Prosegue a pagina ventitré.
Dita grandi e scure, corrose da coloranti chimici, sporche di nicotina là, dove si intrecciano con quelle di mia madre. Quelle dita consumate e stanche che voltano pagine patinate di alberi abbattuti e lustrati, di padre che mi ha lanciato in aria e dato quella stessa mano per attraversare la strada. Prosegue a pagina ventitré l’articolo sui ventenni d’oggi, gli abusi di droghe, in discoteca ad albeggiare, la follia spensierata, viziata, volgare.
Pasticche
a forma di cuore sulle lingue
di adolescenti (o non più tali) nelle loro mini di jeans, e
gli occhi bistrati
di nero. Il trucco sciolto e lacrime di kajal, tristezza o devasto. Se
pensi a quei corpi rovinati e
martoriati, se pensi agli organi interni, a quel cuore che pompa sangue
e poi,
quella pasticca in gola, giù per la trachea, e accelera e
pompa sempre più
forte, se pensi a quel cuore affaticato che in una macchina col sesso
spicciolo
in un motel, finisce quasi per collassare, a quei polmoni neri di
tabacco, ai
neuroni tesi di scariche elettriche, alla pelle che si tira e
ingiallisce, ai
quei denti che si anneriscono.
Alza un occhio, papà, e mi guarda
per cercarmi addosso i segni inconfutabili di quelle sigarette e di
quel
trucco. Gli ritorna lo sguardo innocente della bambina che ero; gli
ritorna il
profumo del sapone di casa e la familiarità degli occhi che
mi ha regalato mia
madre. Specchi dell’anima, o fortezze. Erigere difese per non
mostrare a
nessuno il sabato passato a casa dell’amica di sempre, con la
bottiglia di vodka
vuota fatta girare e la sorte che sceglieva per noi le labbra
dell’altro da
assaggiare. Fragola e limone, sono questi i sapori che avevano tutte,
fragola e
limone; forse immoralità nell’avere
così vicino – a un soffio – quelle
persone
che non sono altro che appendici della nostra persona. Reato, forse
peccato.
Li colgo, negli sguardi della gente, i pensieri che corrono al telegiornale e ai programmi su di ‘noi’. Li colgo nella signora che mi lancia uno sguardo preoccupato e si stringe più forte il borsello al seno, nell’uomo che scuote la testa nel vedermi su un bus con l’ipod nelle orecchie, e sceglie di sedersi lontano da me. Perché siamo tutti depravati, perché siamo tutti delle isole lontane, perché siamo tutti delinquenti che devastano e rubano e ingannano. Che la domenica pomeriggio ridono troppo forte nel parco del comune, e sono pur sempre dei senza idee e senza dio, anche se fanno le bolle di sapone. Magari fanno le bolle di sapone con qualche acido, e, lo vedi?, te lo dicevo, io. Lo vedi, quello? Si sta facendo una canna, lo vedi che tira fuori il fumo? Di certo non è tabacco, vuoi darla a bere a me? Ho esperienza, io.
Sotto
quel gazebo, sotto quel
sole, salgo su uno sgabello e cito Dostoevskij per il mio pubblico. La senti la musica? – urlo
– odora di cimitero! Mi
ridono addosso per
il riferimento un po’ triste. E’ Aprile e
c’è il sole, c’è chi corre e
tutti
questi bambini, ed io di cosa mi metto a parlare?
Rido anche io. E’ la storia di una risata. Che è
sincera e limpida e mi fa
sembrare una bambina. Si innalza al cielo azzurro e la dedico alla
semplicità e
alle nuvole bianche che non minacciano la tempesta. La dedico alla
bellezza dei
pomeriggi passati con la stessa gente a ridere sulle risate della sera
precedente, del mese prima, degli anni trascorsi assieme. A prenderci
in giro
nei ricordi che serbiamo e nelle situazioni giornaliere. Raccontando di
quel
cinquantenne che ha aperto il giornale ed ha trovato scritto che tutti
i
ragazzi italiani non ascoltano quello che gli viene detto e che i
genitori non
se ne accorgono, però si drogano e bevono e fumano e chi
più ne ha più ne
metta. Di quel cinquantenne che è mio padre e della coetanea
con cui è sposato
che si preoccupa che tutto questo sia vero e mi controlla lo zaino per
vedere se
ci trova qualcosa di compromettente. Che controlla se ho “Tre
Metri Sopra Il
Cielo” nella libreria, e invece ci trova Cime Tempestose e
Oceano Mare. Il
calendario di Klimt e le fotografie di Doisneau.
Questa
è la storia di una risata
che corre su un filo che unisce me e il sole, che prende la rincorsa
sui prati
freschi e verdi della nuova primavera, ma che si spezza appena spiccato
il
volo. E’ una storia breve, perché basta abbassare
lo sguardo per trovare il
disgusto di un signore, in quello stesso parco, che si preoccupa di non
far
diventare il nipotino che ha con sé come una come me. Che
porto le Converse
viola e sto vicino a un ragazzo coi capelli lunghi, e ad un altro con
l’orecchino. Che sono arrivata con due ragazze che
sorridevano e si tenevano
per mano e – sacrilegio – hanno osato baciarsi
sulle labbra. E’
una storia breve perché, quando incrocio
quello sguardo sprezzante e di disapprovazione, la risata si spezza. E
muore.