Bene,
bene…altra settimana, altro capitolo.
Ringrazio
caramente chi ha letto, chi ha preferito e, a fondo pagina, chi ha commentato.
Spero
vorrete avere la bontà di fornirmi un’opinione. In caso contrario,
spero almeno che vi divertiate.
suni
I. EVA
Nonostante
l’inconveniente dell’autobus Giù riuscì a farsi
spiegare da una pensionata con la sporta della spesa come raggiungere il liceo
linguistico Italo Calvino, che scoprì poi distare appena dodici minuti,
ovvero cinque fermate. Sull’autobus c’era una calca di altri
studenti che lei finse di non vedere – era bravissima in
quell’attività - rimpiangendo di non avere con sé un cane
per ciechi che potesse trarli in inganno. Prese nota di procurarsene uno per la
prossima volta in cui avesse cambiato scuola e puntò uno sguardo
rarefatto e sonnolento sul finestrino davanti a lei, rimanendo perfettamente
immobile nella posizione yoga della Montagna, cioè piedi divaricati a
larghezza spalle e braccia tese lungo i fianchi, finché la prima frenata
non la mandò dritta nell’abbraccio involontario di un liceale
ignoto sul cui piede atterrò con le suole carrarmato
di entrambi gli stivali e che non osò nemmeno guardare in faccia: violacea,
gli porse inintelligibile scuse. A quel punto la sua posizione mutò in
Montagna-modificata-con-braccio-alzato-per-reggersi-alla-maniglia-apposita e
Giù continuò il suo viaggio estraniandosi completamente dal mondo
circostante, immersa in un mistico torpore.
“Mi
fai scendere?”
La
voce la riscosse d’improvviso facendole fare un palese saltello e, di
nuovo arrossendo, registrò grazie al colore della giacca – un
improbabile arancione – che a parlare era stato il tizio cui era volata
addosso poco prima. Terrorizzata, si fissò i piedi e gli fece largo
biascicando chissà cosa.
“Tu
non ti fermi qui?” chiese il tizio quando fu arrivato alla porta. “Non
vai al Calvino?”
E
Giù si rese conto di non aver fatto caso a quale fosse la sua fermata.
Imprecò mentalmente contro se stessa e lo sguardo le si fece appannato
per l’agitazione mentre, se possibile, diventava ancor più rossa.
Si scaraventò giù al seguito del tizio e a quel punto, suo
malgrado, si trovò costretta allo spiacevole gesto di doverlo guardare
in faccia per ringraziarlo e quando i suoi occhi si sollevarono sul suo viso
mancò poco che un ictus la cogliesse.
Perché
Tizio era, come da regolamento, quanto di più simile a una creatura
ultraterrena che la sua mente potesse concepire.
Aveva
immensi occhi di un azzurro cristallino e un sorriso simpatico corredato di
fossette, qualche leggerissima lentiggine intorno al naso e lineamenti marcati,
ma armoniosi. Sfoggiava una chioma di media lunghezza, un po’ arruffata e
di un biondo cinereo e luminoso che sembrava fatto con Photoshop.
“G-grazie,” gracchiò Giù, incrociando
gli occhi come una strabica nel tentativo eroico di non crollare svenuta.
Tizio
sorrise ancor più meravigliosamente e le fece un piccolo cenno di saluto
con una mano divina che sembrava presa dalle fotografie di Doisneau,
quello de Il Bacio. Giù meditò di staccargliela e tenerla come
reliquia, ma Tizio si stava già voltando per mollarla lì - perfetto,
doveva probabilmente ritenere di aver compiuto la sua buona azione quotidiana
soccorrendo una ritardata - e lei rimase a bocca aperta con lo sguardo da trota
in decomposizione.
Giù
negava fermamente l’esistenza dei colpi di fulmine, eppure in quel
momento seppe con totale e ineluttabile certezza di averne appena subito uno, e
di quelli tosti. Centrata in pieno sulla via di Damasco, o quel che era, dalla
più potente folgorazione mai provata in vita sua, per un Tizio ignoto.
Lo
guardò camminare verso l’ingresso dell’istituto, intorno a
cui gravitava già una folla di studenti, per poi fermarsi sul lato della
piazzetta accanto a due altri ragazzi molto meno impressionanti che lo
accolsero con amichevoli pacche. Uno dei due gli porse un pacchetto di sigarette
aperto e Tizio ne accettò una sorridendo in maniera sempre più
sfolgorante.
A
quel punto Giù rammentò di essere a sua volta una fumatrice e si
riscosse riluttante, spostando intorno uno sguardo dubbioso per scoprire se per
caso da quelle parti o in qualche via laterale si trovasse un tabaccaio, ma
ovviamente la realtà la disilluse.
Si
guardò ancora intorno, meditando sul da farsi. Piuttosto che rivolgere
di propria iniziativa la parola a qualcuno per chiedere una paglia si sarebbe
fumata la matita: sapeva che presto o tardi inevitabilmente avrebbe dovuto
interagire con qualcuna di quelle persone, ma desiderava rimandare il
più possibile quello sciagurato momento.
Sicuramente
sarebbe riuscita a fare una figura di merda appena aperta la bocca.
Sospirò
tristemente tra sé, avvilita. Avrebbe dovuto rimandare la sigaretta al
pomeriggio.
A
quel punto tanto valeva avventurarsi alla ricerca della Presidenza, operazione
che sospettava le avrebbe portato via ingenti quantità di tempo visto il
suo senso dell’orientamento non pervenuto. Con un sospiro atto farsi forza strinse la presa sulle
bretelle dello zaino e serrò gli occhi per un istante, poi
sollevò la testa e varcò a passo quasi militare la soglia del suo
nuovo liceo.
La
sua ultima speranza – cioè che l’universo avesse fine ed
esplodesse con un secondo Big Bang in quel preciso momento - non si
avverò e Giù si trovò nell’atrio scalcagnato e poco
luminoso, con pareti di un ocra vagamente vomitoso,
di quella che pareva una normalissima scuola, in cui altri allievi già
bighellonavano e cercavano la propria classe studiando i numeri sulle porte
lungo i due corridoi laterali. Giù gettò l’ennesimo sguardo
spaurito intorno a sé prima di decidere che, gerarchicamente, la
Presidenza non poteva che trovarsi il più in alto possibile e prese
quindi a salire le scale verso i piani superiori, che scoprì essere tre.
Ma
della Presidenza non c’era traccia.
“Porco
di quel cazzo di vacca,” ringhiò Giù tra sé,
scrutando risentita un anonimo corridoio lungo il quale si susseguivano le aule,
già popolato di alcuni studenti particolarmente mattutini che
vagabondavano senza scopo.
“Come
fa una vacca ad averlo, scusami?”
La
svagata voce femminile proveniente dalla sua destra le provocò il
secondo cardiopalma della mattinata e Giù si voltò di scatto,
incontrando miti occhi marroni che la scrutavano placidi dietro le lenti di un
paio d’occhialini rotondi alla John Lennon. La ragazza che le aveva
parlato era avvolta in un lungo paltò nero, aveva i capelli lunghi e
castani perfettamente lisci e la osservava educatamente.
“E’
un OGM,” borbottò imbarazzata. Poi, visto che la straniera le
aveva parlato per prima, si fece coraggio. “Sai dirmi dov’è
la Presidenza?” chiese velocemente, come sgravandosi di un infausto
fardello.
“Sei
nuova?” rispose l’altra, curiosa.
Giù
annuì senza parlare, timida e a disagio.
“Che
classe fai?” chiese ancora la ragazza, cordiale.
“Quarta.
C,” rispose Giù, ripetendo l’unica informazione utile in suo
possesso.
La
ragazza sorrise, apparentemente entusiasta.
“Siamo
compagne,” annunciò allegramente. “La nostra classe è
questa,” proseguì, indicando la porta a due metri da loro su cui,
effettivamente, troneggiava la scritta IV
C. “La Presidenza invece è a piano terra, corridoio a destra,
ultima porta a sinistra dopo la Segreteria.”
E
ti pareva.
“Grazie,”
bofonchiò Giù, facendo istantaneamente inversione.
“Ci
vediamo in aula!” la salutò la sua nuova compagna sventolando
soavemente la mano.
Giù
annuì gravemente, prima di tornare velocemente sui propri passi nella
speranza di riuscire a non tardare troppo. Le indicazioni si rivelarono esatte
e in capo a tre minuti il preside Anselmi la accoglieva con un pomposo discorso
di benvenuto, le forniva le sommarie indicazioni sul banalissimo e universalissimo regolamento di un normale liceo e la
affidava ad una bidella bassa e tarchiata incaricata di scortarla
nell’aula da cui era appena arrivata.
Ovviamente
la campanella era già suonata e le porte chiuse, compresa la sua. La
bidella bussò sbrigativa e un sonoro “avanti” sancì
la sua condanna. Giù si fece avanti al seguito della donna, sbattendo
nello sguardo paziente di un professore affascinante sui trentacinque anni e
successivamente in una quarantina di ignoti occhi curiosi che la osservavano
dai banchi.
“La
nuova allieva, professor Ventura,” annunciò la bidella con
noncuranza.
“Vieni,
vieni… Corioli Giuseppina, giusto?” la
accolse l’uomo disponibile dopo aver gettato un’occhiata al
registro, facendole cenno di avanzare mentre lei, nell’udire il proprio
nome completo, sbiancava e poi si accendeva come un semaforo rosso.
“Siediti pure, benvenuta. Salutate, su, bestie,” intimò
quindi l’insegnante bonariamente. Un coro svogliato di ciao si levò dall’aula e
poi Giù registrò i gesti frenetici della ragazza del corridoio
che, dal secondo banco lato finestra, le indicava il posto libero al proprio
fianco. Giù, sorpresa, vi si diresse come un naufrago verso la zattera,
sorridendo timidamente agli astanti.
“Io
sono Michele Ventura, il professore di storia dell’arte,”
attaccò amichevolmente il docente non appena si fu sfilata il cappotto.
“Sono consapevole dell’inutilità sociale della mia materia,
ciononostante mi premurerò di rifilarti solenni quattro quando ti
troverò impreparata. Domande?”
Giù
scosse diligentemente la testa schiarendosi la voce. Desiderando ardentemente
di diventare invisibile prese ad estrarre dallo zaino astuccio, diario e
quaderni a caso.
“Bene,
allora passerò a riprendere per sommi capi il programma al punto in cui
siamo arrivati, mentre vi svegliate tutti,” fece il professore, magnanimamente,
senza porle altri quesiti.
Non
appena lui ebbe iniziato a parlare, la ragazza accanto a Giù prese a
scrivere freneticamente su un quaderno immacolato e lei ritenne, senza
possibilità d’errore, di essersi appena seduta accanto alla
secchiona.
Poteva
andarle peggio, considerò saggiamente. Avrebbe potuto finire accanto
alla cheerleader, se fosse stata in America. Meglio così, se non altro la
secchiona non avrebbe preteso di fare conversazione.
Invece
al cambio d’ora la sua nuova vicina alzò lo sguardo verso di lei
con un altro sorriso, pacifica.
“Ce
l’hai fatta, allora,” commentò eccitata, come se lei si
fosse appena districata in un’esplorazione della foresta amazzonica.
“Io sono Eva.”
Giù
strinse debolmente la sua mano tesa, con un sorriso di circostanza.
“Giù.
Tanto piacere,” smozzicò ritrosa.
“Giuseppina,
no? Posso chiamarti Pi?” chiese schiettamente Eva.
Lei
la guardò con nuova sorpresa, mentre il primo sorriso sincero le si
dipingeva da sé sulle labbra.
“Certo,”
confermò, piacevolmente colpita.
Poi
un paio di altre ragazze si avvicinarono a fare da comitato
d’accoglienza, insieme a un ragazzone alto e nerboruto dalla voce tonante
che si presentò come Francesco e le rifilò una pacca cameratesca.
Nel giro di cinque minuti, il tempo libero tra una lezione e l’altra,
tutti sapevano già che si era trasferita da Trento perché suo
padre aveva ricevuto una promozione con dislocazione annessa, che abitava in
via Perugia, che preferiva essere chiamata Giù e non Giusy, che era
figlia unica, che fumava e che ascoltava musica rock.
L’ora
successiva era di matematica e Giù scoprì immediatamente che il secchionismo di Eva era settoriale, perché dopo i
primi venti secondi la sconosciuta prese a sussurrare sommessamente. Venne a
sapere quindi che quel Francesco Turco della pacca era il migliore amico della
sua compagna di banco, che faceva ridere da matti ed era buono come il pane,
gli piaceva il cinema e voleva fare lo sceneggiatore. Inoltre la ragazza nel
primo banco accanto alla porta, Clara Andreoli, era
la leccapiedi della IV C e tutti meditavano di farle lo scalpo, la bionda in
terza fila col le tette da urlo, Michela Deninotti,
era la figa riconosciuta della scuola e le due ragazze con piercings
in fondo e il brunetto magro accanto a loro, capelli
lunghi e arruffati in faccia, erano gli ‘alternativi’ della
situazione e i compagni preferiti di Eva dopo Francesco, e che gli altri
indistintamente erano grossomodo sterco.
Alla
faccia dell’innocua secchiona.
“E
tu?” sussurrò Giù a quel punto, già più
bendisposta. La ragazza pareva avere le idee chiare, se non altro.
Eva
la osservò vacua con la sua espressione di benevola illuminazione.
“Io
che?”
“Boh,”
biascicò Giù, stringendosi nelle spalle. “Che ne
so…”
“Io
sto qui per studiare il francese. Voglio andare a Parigi a fare l’Accademia
delle belle Arti e prendo corsi intensivi di pittura da quando ero in
seconda,” iniziò pensosamente Eva, come non sapendo bene che dire.
Giù
sentì di amarla.
“Perché
non hai fatto l’artistico?” chiese, perplessa.
Eva
si strinse nelle spalle, noncurante.
“I
miei rompevano. Comunque non è male, sai. Mi piace studiare le lingue e
le materie umanistiche, letteratura, filosofia e quella roba lì.”
Giù
annui beata, ancora incredula.
Era
fantastico. Al suo primo giorno di scuola era riuscita a incontrare
l’uomo della sua vita e a trovare una vicina di banco piacevole.
Era
molto più di quanto avrebbe mai potuto sognare.
Doveva
esserci qualcosa sotto.
_________________________________________
Aglaia: Ahm…ehehehe-glomp.
Urk. (Eccetera). Eeehm. Dunque.
Andiamo con ordine. Tu sai quanto amo Sirius. Tuttavia in questo periodo ho questa
lieve fissazione maniacale per Naruto. Non è colpa mia, è che ci
sono un paio di personaggi che si amano in modi che non dirti e un paio d’altri
che sono troppo belli e… Insomma. Non è che abbia abbandonato i
miei pulciosi, non lo farei mai. Ecco. E, beh, wow, sono contenta che ti sia
piaciuto l’inizio di questa originale, mi hai scritto delle cose carinissime
– e non sono così brava, ma grazie comunque per averlo scritto
^__^ - e ovviamente sono molto felice che Giù ti piaccia. Qui abbiamo
conosciuto Eva – e Tizio, ma non si può parlare di vera
conoscenza. Che dire, mi auguro sia altrettanto gradevole. Thanks.
Yottu_ecco: che simpatico coglionazzo. Bravo, però, sei stato in grado di
lasciare una recensione. (Anzi TRE. TRE.) Hai visto che quando vuoi ci arrivi
alle cose? Grazie, tato, non solo per questo.
Little jewel: grazie! Mi fa piacere che l’inizio
ti abbia interessata… L’ironia della vita, beh, quella ci va per
forza, altrimenti non si va avanti. Mi auguro che il prosieguo ti
piacerà ugualmente, e grazie per volermi seguire.