letto, raccattando alla meglio i primi vestiti che le si paravano dinanzi agli occhi.
Quella situazione, aveva deciso, non andava più bene.
 
*
 
L’uomo sentì bussare alla sua porta nel cuore della notte, così si alzò dal suo letto prendendo gli occhiali e ricoprendosi con una vestaglia.
«Madamoiselle Alexandra… cosa ci fa qui a quest’ora?» il dottor Pruvost aprì la porta di casa sua, trovandosi dinanzi agli occhi un’esasperata Alexandra Morel.
«L’ho sognato ancora!» disse tra le lacrime, avanzando da sola nella casa dell’uomo, portandosi le mani a sorreggersi la testa «Lo sogno ogni notte, non ce la faccio più! Mi aiuti dottore… io non voglio più ricordare!»
Raymond, che fino ad un attimo prima era ancora preda del sonno, si scosse immediato, puntando tutta la sua attenzione su quella ragazza disperata, che urlava tra le lacrime.
«Si calmi e mi spieghi tutto.» cercò di calmarla, poggiandole entrambe le mani sulle spalle.
«Non voglio spiegare! Non voglio ricordare, voglio solo che finisca!»
L’analista addolcì lo sguardo, cercando quella della donna pieno di lacrime, prima di carezzarle un braccio per darle conforto «Ne verremo fuori, glielo assicuro. Ma prima deve raccontarmi tutto.»
La giovane sembrò calmarsi col tocco gentile e paziente di Raymond, trovando l’equilibrio necessario dietro il vetro degli occhiali del dottor Pruvost.
Smise di singhiozzare e disperarsi, limitandosi ad asserire col capo alla proposta dell’uomo.
 


Campo di concentramento, anni 1940/41
 
Alexandra imparò a convivere con la realtà insana del nazismo, ma se non altro, imparò anche a notare lati segreti del soldato Thomas Kruger.
L’aveva aiutata a salvare quella bambina ebrea, sorprendendola, per la prima volta dopo quella lunga storia, in positivo.
Iniziò a domandarsi del perché l’avesse fatto: perché non aveva lasciato morire quella bambina? Ma soprattutto, perché non l’aveva uccisa quando ne aveva l’opportunità?
La bionda si accorse del suo modo di tenere nelle mani un fucile: non aveva mai visto Thomas uccidere un ebreo, neanche sott’ordine. Fingeva di aver terminato le selezioni senza neanche scegliere il numero restante di ebrei che doveva consegnare per la fucilazione, volendo sempre Alexandra al suo fianco e nessun altro.
«Perché non mi hai mai uccisa?» Alexandra trovò il coraggio di porre quella domanda al soldato, in un giorno di pioggia, freddo e vuoto come tanti altri.
«Perché sei una donna.» fu la risposta che ricevette.
«Ma… avevo tradito la Germania.» continuò lei, restandogli a fianco, mentre si dirigevano ‘alla selezione’.
«Rimanevi comunque una donna.»
 

Ma tutto cambiò, quando Alexandra rivelò a Thomas di Ruth, del modo in cui le mancasse, di quanto soffrisse sapendola chissà dove, a volte, dubitando anche che fosse ancora viva.
Il soldato non le parlò, rimase in silenzio ad ascoltare le sue parole, per poi liquidarsi per a svolgere il proprio dovere.
La giovane Morel si sentì sconfortata e stupida: si era confidata con la persona sbagliata sull’argomento sbagliato.


«Tenterò di rintracciare la tua Ruth.» Thomas esordì un giorno, mentre si ritrovarono soli negli scompartimenti femminili.
Alexandra rimase interdetta per qualche istante, poi delle lacrime scesero dal suo volto. Fu proprio quel giorno che, seguendo l’istinto, la giovane Morel si donò al nazista, che di nazista non aveva proprio nulla se non la divisa.
Quella volta, la mano callosa del soldato sul suo seno, le sembrò meno rozza e meno volgare. I baci, che le stampò lungo l’incavo del collo, furono eccitanti e non disgustosi.
Si spogliarono dapprima con fremente passione, poi… scivolando nella dolcezza. Le loro mani era gelide ed i loro corpi sussultarono entrambi ai rispettivi tocchi.
Si divorarono con baci infiniti, in cui le loro lingue presero ad intrecciarsi, dapprima goffamente poi, sempre con più foga e gusto.
L’apice del piacere però, lo raggiunsero quando i loro corpi si unirono. Alexandra sentì un lieve dolore, poi solo il suo soldato dentro di sé. Gli tenne il viso tra il suo seno, mentre arrivata allo stremo gli circondò il capo con le sue braccia, tenendosi stretta a lui.
Fu in quell’attimo che, stretti l’uno nell’altra si dissero un sussurrato ‘ti amo’, tra le lacrime innocenti di Alexandra e il respiro affannoso di Thomas.
 
Tutto, si spezzò qualche mese dopo.
Thomas si mise alla ricerca di Ruth, chiedendo lo spostamento in diversi campi di concentramento. Alexandra lo vide partire con la sicurezza che l’aveva sempre caratterizzato ed un sorriso baldanzoso ad irradiare tutto il suo viso.

Aspettò per mesi sue notizie, sognando ogni notte la fine di quella guerra malata e illogica, insieme a quei suoi occhi glaciali che portavano solo calore nel cuore della giovane.
Se lo immaginò nel freddo della notte al suo fianco, credendo ancora di poter udire il suo fiato sul collo. Si passava la mano contro il ventre, sentendo ancora la pressione di lui sul suo corpo.
Thomas, anche se distante, le era sempre accanto.
C’era quando rubava da mangiare nelle mense naziste per offrirlo ai detenuti, prigionieri di quel campo di concentramento. C’era quando aiutava un anziano a rialzarsi, cercando di non farsi vedere dai soldati. C’era, quando nei momenti di solitudine, la tristezza l’assaliva ed il viso di Ruth le tornava alla memoria.
Non sapeva se la sua amica era ancora viva, ma sapeva quanto Thomas rischiasse per quella sua decisione. Ad ogni modo, ogni notte, congiungeva tra loro le mani, recitando sottovoce delle preghiere in francese, sperando che almeno Dio l’ascoltasse in quel delirio di mondo. Pregava per la fine della guerra, pregava per tutti gli ebrei del mondo, pregava per i suoi genitori, dei quali aveva perso ogni traccia, ma soprattutto pregava per il suo Thomas e la sua Ruth.


I giorni passarono, le notti scivolarono via come pioggia sui vetri, ma Thomas e Ruth non fecero mai ritorno.


Nel 1945 tutti i campi di concentramento furono bruciati, mentre la Germania decadde per mano degli Americani ed i Russi.
Alexandra cercò disperatamente notizie dei suoi genitori, spiegando ad ogni soldato americano la sua storia. Suo padre, purtroppo, morì per infarto nella primavera 1942, mentre sua madre riuscì a salvarsi.
Ritornarono a Parigi, dove mille detriti facevano da sfondo a ciò che un tempo era stata la città più soleggiata e speranzosa che il mondo avesse mai conosciuto.
Quanto a Thomas e Ruth, solo Dio seppe cosa ne fu di loro.
Il cuore della giovane Morel visse paralizzato nell’orrore del nazismo e nella rabbia di mille sogni gettati a vento. Lei, che sognava così tanto di essere la madre dei figli di quel soldato dagli occhi di ghiaccio e i capelli biondo cenere, lei, che desiderava invecchiare con la sua Ruth. Non aveva ancora fatto i conti con Parigi, perché Parigi non perdona.
Alexandra si rinchiuse in un dolore tutto suo, rifiutando di mangiare e talvolta anche di alzarsi dal letto. Preferiva restare lì, dove chiudendo gli occhi, poteva ancora rivedere il volto delle persone che tanto aveva amato. Quelle due persone che la rendevano completa, quelle due persone che l’erano state tolte da una guerra senza ragioni e senza pietà.
Sua madre, vedendola così affranta, decise dunque di portarla in visita da un dottore degno di nota, del quale molte donne, con gli stessi problemi, avevano parlato benissimo. Fu così, che Alexandra divenne la paziente del dottor Raymond Pruvost, colui che la spinse a viaggiare lontano, in America, dove riuscì a rifarsi una vita.

Parigi, 1964


«E’ arrivata una lettera per lei, dottor Pruvost.»
Raymond alzò gli occhi dalla scrivania del suo studio, puntandoli sulla figura slanciata della sua segretaria. Asserì col capo, facendole cenno di entrare, per poi spiegare la mano e prendere la lettera consegnatagli dalla donna.
Se la rigirò tra le mani, una volta che la segretaria fu uscita, leggendone l’emittente: Alexandra Morel.
Quel solo nome seppe riaprire nell’analista una serie sconfinata di ricordi, di vecchi tempi andati, di un lontano dopoguerra che, sinceramente, non mancava proprio a nessuno, neanche a lui.
Lasciò comunque che le sue labbra sottili s’incurvassero in un nostalgico sorriso, rimembrando il viso combattivo di quella giovane francese a cui tanto, in segreto, si era affezionato.
Aprì la lettera, con estrema cura, ritrovandosi dinanzi una calligrafia elegante e lineare, senza neanche qualche scarabocchio: a quanto pare, la donna era riuscita a trovare la sua stabilità senza mai avere un ripensamento.
Si schiarì la voce, iniziando a leggere quelle righe nere, su un foglio bianco.

Caro Dottor Pruvost,
spero proprio che lei non si sia dimenticato di me, ma se non fosse così le risparmio futili sforzi di memoria: mi chiamo Alexandra Morel ed ero una sua paziente nel lontano 1946.
Ecco vede… devo confessarle che il primo giorno che fui costretta a vederla la odiavo con tutto il mio cuore. Sì, sono sincera, la odiavo sul serio! Lei aveva un’aria così sicura di sé, così professionale da farmi irritare: vede, ho sempre odiato quelle persone sofiste che credono di sapere tutto della vita, soprattutto di quella degli altri. Ma… sono contenta di essermi sbagliata, anche su questo.
Lei è stato una guida fantastica ed un uomo meraviglioso. Credo che adesso, dopo quasi vent’anni, lei abbia fatto molta strada, il suo talento me l’ha confermato.
Ad ogni modo, non era solo per elogiarla che la scrivo, ma ci tenevo a farle presente che sì, sono guarita.
L’America è un posto meraviglioso, la seconda opportunità che tutti cercando nella vita, ma Parigi mi è rimasta sempre impressa nel cuore.
Ero giovane e ferita quando le dissi che Parigi non perdona, ma vede… ero convinta di una cosa: la guerra non uccide solo i morti, le sue vittime erano i vivi, quelli che restavano. Ti ruba tutta la felicità e tutti i sogni di una vita, costringendoti ad arrenderti e crollare verso il basso.
Lei mi aveva detto che la cura migliore per me era ricordare… mi creda, non sa nemmeno quante volte io l’abbia maledetto per questo! Ero convinta che lei mirasse solo a farmi soffrire, così come quattro anni addietro mi fece soffrire molta gente. Ma come sempre, io mi sbagliavo e lei aveva ragione: la mia unica cura era ricordare, ricordare ciò che la vita mi aveva regalato anche nei momenti più bui. Perché, se sono riuscita a sopravvivere è anche grazie a molti di questi ricordi.
La guerra ti può togliere molto, ma non può rubarti ciò che è tuo di diritto: non può toglierti dalla mente il viso della persona che ami, non può farti dimenticare tutto l’amore che conservi dentro e che ti spinge ad andare avanti, anche quando tutto intorno sembra andare in pezzi.
Ora sono sposata. Lui è un uomo magnifico. Fa l’avvocato ed è un padre meraviglioso.
Thomas e Ruth, i nostri due bambini, sono davvero adorabili. Certo, litigano spesso, a volte mi spingono fino all’esasperazione, ma non li cambierei per nulla al mondo.
Ruth è una bambina dolcissima, dagli occhi color cioccolato ed infiniti boccoli bruni. Ogni mattina, prima di scuola, le lego i suoi lunghi capelli in due trecce, mentre la notte le rileggo le storie di Chrétien de Troyes.
Thomas è un piccolo ometto, tutto suo padre… è vispo e birbante, ma ha un cuore d’oro e donerebbe la sua stessa anima ad un gattino malato, solo se potesse.
Ho promesso ad entrambi di far visita a Parigi il più presto possibile.
Loro non sanno cosa si cela dietro i nomi che portano, forse un giorno troverò il coraggio di dir loro che, dietro quei racconti di mezz’estate al chiaro delle stelle, si nascondono le trecce brune di un’ebrea dal viso scarno e dai gesti dolci, e i capelli biondo cenere d’un soldato dallo sguardo glaciale ed il cuore d’Agosto.
Grazie per tutto,
 
 
 
 
Sua Alexandra.
 
 
 
** Angolo Autrice**
Salve, grazie a chiunque sia arrivato fino a qui, soprattutto perchè vuol dire che la storia vi è piaciuta.
Sono molto legata a questa storia e ci tengo che, sia in modo positivo che negativo (se volete) mi lasciate il vostro pensiero, mi farebbe davvero piacere.
Ad ogni modo, grazie comunque.
 
   
 
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