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Autore: suni    18/12/2008    3 recensioni
Giuseppina, per gli amici Giù, Pi per gli affezionati. Diciotto anni di goffaggine, sfortuna e individualismo. Quando suo malgrado cambia città e arriva nella nuova scuola non si aspetta altro che una nuova scarica di sfighe, e invece la ruota sembra girare. Perché Eva è una vicina di banco strepitosa, Francesco l’amico ideale, Greg, Lalla, Patty e Jack la compagnia perfetta. Ma Giù è Giù e la vocina nella sua testa le ricorda che non può essere su.
E difatti c’è un un ma. Un ma alto e biondo, con tanto di occhi azzurri, adorabili fossette e giacca arancione.
Tra serate alcoliche adolescenziali, improbabili sessioni cinematografiche, confidenze tra i banchi e risate miste alle lacrime, Giù scoprirà che anche affrontare i cambiamenti non è un’impresa impossibile. E che ad essere se stessi, alla fine, c’è soltanto da guadagnare. Anche quando si è, appunto, insostenibilmente Giù e tassativamente…sfortunati?
Genere: Generale, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Bene, bene…altra settimana, altro capitolo.

Ringrazio caramente chi ha letto, chi ha preferito e, a fondo pagina, chi ha commentato.

Spero vorrete avere la bontà di fornirmi un’opinione. In caso contrario, spero almeno che vi divertiate.

suni

 

 

I. EVA

 

 

Nonostante l’inconveniente dell’autobus Giù riuscì a farsi spiegare da una pensionata con la sporta della spesa come raggiungere il liceo linguistico Italo Calvino, che scoprì poi distare appena dodici minuti, ovvero cinque fermate. Sull’autobus c’era una calca di altri studenti che lei finse di non vedere – era bravissima in quell’attività - rimpiangendo di non avere con sé un cane per ciechi che potesse trarli in inganno. Prese nota di procurarsene uno per la prossima volta in cui avesse cambiato scuola e puntò uno sguardo rarefatto e sonnolento sul finestrino davanti a lei, rimanendo perfettamente immobile nella posizione yoga della Montagna, cioè piedi divaricati a larghezza spalle e braccia tese lungo i fianchi, finché la prima frenata non la mandò dritta nell’abbraccio involontario di un liceale ignoto sul cui piede atterrò con le suole carrarmato di entrambi gli stivali e che non osò nemmeno guardare in faccia: violacea, gli porse inintelligibile scuse. A quel punto la sua posizione mutò in Montagna-modificata-con-braccio-alzato-per-reggersi-alla-maniglia-apposita e Giù continuò il suo viaggio estraniandosi completamente dal mondo circostante, immersa in un mistico torpore.

“Mi fai scendere?”

La voce la riscosse d’improvviso facendole fare un palese saltello e, di nuovo arrossendo, registrò grazie al colore della giacca – un improbabile arancione – che a parlare era stato il tizio cui era volata addosso poco prima. Terrorizzata, si fissò i piedi e gli fece largo biascicando chissà cosa.

“Tu non ti fermi qui?” chiese il tizio quando fu arrivato alla porta. “Non vai al Calvino?”

E Giù si rese conto di non aver fatto caso a quale fosse la sua fermata. Imprecò mentalmente contro se stessa e lo sguardo le si fece appannato per l’agitazione mentre, se possibile, diventava ancor più rossa. Si scaraventò giù al seguito del tizio e a quel punto, suo malgrado, si trovò costretta allo spiacevole gesto di doverlo guardare in faccia per ringraziarlo e quando i suoi occhi si sollevarono sul suo viso mancò poco che un ictus la cogliesse.

Perché Tizio era, come da regolamento, quanto di più simile a una creatura ultraterrena che la sua mente potesse concepire.

Aveva immensi occhi di un azzurro cristallino e un sorriso simpatico corredato di fossette, qualche leggerissima lentiggine intorno al naso e lineamenti marcati, ma armoniosi. Sfoggiava una chioma di media lunghezza, un po’ arruffata e di un biondo cinereo e luminoso che sembrava fatto con Photoshop.

G-grazie,” gracchiò Giù, incrociando gli occhi come una strabica nel tentativo eroico di non crollare svenuta.

Tizio sorrise ancor più meravigliosamente e le fece un piccolo cenno di saluto con una mano divina che sembrava presa dalle fotografie di Doisneau, quello de Il Bacio. Giù meditò di staccargliela e tenerla come reliquia, ma Tizio si stava già voltando per mollarla lì - perfetto, doveva probabilmente ritenere di aver compiuto la sua buona azione quotidiana soccorrendo una ritardata - e lei rimase a bocca aperta con lo sguardo da trota in decomposizione.

Giù negava fermamente l’esistenza dei colpi di fulmine, eppure in quel momento seppe con totale e ineluttabile certezza di averne appena subito uno, e di quelli tosti. Centrata in pieno sulla via di Damasco, o quel che era, dalla più potente folgorazione mai provata in vita sua, per un Tizio ignoto.

Lo guardò camminare verso l’ingresso dell’istituto, intorno a cui gravitava già una folla di studenti, per poi fermarsi sul lato della piazzetta accanto a due altri ragazzi molto meno impressionanti che lo accolsero con amichevoli pacche. Uno dei due gli porse un pacchetto di sigarette aperto e Tizio ne accettò una sorridendo in maniera sempre più sfolgorante.

A quel punto Giù rammentò di essere a sua volta una fumatrice e si riscosse riluttante, spostando intorno uno sguardo dubbioso per scoprire se per caso da quelle parti o in qualche via laterale si trovasse un tabaccaio, ma ovviamente la realtà la disilluse.

Si guardò ancora intorno, meditando sul da farsi. Piuttosto che rivolgere di propria iniziativa la parola a qualcuno per chiedere una paglia si sarebbe fumata la matita: sapeva che presto o tardi inevitabilmente avrebbe dovuto interagire con qualcuna di quelle persone, ma desiderava rimandare il più possibile quello sciagurato momento.

Sicuramente sarebbe riuscita a fare una figura di merda appena aperta la bocca.

Sospirò tristemente tra sé, avvilita. Avrebbe dovuto rimandare la sigaretta al pomeriggio.

A quel punto tanto valeva avventurarsi alla ricerca della Presidenza, operazione che sospettava le avrebbe portato via ingenti quantità di tempo visto il suo senso dell’orientamento non pervenuto. Con un sospiro atto  farsi forza strinse la presa sulle bretelle dello zaino e serrò gli occhi per un istante, poi sollevò la testa e varcò a passo quasi militare la soglia del suo nuovo liceo.

La sua ultima speranza – cioè che l’universo avesse fine ed esplodesse con un secondo Big Bang in quel preciso momento - non si avverò e Giù si trovò nell’atrio scalcagnato e poco luminoso, con pareti di un ocra vagamente vomitoso, di quella che pareva una normalissima scuola, in cui altri allievi già bighellonavano e cercavano la propria classe studiando i numeri sulle porte lungo i due corridoi laterali. Giù gettò l’ennesimo sguardo spaurito intorno a sé prima di decidere che, gerarchicamente, la Presidenza non poteva che trovarsi il più in alto possibile e prese quindi a salire le scale verso i piani superiori, che scoprì essere tre.

Ma della Presidenza non c’era traccia.

“Porco di quel cazzo di vacca,” ringhiò Giù tra sé, scrutando risentita un anonimo corridoio lungo il quale si susseguivano le aule, già popolato di alcuni studenti particolarmente mattutini che vagabondavano senza scopo.

“Come fa una vacca ad averlo, scusami?”

La svagata voce femminile proveniente dalla sua destra le provocò il secondo cardiopalma della mattinata e Giù si voltò di scatto, incontrando miti occhi marroni che la scrutavano placidi dietro le lenti di un paio d’occhialini rotondi alla John Lennon. La ragazza che le aveva parlato era avvolta in un lungo paltò nero, aveva i capelli lunghi e castani perfettamente lisci e la osservava educatamente.

“E’ un OGM,” borbottò imbarazzata. Poi, visto che la straniera le aveva parlato per prima, si fece coraggio. “Sai dirmi dov’è la Presidenza?” chiese velocemente, come sgravandosi di un infausto fardello.

“Sei nuova?” rispose l’altra, curiosa.

Giù annuì senza parlare, timida e a disagio.

“Che classe fai?” chiese ancora la ragazza, cordiale.

“Quarta. C,” rispose Giù, ripetendo l’unica informazione utile in suo possesso.

La ragazza sorrise, apparentemente entusiasta.

“Siamo compagne,” annunciò allegramente. “La nostra classe è questa,” proseguì, indicando la porta a due metri da loro su cui, effettivamente, troneggiava la scritta IV C. “La Presidenza invece è a piano terra, corridoio a destra, ultima porta a sinistra dopo la Segreteria.”

E ti pareva.

“Grazie,” bofonchiò Giù, facendo istantaneamente inversione.

“Ci vediamo in aula!” la salutò la sua nuova compagna sventolando soavemente la mano.

Giù annuì gravemente, prima di tornare velocemente sui propri passi nella speranza di riuscire a non tardare troppo. Le indicazioni si rivelarono esatte e in capo a tre minuti il preside Anselmi la accoglieva con un pomposo discorso di benvenuto, le forniva le sommarie indicazioni sul banalissimo e universalissimo regolamento di un normale liceo e la affidava ad una bidella bassa e tarchiata incaricata di scortarla nell’aula da cui era appena arrivata.

Ovviamente la campanella era già suonata e le porte chiuse, compresa la sua. La bidella bussò sbrigativa e un sonoro “avanti” sancì la sua condanna. Giù si fece avanti al seguito della donna, sbattendo nello sguardo paziente di un professore affascinante sui trentacinque anni e successivamente in una quarantina di ignoti occhi curiosi che la osservavano dai banchi.

“La nuova allieva, professor Ventura,” annunciò la bidella con noncuranza.

“Vieni, vieni… Corioli Giuseppina, giusto?” la accolse l’uomo disponibile dopo aver gettato un’occhiata al registro, facendole cenno di avanzare mentre lei, nell’udire il proprio nome completo, sbiancava e poi si accendeva come un semaforo rosso. “Siediti pure, benvenuta. Salutate, su, bestie,” intimò quindi l’insegnante bonariamente. Un coro svogliato di ciao si levò dall’aula e poi Giù registrò i gesti frenetici della ragazza del corridoio che, dal secondo banco lato finestra, le indicava il posto libero al proprio fianco. Giù, sorpresa, vi si diresse come un naufrago verso la zattera, sorridendo timidamente agli astanti.

“Io sono Michele Ventura, il professore di storia dell’arte,” attaccò amichevolmente il docente non appena si fu sfilata il cappotto. “Sono consapevole dell’inutilità sociale della mia materia, ciononostante mi premurerò di rifilarti solenni quattro quando ti troverò impreparata. Domande?”

Giù scosse diligentemente la testa schiarendosi la voce. Desiderando ardentemente di diventare invisibile prese ad estrarre dallo zaino astuccio, diario e quaderni a caso.

“Bene, allora passerò a riprendere per sommi capi il programma al punto in cui siamo arrivati, mentre vi svegliate tutti,” fece il professore, magnanimamente, senza porle altri quesiti.

Non appena lui ebbe iniziato a parlare, la ragazza accanto a Giù prese a scrivere freneticamente su un quaderno immacolato e lei ritenne, senza possibilità d’errore, di essersi appena seduta accanto alla secchiona.

Poteva andarle peggio, considerò saggiamente. Avrebbe potuto finire accanto alla cheerleader, se fosse stata in America. Meglio così, se non altro la secchiona non avrebbe preteso di fare conversazione.

Invece al cambio d’ora la sua nuova vicina alzò lo sguardo verso di lei con un altro sorriso, pacifica.

“Ce l’hai fatta, allora,” commentò eccitata, come se lei si fosse appena districata in un’esplorazione della foresta amazzonica. “Io sono Eva.”

Giù strinse debolmente la sua mano tesa, con un sorriso di circostanza.

“Giù. Tanto piacere,” smozzicò ritrosa.

“Giuseppina, no? Posso chiamarti Pi?” chiese schiettamente Eva.

Lei la guardò con nuova sorpresa, mentre il primo sorriso sincero le si dipingeva da sé sulle labbra.

“Certo,” confermò, piacevolmente colpita.

Poi un paio di altre ragazze si avvicinarono a fare da comitato d’accoglienza, insieme a un ragazzone alto e nerboruto dalla voce tonante che si presentò come Francesco e le rifilò una pacca cameratesca. Nel giro di cinque minuti, il tempo libero tra una lezione e l’altra, tutti sapevano già che si era trasferita da Trento perché suo padre aveva ricevuto una promozione con dislocazione annessa, che abitava in via Perugia, che preferiva essere chiamata Giù e non Giusy, che era figlia unica, che fumava e che ascoltava musica rock.

L’ora successiva era di matematica e Giù scoprì immediatamente che il secchionismo di Eva era settoriale, perché dopo i primi venti secondi la sconosciuta prese a sussurrare sommessamente. Venne a sapere quindi che quel Francesco Turco della pacca era il migliore amico della sua compagna di banco, che faceva ridere da matti ed era buono come il pane, gli piaceva il cinema e voleva fare lo sceneggiatore. Inoltre la ragazza nel primo banco accanto alla porta, Clara Andreoli, era la leccapiedi della IV C e tutti meditavano di farle lo scalpo, la bionda in terza fila col le tette da urlo, Michela Deninotti, era la figa riconosciuta della scuola e le due ragazze con piercings in fondo e il brunetto magro accanto a loro, capelli lunghi e arruffati in faccia, erano gli ‘alternativi’ della situazione e i compagni preferiti di Eva dopo Francesco, e che gli altri indistintamente erano grossomodo sterco.

Alla faccia dell’innocua secchiona.

“E tu?” sussurrò Giù a quel punto, già più bendisposta. La ragazza pareva avere le idee chiare, se non altro.

Eva la osservò vacua con la sua espressione di benevola illuminazione.

“Io che?”

“Boh,” biascicò Giù, stringendosi nelle spalle. “Che ne so…”

“Io sto qui per studiare il francese. Voglio andare a Parigi a fare l’Accademia delle belle Arti e prendo corsi intensivi di pittura da quando ero in seconda,” iniziò pensosamente Eva, come non sapendo bene che dire.

Giù sentì di amarla.

“Perché non hai fatto l’artistico?” chiese, perplessa.

Eva si strinse nelle spalle, noncurante.

“I miei rompevano. Comunque non è male, sai. Mi piace studiare le lingue e le materie umanistiche, letteratura, filosofia e quella roba lì.”

Giù annui beata, ancora incredula.

Era fantastico. Al suo primo giorno di scuola era riuscita a incontrare l’uomo della sua vita e a trovare una vicina di banco piacevole.

Era molto più di quanto avrebbe mai potuto sognare.

Doveva esserci qualcosa sotto.

 

 

 

 

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     Aglaia: Ahm…ehehehe-glomp. Urk. (Eccetera). Eeehm. Dunque. Andiamo con ordine. Tu sai quanto amo Sirius. Tuttavia in questo periodo ho questa lieve fissazione maniacale per Naruto. Non è colpa mia, è che ci sono un paio di personaggi che si amano in modi che non dirti e un paio d’altri che sono troppo belli e… Insomma. Non è che abbia abbandonato i miei pulciosi, non lo farei mai. Ecco. E, beh, wow, sono contenta che ti sia piaciuto l’inizio di questa originale, mi hai scritto delle cose carinissime – e non sono così brava, ma grazie comunque per averlo scritto ^__^ - e ovviamente sono molto felice che Giù ti piaccia. Qui abbiamo conosciuto Eva – e Tizio, ma non si può parlare di vera conoscenza. Che dire, mi auguro sia altrettanto gradevole. Thanks.

   Yottu_ecco: che simpatico coglionazzo. Bravo, però, sei stato in grado di lasciare una recensione. (Anzi TRE. TRE.) Hai visto che quando vuoi ci arrivi alle cose? Grazie, tato, non solo per questo.

   Little jewel: grazie! Mi fa piacere che l’inizio ti abbia interessata… L’ironia della vita, beh, quella ci va per forza, altrimenti non si va avanti. Mi auguro che il prosieguo ti piacerà ugualmente, e grazie per volermi seguire.

   
 
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