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Autore: Alice_and_Lolly    22/03/2015    3 recensioni
Dentro quelle silenti mura, in quella città di pietra di nome East City, tutto era immobile, tranne qualcosa. Figure ammantate scivolavano veloci per le strade ormai deserte e buie. Riuscivano ad orientarsi alla perfezione, svelti e furtive. Se qualcuno le avesse viste le avrebbe scambiate per scure sagome del Diavolo. Quello che stavano per fare era di certo un’accusa in più nei loro confronti. Erano due giovani uomini, che si nascondevano nella notte, cercando di evitare di fare il benché minimo rumore. Se qualcuno li avesse visti sarebbe stato un problema, un problema davvero enorme per loro. Sapevano che stavano correndo dei rischi, in gioco c’era la loro vita, tuttavia non potevano fermarsi. La causa a cui si erano votati era essenziale, forse più importante della loro stessa vita.
Edward Elric, il maggiore dei due fratelli, ne era fermamente convinto. La scienza non poteva essere fermata.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Riza Hawkeye, Roy Mustang, Winry Rockbell | Coppie: Edward/Winry, Roy/Riza
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo 6

Riza Hawkeye era intrappolata in quella cella. Non aveva alcuna idea di quanto tempo fosse passato. Poteva pensare che fosse circa una settimana, eppure non ne era sicura. I pasti non le venivano sempre portati, sempre che quel pastone immangiabile potesse essere considerato cibo. Le ricordava molto quello che veniva dato ai porci e alle galline, eppure non faceva alcuna fatica a finire la ciotola ogni volta in pochissimo tempo: era affamata e abituata a nutrirsi di quello che trovava. Qualsiasi cosa per lei aveva un buon sapore, quando sentiva lo stomaco contrarsi per ore e ore in cerca di sostanze nutritive.

La cosa positiva era che nessuno veniva a disturbarla. All’inizio aveva temuto le torture, aveva pregato l’Altissimo di darle la forza della sopportazione, ma non ce ne era stato bisogno: non aveva visto nessun boia, nessuno l’aveva mai spostata da quella cella stretta, umida e buia, tanto che la paura che si stava insinuando in lei, poco a poco divenne un’altra, ovvero quella che prima o poi l’avrebbero dimenticata e lei sarebbe morta di fame e di sete, trascurata da tutti, senza aver diritto a nessuno sepoltura.

Aveva il terrore che persino Roy Mustang si scordasse di lei… Quando l’aveva imprigionata, il suo sguardo era stato eloquente, non cattivo, ma pietoso e forse addirittura invaghito. Quella cosa non le piaceva per nulla. Non voleva attirare sguardi del genere su di sé, erano impuri e si era sentita imbarazzata e fragile. Non le interessava essere una bella donna, la Vanità non le apparteneva, al contrario, la disturbava. La Superbia era un peccato grave da cui spesso le donne si lasciavano contagiare, avide di gioielli, di vestiti preziosi, perché? Per attirare gli uomini? Non era questo che il Signore voleva da loro.

Riza era convinta che non avrebbe dovuto fingere di essere esteticamente migliore di come Dio l’avesse fatta perché sarebbe stata amata così com’era dall’uomo che il destino le avrebbe riservato. Se questo non fosse mai successo voleva dire che questa era la volontà del Creatore e lei non era nessuno per giudicare il suo operato. Di certo non poteva essere quel Mustang che l’aveva fissata con sguardo così impudente e lussurioso… Sì, era un bell’uomo, alto, con i capelli corvini e luminosi, la barba rasata di fresco, una pelle della quale ricordava addirittura il profumo e un viso particolare così come il taglio degli occhi neri come pozzi profondi… Era un uomo affascinante, tuttavia non riusciva a fidarsi delle sue promesse. Le aveva detto che l’avrebbe aiutata, e invece l’aveva messa a marcire in quella prigione!

Non riusciva ancora completamente a capacitarsi del suo destino. Solo pochi giorni prima batteva la strada piagata dalle malattia e dall’incertezza. Se mai avesse commesso un piccolo furto, se mai avesse fatto qualcosa di sbagliato, lo aveva solo fatto a nome della sopravvivenza, e dopotutto in quel periodo tanto buio pieno di rovesciamenti tanto netti ed evidenti non era di certo l’unica a fare sciacallaggi del genere. Si sentiva colpevole e sporca di quel peccato, ma le aveva provate tutte, invano, contrastando la sua posizione sociale pur di raggiungere a un umile lavoro. Quella era stata l’unica scelta e ora si rendeva conto di dover pagare un prezzo non di certo leggero o basso per quei delitti. Per quanto si illudesse di stare al sicuro in quella putrida cella, sapeva che era soltanto una questione temporanea. Ascoltava i lamenti dei prigionieri vicini, sentiva spesso provenire dai piani superiori le urla di dolore dei torturati e tremava, rabbrividiva di terrore nell’udire quelle voci strazianti dimenticate da Dio.

Presto o tardi sarebbe arrivato il suo turno, sapeva perfettamente che tutti gli Inquisitori promettevano una vana salvezza, quel tipo non doveva essere poi tanto diverso dagli altri. Eppure al solo pensiero del suo volto triste e nel contempo concentrato non poteva capacitarsi di come potessero esistere maschere di ipocrisia tanto ben riuscite. Si voleva convincere di essere disgustata perché si rendeva conto che cedere per un solo istante l’avrebbe direttamente consegnata alle braccia della morte. Per quanto timorosa, preferiva il giudizio di Dio piuttosto che quello diabolico che riproducevano gli uomini. Non si capacitava di credere come potessero esistere macchine tanto infernali se non le avesse suggerite alla mente umana il Diavolo. Si distraeva con quei pensieri, cercando di trovare la forza e la volontà necessaria per andare avanti senza tentennare e dimostrarsi debole. Sapeva perfettamente che quelle erano mere illusioni di una realtà che non si poteva verificare. Non era di certo abbastanza forte per abbandonare la percezione della carne per ritrovare la più alta elevazione di Spirito, infatti prima di tutto era una peccatrice, ma anche il suo semplice stato di essere umana non le avrebbe mai permesso di raggiungere una tale altezza.

La stava lasciando marcire, in modo che impazzisse prima del tempo, che al solo sentire quell’oppressione e l’indecisione del proprio destino l’avrebbe presto condannata alla Follia. Avrebbe tanto voluto scappare da quell’incubo, tuttavia sembrava che non ci fosse una via d’uscita, e lottava strenuamente contro quella irrazionalità che la vedeva coinvolta in azioni omicide o nella perdita del senno prima ancora del tempo.

Si accoccolò così nel suo abito miserabile e sformato, finché ad un certo punto non avvertì la porta della sua cella aprirsi pesantemente. Era buio pesto, e la luce delle lanterne del corridoio esterno che invase improvvisamente il cubicolo bastò a ferirle la vista, tanto che dovette ripararsi con un braccio davanti al viso. Non riuscì nell’immediato a capire di chi si trattasse. La figura appariva sulla soglia in controluce in modo indistinto, eppure la lista dei candidati era decisamente breve: poteva essere l’Inquisitore Mustang o uno dei suoi sottoposti, Jean Havoc, la guardia che le portava da mangiare, o magari Kain Fury, il suo giovane segretario.

Il fatto che qualcuno si occupasse nuovamente di lei la rendeva quasi sollevata, poiché significava che avrebbe potuto resistere ancora un poco alla pazzia. Bastava anche solo una parola, un gesto, un movimento, un qualcosa che le facesse capire di non di essere ancora arrivata all’Inferno…

La figura avanzò con passo lento e solenne verso di lei.

«Bene, bene… Chi è che abbiamo in questa cella? Ho proprio voglia di conoscere la prigioniera privilegiata che il caro Mustang tiene tutta per sé. Avanti, sono curioso, venite fuori, signorina.»

Era una voce affilata che Riza non aveva mai sentito. Colta da un’ansia improvvisa rimase in silenzio, schiacciata contro la parete. Non presagiva nulla di buono da quell’uomo che non conosceva, il suo timbro vocale non era per nulla rassicurante, anzi, le faceva venire i brividi. Ingoiò il nodo che aveva in gola e decise in ogni caso che doveva dimostrarsi forte e risoluta come al solito. Non era Mustang, era vero però non sapeva cosa volesse da lei. Magari era davvero un altro inquisitore solo curioso di vederla, dato che poteva immaginare da sola quanto la sua situazione fosse atipica.

Si schiarì la voce arrochita dai lunghi silenzi che l’accompagnavano in quelle giornate, tuttavia non si espose e rimase nella posizione rannicchiata in cui era.

«Sono Riza Hawkeye… Chi siete? Cosa volete da me? Vi ha mandato Mustang?»

«Penso che non siate nella posizione adeguata per poter pormi in modo tanto prepotente delle domande, non credete anche voi? Comunque, oggi sono particolarmente di buon umore, quindi mi presento: mi chiamo Kimblee, Zolf Kimblee per l’esattezza. E no, non sono stato mandato da Mustang. Diciamo che sono un suo pari, e mi chiedevo come mai circolassero tutte queste voci tra le guardie sul fatto che ci fosse una prigioniera che era riuscita in qualche modo a convincere Mustang a non farle subire alcun interrogatorio… E’ vero che il nostro amico tratta con i guanti la maggior parte dei suoi prigionieri, ma da qui a trattarli come principesse… Mi chiedevo, gli avete fatto un qualche sortilegio? Si sarà invaghito di voi?»

Riza era alquanto scossa e confusa, quella non sembrava particolarmente un trattamento da principesse e ancor meno si sentiva privilegiata. Era abituata a stare all’addiaccio la notte e il giorno, vivendo libera e vagando dove più le conveniva. Un animo come il suo non era fatto per essere contenuto in quella putrida e oscura gabbia dimenticata da tutti. Se quella non era la soglia della miseria, cos’erano davvero capaci di fare lì dentro? Avrebbe quasi preferito affogare dalla pazzia che prima stava tanto temendo, piuttosto che sperimentarsi con quel dubbio di sofferenza lacerante. La figura indistinta le metteva timore, il suo tono studiato e persuasivo non promettevano niente di buono e quasi sentiva i suoi occhi puntati su di lei, nel disperato tentativo di oltrepassare quella coltre di tenebre con lo sguardo e di vederla. Voleva guardare il suo volto circonfuso da pazzia, voleva i suoi occhi piangere lacrime di sangue, voleva compiacersi nello scrutare il suo corpo genuflesso in avanti, sfinito dalle torture. Quello sguardo sadico, pronto a trovare i punti deboli delle persone, era terrorizzante e Riza, pur temendolo, rimase rannicchiata al suo posto.

Non seppe dove riuscì a trovare il coraggio di ribattere a quella presenza lugubre, per quanto la banalità e la timidezza della risposta fosse evidente. Il semplice fatto di riuscire a contrastare quell’uomo era un’impresa notevole.

«Non so di cosa stiate parlando.»

Le labbra di Kimblee si contrassero in un sorriso feroce, quante volte aveva sentito quella frase e quante volte era riuscito a far morire quella affermazione sulle labbra del condannato. Sapeva essere molto persuasivo e quando la sua furia dilagava niente riusciva a frenarlo. Aveva solo il desiderio innato di continuare a ferire, dilaniare, bruciare e far agonizzare. Quello era il nutrimento della sua anima, quello era il desiderio che gli permetteva di vivere. Stava giusto per far fuoriuscire quell’indole implacabile, quando sentì quella voce.

«Cosa succede qui?» Passi scanditi e regolari lungo il corridoio, la voce calma e il volto impassibile. Mustang procedeva incurante dell’oscurità, guardando e affrontando con lo sguardo Kimblee. Quest’ultimo non riuscì a trattenersi dal sorridere.

«La tua colombella è in pericolo e giungi a salvarla, Mustang? Ammirevole!»

Mustang per tutta risposta si avvicinò a Riza e prendendola per i capelli, le intimò di alzarsi. Non vi era cortesia nei suoi modi, né pietà nel suo sguardo. «I miei metodi d’inquisizione non ti riguardano, Kimblee. Sono libero di agire come più mi piace, psicologicamente o fisicamente. Non credo di essere mai venuto a insegnarti il mestiere. Ritorna dal tuo eretico.»

Il suo volto duro, contratto in una maschera di calma irosa non era uno spettacolo di tutti i giorni. Kimblee stesso era un po’ sorpreso da quel gesto ma non dimostrava di non compiacersene. La sfida lo stimolava.

I due inquisitori si fissarono per qualche istante che pareva eterno, sotto la luce soffusa delle lanterne che continuava a penetrare insistentemente nella cella. L’aria era carica di tensione. Gli occhi di Kimblee erano taglienti come le sue parole e il suo sorriso sarcastico e spietato.

Riza finalmente riusciva a scorgerlo, anche se a fatica, concentrata com’era a stringere con le mani i polsi di Mustang sulla sua nuca, in un disperato tentativo di allentare quella presa ferrea sui suoi capelli. Il dolore acuto le faceva lacrimare involontariamente gli occhi, non riusciva a smettere di gemere. Se avesse continuata a strattonarla in quel modo le avrebbe strappato il cuoio capelluto.

«Hai deciso improvvisamente di fare il duro? Sono quasi commosso…»

«Ti ho già detto che non sono affari tuoi. Occupati dei tuoi imputati, sparisci.»

«Certo, come desideri… Ma sappi che vi tengo d’occhio, tu, il tuo gruppetto di fedeli sottoposti e questa bella signorina… Non vorrei mai essere costretto a rivelare a Bradley che gli occhi dolci della tua prigioniera ti hanno reso… Inadeguato, diciamo. Confesso che sarebbe comunque interessante per me il caso di una strega che sia riuscita a far invaghire il pio Mustang. Potrebbe essere proprio stimolante, un caso simile non mi è mai capitato, me lo accollerei volentieri.»

«Vattene.»

Il sibilo minaccioso di Mustang avrebbe fatto deglutire intimorito chiunque… Chiunque tranne Kimblee. L’inquisitore continuava a sorridere malignamente, divertito dalle reazioni che aveva suscitato nel collega.

«Come vuoi… A presto.»

Se molta gente temeva King Bradley, si poteva dire che altrettanta avesse il terrore anche di Zolf Kimblee. Non perdeva mai la calma, ma con i suoi metodi riusciva a far confessare qualsiasi cosa a chiunque grazie alla sua subdola ferocia. Era pericoloso perché non aveva alcun tipo di reverenza, non lo faceva per nessuno scopo in particolare se non quello di compiacere il proprio ego pervertito. Non temeva niente e nessuno, non credeva in nulla nel suo intimo, e l’unico motivo che lo aveva spinto verso la carriera inquisitoria era la possibilità di divertirsi impunemente al piccolo costo di far finta di credere in qualcosa di superiore. Non esisteva altro dio al di fuori di se stesso, per lui.  La sua superbia e tracotanza non aveva mai incontrato nessun ira divina e proprio questo lo rendeva così sprezzante verso quella religione. Era un mero mezzo di paura di cui il più forte si avvaleva per sopravvivere e lui voleva essere il più forte, senza dubbio era dalla parte del vincitore. Non si sarebbe fermato davanti a niente e nessuno, senza che l’etica o la pietà lo ostacolassero: erano concetti così lontani da lui da essergli estranei. Se ne andò quindi con quell’eleganza che gli era tipica, senza che quel cambiamento repentino di Mustang lo irritasse. Era piacevole, era buffo osservare come quel lavoro trasformasse la gente, come la rendesse così poco umana e caritatevole. Nemmeno Mustang poteva sopportare quella pressione e lui sarebbe precipitato nella violenza, ne era sicuro. Aveva provato a opporsi a quella morsa, ma non poteva fare evidentemente niente per fermare quel flusso, e la sua indole sarebbe precipitata ancora più in basso, spezzata e affranta. Kimblee a stento riusciva a frenare quella risata sadica e sprezzante che si manifestava a più riprese sulle sue labbra, che colorava i suoi occhi iniettati di sangue e accendeva il volto dal divertimento. La sua figura di perse in quegli oscuri meandri, presto la sua ira sarebbe ricaduta sullo Sfortunato e nessun Dio avrebbe potuto salvarlo.

Mustang dal canto suo era irriconoscibile. Era precipitato nel lato della sua indole in cui dimostrava la sua arditezza e il suo poco controllo. Era stato un incosciente, uno stupido idiota. Già attirava l’attenzione di mezza inquisizione per le sue pratiche poco severe, se non si voleva far scoprire doveva decisamente invertire la sua rotta. Ora a pagarne le conseguenze sarebbe stata quella donna che teneva ancora per i capelli. A differenza di qualsiasi altra era stupita, era gemente, ma dimostrava una forza fuori dal comune… Tuttavia lui non poteva sottrarsi al suo incarico e per mettere definitivamente quelle voci a tacere doveva fare ciò che andava fatto. La trascinò senza alcuna pietà ma ogni suo singhiozzo, ogni sua protesta per lui era una pugnalata al cuore. Sentiva il suo essere sgretolarsi di fronte a quella violenza, sentiva il suo cuore infrangersi in quel dolore che stava impartendo. Avrebbe voluto smettere, avrebbe voluto evitare quella farsa – che tanto farsa non era – ma non poteva opporsi a quegli sguardi vigili, a quella presenza costante. Ciò che poteva fare era soltanto salvare il salvabile e avrebbe dovuto compiere il tutto senza che nessuno si avvedesse di niente, senza che si sospettasse minimamente di lui. Non poteva rischiare, un passo falso di troppo e avrebbe mandato tutto a monte. Bastava poco e Kimblee avrebbe attuato le sue minacce. Poteva farlo, non aveva dubbi, lo conosceva troppo bene.

Continuò a trascinarla fin fuori dalla cella, un po’ a fatica perché lei opponeva una forte ed ostinata resistenza.

Solitamente gli inquisitori non si sporcavano le mani in quel modo, avevano un boia a cui si affidavano, che faceva il lavoro sporco per loro. In quel momento lui non aveva il tempo di mandarne a chiamare uno, doveva semplicemente distogliere le attenzioni dal suo atipico operato, fare in modo che sembrasse davvero convinto nel suo voler estorcere ad ogni costo una confessione a quella ragazza. Il tempo che aveva per pensare ad un piano per salvarla stava via via scemando, e lui nemmeno se ne era accorto. Non aveva trovato nessuna prova che potesse scagionarla dalle accuse, tutto remava contro di lei. Era obbligato a prendersi altro tempo, anche se questo voleva dire fare qualcosa di orribile.

Nel corridoio della prigione, i singulti della ragazza riecheggiavano. I condannati nelle celle stavano in silenzio cercando di far finta di nulla, di non ascoltare. Era sempre così, ogni volta che il miserabile di turno veniva preso e portato via.

Per Riza il tempo sembrava non finire mai. Continuava a rimanere aggrappata alle braccia dell’uomo per reggersi finché non fu scaraventata a terra. Cadde di peso supina, e fortunatamente i suoi riflessi furono abbastanza pronti da permetterle di attutire l’impatto con le mani. I palmi le si graffiarono sulla fredda pietra del pavimento. Tra le dita di Mustang erano rimaste impigliate delle ciocche di capelli.

Lui non voleva farle nulla, e mentalmente le chiedeva perdono, in modo disperato. Se solo lei avesse potuto capire.

Riza invece si voltò su se stessa arrabattandosi in velocità nella sua veste lacera, che le cadeva da tutte le parti e scopriva le sue nudità. Le ferite sulle mani bruciavano, eppure cercò di non darlo a vedere, occupata com’era a coprirsi. Già non era in grado di trattenere le lacrime, che sgorgavano ormai senza controllo sulle sue gote. Non avrebbe lasciato a quell’uomo la soddisfazione di vedere il suo corpo fresco e giovane, proprio no. Lo fissò con lo sguardo più rancoroso che potesse fare in quegli istanti, mentre tremava di rabbia e di paura. Si sentiva così ingenua ad aver pensato per qualche tempo che volesse davvero aiutarla, che fosse un uomo tutto sommato giusto e che l’avesse capita…

«Potete farmi quello che volete! Non vi dirò mai niente! Mai! Fatemi pure uccidere da quel Kimblee! Per me sarà solo una liberazione! Mi avete già torturato abbastanza!»

«Non hai alcuna idea di cosa sia la tortura. Il problema è che io sono nei guai adesso, quindi non ho altra scelta. Devi confessare, Riza! O lo fai di tua spontanea volontà o te lo farò fare io stesso con le mie mani, senza nemmeno un boia!»

«Non risponderò a niente! Io sono una persona devota, non mentirò mai!»

Riza era disperata ed era completamente indignata dalle parole di Mustang. Erano quasi caritatevoli, come se fosse dalla sua parte. La verità era che lui l’aveva gettata in quella cella a marcire per un fatto che non aveva commesso, l’aveva trascinata con violenza, minacciandola deliberatamente davanti a quel Kimblee e adesso faceva finta di stare dalla sua parte per estorcerle false verità. Non avrebbe parlato, non avrebbe lasciato che quell’uomo la potesse spogliare della sua rispettabilità e della sua innocenza. Poteva anche torturarla e strapparle via quegli stracci che ostinatamente si sforzava di tenere su di sé per nascondersi ma non poteva privarla della sua moralità, non glielo avrebbe permesso ed era decisa in questo. Poteva solo immaginare cosa le aspettava ma non aveva alcuna intenzione di cedere.

Roy la guardò, lì gettata in quell’angolo. Non aveva alcun desiderio di infliggere quelle pene, non aveva alcuna voglia ma non aveva scelta. Non aveva alcuna intenzione di ferire quella flebile carne, non voleva macchiarsi di quel sangue innocente. Ma perché doveva avere più pietà di lei che di tanti altri innocenti che erano morti nello stesso identico modo? Quella rabbia che lo aveva invaso vedendo Kimblee lo aveva gettato in un gorgo senza fine, poiché evidentemente quell’uomo aveva anche influenze molto negative. Era stato assalito da quella rabbia repressa che ormai lo perseguitava da tanto tempo. Vedendo tutta quella violenza e quelle torture stava iniziando davvero a perdere la testa e smarrire se stesso. Se soltanto avesse davvero ferito Riza, sapeva che avrebbe consumato irrimediabilmente il suo animo.

Come in un sogno estremamente vivido, quasi incosciente di ciò che faceva, alzò di peso la ragazza. Non voleva, non poteva ferirla eppure lentamente, evitando di farle troppo male e eludendo i punti vitali prese a fare il suo lavoro. Ogni volta che avvertiva un suo gemito, ogni volta che sfiorava la sua carne, ogni volta che sentiva quel fremito e ribrezzo di pura violenza investirlo, tremava. Era completamente travolto da diversi sentimenti, e anche se non lo avrebbe mai ammesso gli sembrava di provare addirittura un certo piacere. Possibile che il suo confuso stato d’animo lo avesse gettato fino a quell’estremo?  Tuttavia si sentiva stringere il cuore al suo dolore, sentiva la sua mente inorridire a tutte quelle azioni. Ma non poteva fermarsi, sentiva gli occhi scrutatori e attenti di Kimblee su di sé e se soltanto non avesse fatto bene il suo lavoro non avrebbe mai potuto salvarla – sempre che avesse trovato un sistema – né salvare il suo posto, la sua vita e la sua reputazione. Non era per quello che aveva iniziato quel lavoro. Voleva smettere, smettere di essere così freddo e magari piangere per ciò che stava facendo. Non era nel suo carattere ma neanche lui poteva digerire tutto quel sadismo e si sentiva completamente distrutto dai diversi sentimenti e sensazioni che ormai lo invadevano e lo dilaniavano.

Riza nel frattempo accusava i colpi, uno per uno, affranta, incastrata tra una parete ruvida di pietra grezza e il corpo del suo assalitore. Nella sua mente c’era solo un pensiero che cercava di tenersi stretto, per non cedere, quello di non parlare. Dalle sue labbra spaccate e sanguinanti sarebbero usciti solo gemiti, se lo promise. Sarebbe rimasta aggrappata alla sua stessa dignità come un naufrago alla zattera. No, non gli avrebbe nemmeno dato la soddisfazione di pregarlo di smettere. Perché a quelle botte poteva resistere, sapeva che avrebbe potuto farcela, che l’Altissimo le stava dando la forza di proteggere i propri ideali. Sarebbe morta, pur di difendere la propria onestà.   

Quando finalmente l’Inquisitore la lasciò andare, Riza si accasciò su se stessa esausta, scivolando contro il muro. Tremava come una foglia, ma cercava di mantenere la testa alta, fissando in viso il suo assalitore, quasi in segno di sfida.

Era strano. Le sembrava di vedere delle lacrime sulle sue guance, ma forse erano solo le violenze che aveva ricevuto che la stavano facendo sragionare.

Non dirò nulla, signore… Picchiatemi ancora… Stupratemi… Bruciatemi pure… Non avrete niente da me, ve lo giuro…” sussurrò a fatica, quasi sorridendo, prima di perdere i sensi.

Fu in quel momento che Mustang lo vide. Il sacco lurido con cui la ragazza era vestita si era strappato sulla schiena a causa dell’attrito contro la parete. La sua schiena nuda era coperta di graffi superficiali, ma non solo…

Aveva una scritta incisa sulla pelle, sopra un disegno stilizzato e quasi incomprensibile raffigurante un uccello avvolto nelle fiamme, forse un aquila, che volava verso un sole. Lo si poteva capire a mala pena poiché la pelle era completamente rovinata da profonde cicatrici, cicatrici di ustioni ormai rimarginate. Le lettere “tio m it atis” dovevano una volta formare delle parole che qualcuno aveva voluto cancellare in quel modo tanto doloroso. 

   
 
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