Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: crushdizzies    21/03/2015    1 recensioni
Mi aveva vista andare avanti come se fossi fatta di pietra e ora, davanti a quest’esitazione davanti al portone della chiesa, gli occhi lucidi di Jacke si riempiono di speranze: forse crollerò e finalmente esternerò il mio dolore. Io lo farei, piangerei, urlerei, se potessi, se sentissi qualcosa. Ma sono vuota, sola. Una rosa in uno sterminato prato d’erba. Non ho più niente. Cos’è il dolore? E la felicità? La paura?
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
CAILFORNIA 1 «Sappi che se esci da quella porta non entrerai mai più!», urla mia madre.
«Bene, dormirò in macchina!», le rispondo.
«Portati dietro le tue sigarette, non ce le voglio in casa mia, drogata!», strilla lanciandomi le sigarette attraverso la porta. Poi la sbatte. Resto immobile a guardarne il legno. I miei occhi si riempiono di lacrime di rabbia e dolore. Raccolgo le sigarette e mi incammino verso il parco. Accendo una sigaretta, cercando di non piangere. Ma è difficile. È sempre difficile dopo i litigi con mia madre. Tutto è difficile con lei. Sembra non capirmi, è chiusa nel suo guscio protettivo e non tenta neanche di comprendermi. Da quando mio padre poliziotto è morto durante un’azione, le cose sono peggiorate. I soldi hanno cominciato a scarseggiare, le liti sono aumentate e ci siamo allontanate sempre di più. I bei pomeriggi passati insieme al parco sembrano ormai ricordi remoti, appartenuti quasi ad una vita precedente. E invece, sono passati solo due anni dalla morte di mio padre. Una vita può davvero cambiare così tanto, in soli due anni? Una persona può cambiare tanto in due anni da essere odiata persino dalla propria madre? A me è successo. Dopo la morte di mio padre, ho cominciato a fumare, mi sono fatta un tatuaggio e due piercing, ma, soprattutto, sono cambiata dentro. Sono cresciuta. Non sono più la piccola e dolce Elizabeth che tutti ricordavano. Ora sono solo Liz. La solitaria Liz. Anche se, a dire il vero, non sono proprio solitaria. Ho un sacco di amiche che mi conoscono da una vita, ma non sono molto aperta con loro. Non lo sono mai con nessuno. Quasi con nessuno. C’è solo una persona a cui potrei dire tutto. Si chiama Virginia Jackson, ma la chiamo Jacke e ha tre anni più di me. Ci troviamo quasi tutti i pomeriggi al parco, sulla panchina sotto la quercia. Lei è la mia unica valvola di sfogo, l’unica in grado di capirmi e di giudicarmi senza basarsi su pregiudizi o stereotipi.
È iniziato tutto per caso, in un pomeriggio come questo. Ci eravamo incontrate su quella stessa panca e io piangevo. Piangevo per tante cose diverse. Piangevo per le liti con mia madre, piangevo per la scuola, piangevo perché le mie amiche fraintendevano tutto quello che dicevo o facevo. Lei mi aveva trovata così, mi aveva raccolta come un fiore, mi aveva ascoltata, mi aveva guarita e mi aveva sorriso. È stato in quel momento che mi sono innamorata di lei. Jacke è tutto quello di cui ho bisogno ma che non posso avere senza rischiare di rovinare la nostra amicizia. Lei è come me, condividiamo tanto. Come me Jacke ha perso il padre e fuma. Jacke sembra l’unica in grado di comprendermi, di capire quando parlare e quando stare zitta. Sembra l’unica a tenere davvero a me.
È solo un mese che ci conosciamo, ma lei c’è sempre quando ho bisogno di lei. Mi sorride, mi abbraccia, ride. Sta bene con me e mi fa sentire protetta, compresa, accettata. Come fare a non amarla?
Entro nel parco e mi fermo all’inizio del sentiero che porta alla quercia sotto la quale è seduta Jacke. Il mio cuore impazzisce. È talmente bella.
“Sei sicura di amarla?”, era quello che mi aveva chiesto la psicologa della scuola, l’unica volta che avevo deciso di andarci, il giorno dopo aver conosciuto Jacke.
“Certo”, avevo risposto con ingenua sicurezza.
“Come fai ad esserne certa?”, aveva chiesto in risposta la psicologa.
“Certe cose si sentono e basta”, avevo risposto con aria sognante. La psicologa aveva sorriso.
“Cerca solo di non essere avventata e di non rovinare quella che potrebbe essere una bella amicizia”, mi aveva consigliato.
Mi incammino verso Jacke e butto il mozzicone della sigaretta sulla ghiaia del sentiero. Lei mi sorride non appena mi vede, facendo aumentare vertiginosamente i battiti del mio cuore. Dio, quanto mi piace!
Mi siedo accanto a lei. Jacke mi sfiora sopra lo zigomo con un dito. Io trattengo il fiato e arrossisco.
«Hai due occhiaie…», commenta Jacke. Io sorrido timidamente.
« Come è andata oggi?», mi chiede con aria un po’ malinconica. Io faccio spallucce.
« Ho litigato con mia madre. Come al solito. Stavolta mi ha buttata fuori di casa >>, racconto. Lei abbassa lo sguardo e per un po’ c’è silenzio. Poi alza lo sguardo, gli occhi che luccicano.
« Puoi venire a stare da me, sempre se vuoi», propone. Io arrossisco di nuovo. Dio, sarebbe troppo imbarazzante.
« Non diceva sul serio», mento. Lei abbassa lo sguardo e vedo l’eccitazione svanire dai suoi occhi.
« Oh », mormora. È tutto così strano ed eccitante al tempo stesso con lei. Non c’è bisogno per forza di riempire tutte le pause che si creano, non c’è bisogno di dire sempre qualcosa.
« Vuoi una sigaretta? », le chiedo. Lei sorride.
« Sì grazie ». Gliela porgo e gliela accendo. Appoggia la schiena alla quercia e comincia a fumare.
« Sai, ti invidio », le dico. Lei ride, il fumo che esce in tante nuvolette rapide fuori dalla bocca.
« Perché? », le sembra così strano.
« Tu e tua madre non vorreste uccidervi a vicenda », le faccio notare.
« Tu e tua madre non vi uccidereste! », esclama puntando i suoi occhi castani nei miei, neri.
« Hai capito cosa intendo! », ribatto. Lei non risponde subito, si prende qualche minuto per riflettere e, nel frattempo, io la osservo, studiando i suoi lineamenti, il profilo del suo volto, le sue guance rosee, le labbra non troppo carnose, le ciglia scure e i capelli portati dietro le orecchie.
« C’è sempre stato un rapporto splendido fra me e mia madre e, dopo la morte di mio padre ci siamo aiutate a vicenda », spiega Jacke, lo sguardo lontano. Non le piace parlare di suo padre.
« Non capisco invece dove tu e tua madre abbiate sbagliato », dice. Si siede sulla panca a gambe incrociate, rivolta verso di me.
« Siamo troppo diverse. E poi lei mi odia », dico. Lei sembra meravigliata.
« Come puoi dire questo? », esclama.
« Mi da della drogata, non cerca mai di capire come sto! », dico.
« Forse ha solo un modo diverso di manifestarti il suo amore e le sue preoccupazioni. Hai mai provato a parlarle? », chiede.
« Certo. Ma finisce sempre con l’urlarmi contro. E poi… non sono molto estroversa », dico.
« Eppure con me sembri estroversa », replica.
« Con te è diverso », ribatto di getto. Lei resta interdetta. Abbasso lo sguardo.
« Perché? », chiede.
Perché mi piaci da morire, sarebbe la risposta.
« Perché tu mi capisci », dico invece.
« Anche tua madre potrebbe capirti », insiste Jacke. Comincio ad innervosirmi e lei lo capisce.
« Scusa », mormora spegnendo la sigaretta contro lo schienale della panchina.
« Non devi scusarti. So che sbaglio, ma è difficile », mormoro con gli occhi che mi si riempiono di lacrime.
« Mi dispiace », ripete Jacke alla vista delle lacrime. Non capita spesso che io ceda davanti a qualcuno, specialmente a lei.
« No, no… è tutto ok », assicuro spazzando via le lacrime con il dorso della mano. Jacke si avvicina un po’. Vorrebbe abbracciarmi ma non posso, non ce la potrei fare a resistere se sentissi il suo odore da vicino.
« Sicura? », chiede premurosa. Annuisco, anche se non è vero.
Continuiamo a parlare per tutto il pomeriggio, finché non ci accorgiamo che è ormai calata la sera.
« Si è fatto tardi… vuoi che ti riporti a casa? », propone Jacke. Annuisco e lei mi accompagna alla sua macchina. Le indico la strada verso casa mia. Quando parcheggia di fronte al mio condominio, il cuore mi si ferma. Guardo Jacke e lei mi sorride incoraggiante.
« Dai, tentar non nuoce. Al massimo ti vengo a prendere e andiamo… non lo so, da qualche parte », dice lei. Resta a guardarmi finché non scendo e non entro nell’ingresso. Poi i fari dell’auto si riaccendono e la macchina scompare dietro l’angolo. Io esco dal condominio ed entro in quella che sarebbe stata la mia macchina, una volta presa la patente. Mi sdraio sui sedili e chiudo gli occhi, scoppiando a piangere.

Controllo l’orologio. Sono le quattro meno cinque.
« Ragazze, io vado », saluto le mie amiche. Loro mi guardano sbalordite.
« Ma siamo appena arrivate! », protestano all’unisono.
« Lo so, devo andare », ribatto.
« Mi piacerebbe sapere dove vai tutti i pomeriggi », si chiede una delle ragazze. Arrossisco. Loro non sanno dei miei pomeriggi con Jacke, del mio malessere, dei litigi con mia madre, che dormo in macchina. Non sanno niente di me.
« Sì, ora vado », taglio corto. Corro praticamente via. Non voglio che Jacke debba aspettarmi.
« Scusa per il ritardo », dico sedendomi accanto a lei. Lei sorride.
E così passano altre due settimane in cui dormo in macchina ed entro in casa mia solo quando mia madre è al lavoro, cioè per la colazione e il pranzo. Poi, per l’ora di cena lei torna e io sono costretta a ritirarmi nella Fuego di mio padre, cenare e dormire lì, al freddo, al buio, da sola. Non ho il coraggio di affrontare mia madre. Esploderebbe tutto. Ogni cosa è già in precario equilibrio e un minimo soffio di vento basterebbe a far crollare questo castello di carte che è il nostro rapporto. Figurarsi una tempesta. Lo spazzerebbe completamente via. Jacke crede che io abbia cercato di parlarle, ma non è vero. Ogni giorno che passa io e mia madre ci allontaniamo sempre di più, senza nemmeno scambiarci una parola, senza nemmeno guardarci, senza nemmeno vivere sotto lo stesso tetto. Siamo meno che estranee. Eppure io sono sangue del suo sangue, sono rimasta dentro di lei per otto mesi e mezzo, ho bevuto dalle sue tette ed è stata il centro del mio infantile universo.
Ma lei sembra aver dimenticato tutto questo. A lei non importa niente di me, di quello che mi accadrà. A nessuno importa di me. A nessuno importa se sto veramente bene.
A nessuno tranne Jacke. È l’unica che cerca di andare oltre la facciata di ragazza felice che creo per proteggermi. È l’unica che ci riesce. Ogni giorno che passa sento di amarla sempre di più, sento sempre di più il desiderio pressante di farla mia. Vorrei che anche lei pensasse a me come io penso a lei. Vorrei che anche lei mi guardasse con aria sognante come la osservo io. Ma nulla di tutto ciò è realtà. Jacke non ricambia i miei sentimenti. Sono solo una ragazzina a cui si è affezionata, un’amica un po’ speciale. Ma non voglio il suo affetto.
Tutta questa confusione e tutto questo dolore provocato dal mio amore per Jacke va a sommarsi a quello provocato da mia madre. L’unico rimedio possibile sono le sigarette e le bottiglie di Vodka. Solo loro riescono a impedirmi di pensare, ad annullare completamente la mia mente e di provare sentimenti troppo forti, almeno per un po’. Ma ben presto anche quelle finiscono e il dolore esplode al massimo della sua potenza e io posso solo sopportare e sperare che finisca presto. Ma non c’è fine al dolore.
A scuola vedo Jacke e mi rendo contro che non potrà mai essere mia. A casa non posso tornarci se c’è mia madre, mia madre che dovrebbe supportarmi e confortarmi sempre e comunque, lei che dovrebbe essere la mia spalla su cui piangere, lei che dovrebbe essere tutto per me, è la mia principale causa di dolore.
Non credo che riuscirò ad andare avanti ancora in questo modo, vivendo da clandestina in casa mia.



  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: crushdizzies