Avviso:
Anche se l’ho inserito nel primo capitolo, volevo avvisarvi che
recentemente ho creato il trailer della Fan Fiction. E’
il mio primo video, quindi non è un granché, però spero
comunque che vi piaccia!
Ecco a voi il Link
se vi interessa:
https://www.youtube.com/watch?v=gvK6MpO1U1Q
Part I
Chapter III
Insopprimibile ronzio
“Chi è stato torturato
rimane torturato. Chi ha subito il tormento non potrà più
ambientarsi nel mondo, l'abominio dell'annullamento non si estingue mai. La
fiducia nell'umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso,
demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.”
Jean Améry
L’uomo era uno e
nessuno.
Portava da anni la sua
faccia appiccicata alla testa e la sua ombra cucita ai piedi e ancora non era
riuscito a capire quale delle due pesasse di più. Qualche volta provava
l’impulso irrefrenabile di staccarle e appenderle ad
un chiodo e restare lì, seduto a terra, come un burattino al quale una
mano pietosa aveva staccato i fili.
A volte la fatica
cancellava tutto e non concedeva la possibilità di capire che
l’unico modo valido di seguire la ragione era abbandonarsi ad una corsa sfrenata sul cammino della follia. La vita era
un continuo inseguirsi di facce, ombre e voci, persone che non si ponevano nemmeno la domanda e accettavano passivamente una
vita senza risposte per la noia o il dolore del viaggio, accontentandosi di
spedire qualche stupida cartolina ogni tanto.
C’era pace dove si trovava, era presente un lieve venticello
notturno che urtava contro i rami spogli, poche erano chiome di abeti che
danzavano e dei gufi che emettevano il loro monotono verso, formando insieme
una melodia naturale che avrebbe potuto portare un senso di serenità ed
armonia anche all’animo più corrotto.
Toby si appoggiò al solido tronco di un abete e
pensò che tutti gli esseri umani erano inutili.
Di fronte a lui, ad una ventina di metri di distanza, camminando insieme mano
nella mano a passo lento c’erano due persone, un uomo ed una donna.
Nella luce soffusa lei era
sottile e dolce come la malinconia, aveva i capelli neri e due occhi color
ghiaccio, talmente luminosi da poter attirare l’attenzione di chiunque.
Lui aveva occhi solo per la sua bellezza in quell’istante e le sussurrava
in continuazione all’orecchio, al fine che la sua voce non rimbombasse
all’interno di quella foresta e svegliasse qualche scoiattolo in letargo.
Si diedero un casto bacio e lei rise alle parole del
compagno, rovesciando la testa all’indietro o nascondendo il viso
nell’incavo della spalla.
Poco fa lei aveva udito un
rumore, e si era voltata di scatto, notando un’anziana infreddolita
puzzola tra i cespugli. Gli occhi della giovane donna incrociarono quelli
dell’animale, ma quelli di lei erano passati indifferenti dinanzi
all’adorabile muso dell’altra, come sul resto del mondo che la
circondava. Era tornata a regalare il miracolo di quegli occhi all’uomo
che era con lei e che la ricambiava con lo stesso sguardo, impermeabile ad ogni messaggio esterno al di fuori della sua presenza.
Due luminose fedi dorate splendevano sui loro anulari.
Erano giovani, sposati,
felici.
Toby, ancora appoggiato sul medesimo tronco,
pensò che presto sarebbero morti.
Quella notte qualcosa si
era spento nel cervello di Anastasia, come se una delle manovelle avesse
all’improvviso smesso di girare.
Era di nuovo finita in
quel ripostiglio fin troppo ristretto, luogo in cui aveva passato i primi tre
mesi della sua prigionia, senza poter uscire. Aveva provato più volte a
fracassare la porta di cemento blindata, ma con scarsi risultati.
Aveva soprannominato quel
ripostiglio la scatola, date le sue
modeste dimensioni. Avrebbe potuto essere l’incubo di ogni
claustrofobico: era alta solo centoventi centimetri,
infatti per muoversi al suo interno era costretta a gattonare. Neanche la
larghezza della stanza era particolarmente generosa: orizzontalmente era lunga centottanta centimetri da una parte e novanta
centimetri dall’altra.
Riusciva tuttora a credere
a stento di essere riuscita a passare così tanto
tempo in quell’agghiacciante camera. Toby
ultimamente la rinchiudeva là dentro quando doveva lavorare. E ogni volta la ragazza temeva che non
sarebbe più tornato, considerato che – se gli fosse
successo qualcosa di grave – lei sarebbe morta nel giro di pochi giorni.
Tese l’orecchio,
disperata, nella speranza che tornasse. Niente. Era stata di nuovo totalmente
tagliata fuori dal mondo esterno. Attraverso le crepe dei pannelli di legno non
penetrava alcun suono e non filtrava nemmeno un po’ di luce. L’aria
puzzava di muffa e si posava sulla ragazza come un sottile strato di
umidità che non riusciva a togliersi di dosso. L’unico rumore che
le teneva compagnia erano le interferenze di una vecchia televisione di
quindici pollici. Tuttavia in quel luogo sembrava non prendere alcun canale e Toby fin dal primo giorno della sua prigionia le aveva
proibito di spegnerlo, quindi era costretta ad udire
costantemente quel suono, mentre all’interno dello schermo della
televisione strisce e bianche e nere si alternavano e si dislocavano
continuamente, come se stessero quasi danzando.
Bzzzzzzzzzzzzz…
Quel rumore era una vera e
propria tortura: dal primo giorno quel ronzio riempì giorno
e notte la sua piccolissima stanza, fino a diventare talmente irreale e
stridulo da farle premere le mani sulle orecchie per non sentirlo. Quando il
televisore si surriscaldava, cominciava a puzzare e lo schermo diventava
totalmente nero per qualche secondo. Allora quel suono stridulo rallentava e
subentrava un rumore nuovo.
Toc. Toc. Toc.
E poi il ronzio ricominciava.
In alcuni giorni il rumore
assillante riempiva non solo ogni angolo della stanza, ma anche tutti quelli
all’interno della testa di Anastasia.
Un altro fattore del suo
turbamento era una luce artificiale accesa ventiquattro ore su ventiquattro che
Toby aveva installato durante il terzo giorno dal suo
rapimento. All’inizio la ragazza pensava fosse qualcosa di positivo, dato che la scatola diventava completamente buia senza di
essa, e di conseguenza credeva che si sarebbe rivelata una sicurezza e le
avrebbe donato il coraggio necessario per affrontare quell’ingiusta
situazione. Tuttavia quella luce persistente e abbagliante si svelò quasi altrettanto orribile. Le dolevano spesso
gli occhi e la mise in uno stato di veglia dalla quale
non riusciva ad uscirne: anche quando si tirava la coperta sulla testa per
attenuare il chiarore, il suo sonno era inquieto e leggero. La paura e la luce
abbagliante non le concedevano qualcosa di più di un leggero
dormiveglia, dal quale si scuoteva con la sensazione che fosse pieno giorno. Ma nella luce artificiale di quello scantinato chiusa
ermeticamente, non c’era più alcuna differenza tra il giorno e la
notte.
Anastasia non era a
conoscenza che esporre i prigionieri alla luce artificiale continua era un metodo di tortura diffuso: le piante deperiscono
quando sono esposte costantemente alla luce, gli animali muoiono. Per gli
uomini era una tortura perfida, più efficace della violenza fisica: il
bioritmo e lo schema del sonno ne sono così alterati che il suo corpo,
per la profonda spossatezza, reagì come paralizzato e, già dopo
un paio di giorni, il cervello non funziona più bene e perde alcune
delle sue capacità. Altrettanto terribile ed efficace era la tortura per
mezzo di un trattamento con ultrasuoni permanente e di esposizione a rumori ai
quali non ci si può sottrarre. Come quello ronzante e stridulo di un
televisore.
Ma mentre prima la ragazza
trovava quella situazione inumana ed inammissibile, in
quel breve istante, non molto tempo dopo che uno dei fili all’interno del
suo cervello si fosse spezzato, una frase rimbombò all’interno
della sua anima.
Forse è giusto così.
Era regredita
interiormente. La mentalità dell’adolescente di diciassette anni
ritornò allo stadio di una bambina di quattro o cinque anni che
accettava il mondo intorno a sé così come le si
presentasse; per la quale i punti di riferimento necessari per provare
una sensazione di normalità non erano dati dalla comprensione logica
della realtà, bensì dai piccoli rituali del quotidiano. Per non
crollare completamente. La sua situazione era così estranea a tutto
ciò che si potesse prevedere che, inconsciamente quanto lentamente, si
ritirò in quello stadio: si sentì piccola, in balia di qualcun
altro e libera da ogni responsabilità. La persona che l’aveva
rinchiusa in quella prigione era l’unico adulto presente e, di
conseguenza, colui investito di autorità e che avrebbe sempre saputo
cosa fare.
Quella regressione
intuitiva allo stadio comportamentale di un bambino piccolo fu il primo
cambiamento importante del suo inconscio. Fu il disperato tentativo di creare
una piccola isola familiare in una situazione senza via d’uscita.
L’involuzione mentale
della ex-modella era dovuta principalmente a come Toby era solito a comportarsi con lei: le sbucciava le
arance e gliele infilava in bocca, spicchio dopo spicchio, come se la
ragazza non fosse capace di mangiare in maniera autonoma. Una volta gli
domandò una gomma da masticare, ma questo gliela negò, per paura
che potesse restare soffocata. La sera le costringeva ad aprire la bocca e le
puliva i denti come se non sapesse neanche reggere uno spazzolino. Ogni due
settimane le afferrava bruscamente i polsi e le caviglie, la teneva ben ferma e
le tagliava le unghie ed una volta al mese le faceva
la ceretta.
Si sentiva regredita, come
se il serial killer le avesse tolto l’ultimo rimasuglio di dignità
che, in quella situazione, cercava di conservare. Allo stesso tempo sapeva di
essere stata lei stessa a voler inconsapevolmente mettersi in quello stadio che
le assicurava un certo grado di protezione. Perché già dal primo
giorno le era toccato sperimentare quanto Toby, nella sua paranoia, oscillasse tra il trattarla come
se fosse troppo piccola oppure troppo indipendente.
Toby squadrò i due cadaveri con sguardo
disinteressato: le loro interiora formavano una scia sulla candida neve, sulla
quale i loro occhi – ormai fuori dalle orbite – erano leggermente
affondati.
Il ragazzo osservò
i bulbi oculari di lei e si chinò appena, sfiorandoli con la punta dei
guanti neri. Era stata davvero una bella donna, e quegli occhi color ghiaccio
splendidi quanto rari erano indescrivibilmente incantevoli. Ebbe
l’istinto di raccoglierli e conservarseli, ma successivamente
si arrestò, rimproverandosi mentalmente: possedeva già una
splendida creatura la quale stava impazientemente aspettando il suo ritorno. Percepì il suo compiacere gli occhi di un’altra
donna come una forma di tradimento.
Si tolse
gli spessi occhiali, strofinando concitatamente la manica della sua felpa
grigia sulle rotonde lenti arancioni, le quali si erano appannate a causa del
clima invernale.
Esaminò nuovamente
il cadavere della giovane donna, soffermandosi sul cappotto grigio di pelliccia
imbrattato dal suo stesso sangue. Senza pensarci troppo, la sollevò
tirandola per l’avambraccio e le sfilò l’indumento, per poi
lasciarla capitombolare con noncuranza.
Non voglio che la mia piccola si ammali. Con questo
starà al caldo.
Il suo sguardo cadde sul salma di lui e gli venne quasi spontaneo aggrottare le
sopracciglia, mentre sentiva una smisurata sensazione di collera invadere ogni
centimetro delle sue ossa.
Che cosa aveva di
così speciale? Come era riuscito a conquistare
quella donna? A farla ridere? Ad essere felice?
Perché Anastasia non si comporta allo stesso
modo?
Inspirò
profondamente, cercando di resistere ad ogni impulso
violento; ebbe un tic e le sue braccia si contrassero più del solito.
«Invece di
contemplare su quei cadaveri, pensa ad un modo
efficace per sbarazzartene», una voce fin troppo fastidiosamente
familiare gli accattonò la pelle e il castano serrò i denti,
premendoli con brutale forza sul palato al fine di non perdere totalmente il
controllo. Si voltò, incrociando per l’ennesima volta la figura di
quel ragazzo qualche anno più grande rispetto a lui. Toby
si alzò di scatto, avvicinandosi minacciosamente all’altro, per
poi bloccarsi a pochi metri di distanza. Nonostante all’uno
fosse stato severamente proibito ferire l’altro, entrambi ardevano al
solo pensiero di poter trasgredire a quella piccola regola imposta dal loro
patrono. Tuttavia infrangerla avrebbe portato a
brutali conseguenze, ed entrambi tenevano molto alla loro nomea.
«Perché non lo fai tu? O forse l’ex-pupillo non vuole sporcarsi le mani?», lo provocò, sperando in una reazione
violenta da pare dell’altro. Probabilmente, se non avesse portato quella
maschera bianca, avrebbe potuto vedere i suoi occhi spazientiti ridursi a due
fessure. Aveva toccato il suo punto debole, e ne era perfettamente a
conoscenza.
«Credo che tu sappia meglio di me quanto la polizia
degli Stati Uniti sia efficiente. Basta un piccolo errore e quelli ci scoprono», si guardò attorno, come se avesse paura che
qualcuno li stesse osservando. Successivamente si
voltò verso un Toby seccato e riprese a
parlare. «E comunque, sei tu quello con i guanti
qui. La polizia troverebbe tracce del mio DNA sui loro corpi».
L’altro si
limitò a sospirare infastidito. Non era mai riuscito ad andare
d’accordo con Masky: ogni volta finivano sempre
in un dibattito o comunque in una conversazione poco piacevole. La loro
avversione era dovuta al loro capo. Entrambi erano incondizionatamente devoti a
lui, e di conseguenza desideravano sempre accontentarlo e ricevere la sua
approvazione; questo loro obbiettivo in comune li
aveva portati ad una forte rivalità e a competizioni giornaliere.
Il Capo aveva proibito a Masky di fare del male a Toby e
viceversa. Eppure entrambi sembravano attendere impazientemente di cogliere
l’attimo che li avrebbe permesso di squarciarsi
a vicenda.
Ma l’attesa li stava rendendo sempre più
iracondi.
Bzzzzzzz…
Anastasia fissò
infastidita il televisore. Anelava a spegnerlo, ma allo stesso tempo era
terrorizzata all’idea di qualche punizione. Tra l’altro quel giorno
la pancia le doleva più del solito, e non poteva fare a meno di
domandarsi se stesse succedendo qualcosa al bambino. Sapeva già che quella
creatura non sarebbe riuscita a vivere per molto dopo il parto o – ancora
peggio – sarebbe morta dentro di lei a causa del mal nutrimento. Questo
era forse il motivo principale per cui cercava di prendere le distanze e non
affezionarsi troppo.
«Ehi, moccioso, sai
per caso come si fa a diventare coraggiosi?», domandò ad alta voce,
anche se probabilmente la domanda era rivolta più a sé
stessa che al bambino.
Il coraggio era
probabilmente una dote che non avrebbe mai posseduto, al contrario ricordava
che fin dalla tenera età era stata una bambina codarda, ma soprattutto
vigliacca.
Se fosse stata coraggiosa avrebbe tentato più volte di fuggire dalla
sua prigionia o avrebbe mostrato continui segni di ribellione, senza temere le
punizioni del suo rapitore. Anche in quell’istante, invece di restare
rannicchiata su sé stessa, avrebbe già
escogitato un nuovo piano per la fuga.
O ancora, se fosse stata coraggiosa si sarebbe suicidata già da tempo, eppure
era troppo codarda anche per affrontare la paura e il dolore della morte.
«Ma
io non sono coraggiosa», sussurrò a denti stretti, stringendosi
nelle spalle e chiudendo gli occhi. L’unica cosa da fare era aspettare
distaccatamente che qualcosa sarebbe cambiato, prima o poi.
Dopotutto non è poi così male stare
con lui, una volta che ti abitui.
Anastasia sorrise. Non era
un sorriso speranzoso o raggiante, ma nemmeno amareggiato o forzato.
Era un sorriso e basta.
Bzzzzzzzzzzz…
Note dell’autrice: Eccomi! Non riesco a crederci, sono riuscita a rispettare i tempi che mi ero imposta, è
un grande passo per me, considerata la mia eterna pigrizia, yay!
Ecco a voi il terzo
capitolo di questa Fan Fiction!
Diciamo che questo
è più un capitolo di “passaggio” per comprendere
meglio i personaggi di Toby e di Anastasia e –
da come possiamo vedere – la psicologia di quest’ultima va pian
piano peggiorando.
Per scrivere i suoi
pensieri ho dovuto fare diverse ricerche e mi sono dovuta adattare a storie di
persone che hanno subìto realmente la prigionia, ma non ho disubbidito a
nessuna delle regole imposte da EFP.
Nei prossimi due o tre
capitoli si ritornerà al passato, e…no, non dico
nient’altro.
Visto
che ci sono, volevo ringraziare
xmaliksmilk per il banner e diverse
persone…
In primis, ringrazio KillerxPenguen_93, AnonimaKim, Goshikkudoru, Amekita, Petronela_Madness,
Neko_chan14, Thedaughterofsatan, CrazySmile28, mysterydoragon, lovinfaber, BabyScaryDoll_01, laragazzadisabbia e Rosa Hagane
per essere stati così gentili da recensire la
mia storia.
Inoltre ringrazio AnonimaKim, CrazySmile28, laragazzadisabbia, Neko_chan14, Nightmare Bloody e Thedaughterofsatan per aver
inserito la mia storia tra le preferite.
Ci tenevo inoltre a
ringraziare BabyScaryDoll_01, CrazySmile28, Goshikkudoru, lovinfaber, Miss Blue, mysterydoragon e _silence_ per
averla inserita tra le seguite.
Insomma, ringrazio tutte
queste persone per il meraviglioso supporto che mi stanno dando e un piccolo grazie va anche a “chi legge la storia e
basta” e continuerà a farlo!
Okay, dopo queste commuoventi (no)
note dell’autrice, me ne vado, che è meglio, ahahah.
Au revoir,
Coffee Pie.