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Autore: IsabellaLilithLeto    27/03/2015    0 recensioni
" la voce di Ben rimbomba nelle mie orecchie."
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Mi alzo dal letto, mi sento distrutto.

Questa notte non sono riuscito a dormire, nemmeno quelle poche ore che ho avuto a disposizione.

Sposto le tende color crema della finestra che ho di fronte: il cielo è plumbeo, l’aria tiepida, esattamente come mi sento io.

Vado in bagno e mi sciacquo il viso ricoperto di trucco, dagli occhi contornati di un nero sbiadito, al rossetto di un rosso scarlatto ricoperto dal gloss; alzo la testa e guardo il mio riflesso allo specchio: il mio volto è abbattuto, svigorito, non sembro nemmeno più io.

Con una mano mi accarezzo la guancia dove prima si trovava una forte tonalità di blush rosa pesca, ora la pelle è ruvida, impura.

Tasto il mento perfettamente depilato dalla peluria di qualche giorno prima, uno come me non può permetterselo, uno come me deve nascondersi, per poter sopravvivere.

Abbandono il braccio lungo il corpo e faccio ritorno in camera mia, spalanco l’armadio color noce riempito dai miei stravaganti abiti di “lavoro”, e ci infilo dentro il vestito giallo canarino con tanto di piume, della sera prima; velocemente lo richiudo e apro invece il cassettone bianco sotto la specchiera, quello che custodisce l’altra parte della mia vita, quella secondo gli altri “vera”.

Afferro una felpa blu e dei jeans, scuri, indosso tutto e torno in bagno per lavarmi i denti.

Quando alzo la testa dal lavabo, l’immagine riflessa è per me la maschera che indosso.

Sono tornato uomo, tornato ad essere “normale” alla società, tornato ad essere Adam.

Adam, è qualcuno che non mi appartiene, uno estraneo nel quale la mia anima alberga perché non ha trovato altro spazio, non ha trovato altra dimora, non ha trovato un involucro più adeguato..qualcosa che la facesse sentire bene.

Smetto di fissare lo sconosciuto che ho davanti e scendo di sotto in cucina, mangio un muffin che avevo lasciato il giorno prima in dispensa, bevo un bicchiere di latte fresco ed esco.

Nonostante il cielo sia grigio scuro, l’aria non è affatto fredda e non mi stupisco considerando che siamo ad quasi a Giugno; percorro a piedi il viale alberato del mio quartiere, dei bambini scorrazzano allegri rincorrendosi fra loro, un cane abbaia dalla staccionata, le auto percorrono le strade l’una parallela all’altra, il vento scuote appena le chiome degli alberi e qualche fiore mi vola davanti.

Ne afferro uno con la mano, sfioro il petalo bianco che ho depositato sul palmo…

Mi sento come quel petalo, estirpato da quella che era la sua effettiva composizione, dalla sua forma, quella vera.

Lo lascio cadere e continuo ad avanzare per la mia strada, direzione: casa dei miei genitori.

È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che gli ho fatto visita, sono successe molte cose, per lo più spiacevoli e non penso le racconterò con l’incontro di oggi.

Cammino per un altro paio di minuti, -avrei potuto prendere l’auto ma ho preferito fare una bella passeggiata, di domenica mattina è un toccasana- e poi finalmente mi ritrovo di fronte l’imponente casa dal tono grigio scuro: quanto mi era mancata.

Indugio sul viale di quella dimora a me familiare aspettando un segnale, qualcosa che mi stimoli a fare altri passi in avanti e bussare al campanello bianco; deglutisco e mi gratto la testa nervoso.

Posso farcela.

Le gambe mi tremano mentre mi avvio verso la porta e non mi accorgo nemmeno di aver premuto il dito sul campanello.

Improvvisamente la porta si spalanca lasciando il suo posto alla figura esile e minuta di mia madre; la sua espressione è indecifrabile, tra la felicità, la tristezza e l’ira.

Con un movimento incerto faccio un cenno della mano in segno di saluto:«Ciao, mamma», la voce mi trema.

Lei mi osserva immobile sulla soglia di casa, non accenna un saluto, né un sorriso.. resta ferma come una sfinge, una faccia da poker sul volto.

Basta però un attimo, e me la ritrovo sul corpo: mi sta abbracciando o almeno, cerca di stringere le sue braccia corte intorno alla mia presenza.

Ricambio subito, mi era mancato un gesto del genere da parte sua, non me lo sarei mai aspettato.

Mancavo a casa da almeno due anni, non avevo mai fatto una telefonata, o mandato un sms sulle mie condizioni di vita e per questo pensavo che lei ce l’avesse a morte con me.

Probabilmente è così, ma cerca di evitare la cosa per il momento e lo apprezzo molto.

Sfugge alla mia presa da orso e mi fa cenno di entrare.

La mia abitazione è quella di sempre: arredamento moderno che si aggiorna via via con gli anni, le pareti di una tonalità fredda che ho sempre avuto il piacere di apprezzare, le piante curate alla perfezione e poste negli angoli più appropriati..è tutto perfetto.

Tutto come lo ricordavo.

Tutto come mi è sempre piaciuto.

Seguo mia madre in salotto e mi siedo sulla poltrona dov’ero solito accostarmi quando ero giovane e vivevo con loro.

«Vado a preparare una tazza di tè, aspettami qui» dice scomparendo in cucina.

Mi rigiro i pollici e di tanto in tanto lancio un’occhiata a mia madre che prepara il tè; ripone tutto accuratamente sul vassoio di vetro, dispone dei biscotti al cioccolato in un piattino e torna finalmente in salotto.

Appoggia il vassoio sul tavolino e mi siede di fronte, alza gli occhi su di me e mi fissa.

«Come stai?» mi chiede fredda, come suo solito.

Mia madre non è mai stata una donna ricca di affetto da rilasciare ad altri, bensì si è sempre dimostrata come una persona forte, in grado di distruggere una montagna con le mani, quindi anche ora, non è cosa nuova per me che si comporti in modo distaccato e rigido.

Sostengo il suo sguardo per un attimo e mi affretto a rispondere:«Va tutto bene» mento spudoratamente, «Tu come stai? Papà..come sta?»

Spero che lei non se ne accorga, ma conoscendola, dubito che questo non accada.

Afferra la tazza che ha davanti e beve un sorso, poi mi risponde:«Stiamo bene».

Non ne sono convinto, ma lascio correre come lei ha fatto con me.

Comincio a consumare il tè e i biscotti che mi ha servito e restiamo in silenzio concentrandoci soltanto sul rumore delle nostre bocche che quasi paiono ruminare, e quello delle tazzine in ceramica che vengono appoggiate sul vassoio di vetro.

«Ben come sta?» la sua domanda mi spiazza totalmente.

Ci manca poco per farmi strozzare con un pezzo del frollino appena addentato e per un breve istante i suoi occhi si allarmano.

«Io..io e Ben non stiamo più insieme..» rispondo quasi in un sussurro.

Il rumore della sua ciotola mi fa quasi sobbalzare.

«Cosa? Come mai?»

Da quando mia madre..è così apertamente preoccupata per me?

Mi gratto il mento nervoso.

«Lui ha deciso che era meglio così, ultimamente non andavamo più molto d’accordo» anche il mio tono ora è simile al suo.

Non mi va di ricordare Ben, non mi va di rammentare tutti i giorni felici trascorsi con lui prima che mi tradisse; è stato un duro colpo per me, ancora non ne sono uscito.

Continua a mancarmi terribilmente, in ogni cosa che faccio, in ogni cosa che osservo..era il mio mondo, è ha deciso di distruggere tutto per un altro, uno sconosciuto qualunque.

Questo mi ha fatto semplicemente pensare che io non fossi abbastanza per lui, ma io non sono abbastanza per nessuno.

Ed è per questo che oggi sono qui, dopo molto tempo, per scusarmi.

Mia madre mi accarezza una mano, poi la stringe dolcemente, è un gesto così insolito che spontaneamente mi salgono le lacrime agli occhi e difficilmente, tento di trattenerle: non voglio che mi veda in questo modo.

Cerca di rassicurarmi, come non ha mai fatto in tutta la mia vita, è riuscita a leggere il dolore nei miei occhi, a percepirne l’intensità da uno sguardo; ricambio la stretta di mano e cerco di sorriderle per tranquillizzarla come sta facendo con me in questo momento.

Una madre però, capisce sempre il suo bambino e tutto è a causa di quel cordone ombelicale che ci unisce fin dall’infanzia in modo indissolubile.

Anche se volessi odiarla per non avermi compreso all’inizio, non potrei mai farlo.

Ad un tratto la porta di casa si apre e la figura imponente di mio padre si affaccia nel salone dove ci troviamo.

Ricordo che quand’ero bambino, mio madre era molto più grosso di me e ne avevo timore, mi rammentava un orco dal quale dovevo difendermi per restare in vita; lui non mi ha mai compreso, né quando ancora era incosciente della mia vera natura, né dopo e io non ho fatto assolutamente nulla perché lui mi accettasse.

Non ho mai costretto nessuno a sopportare la mia diversità che di questi tempi dovrebbe comunque essere all’ordine del giorno, mi sono sempre circondato di persone che mi accettassero per quello che sono davvero, una donna in un corpo di un uomo, Alyssa, non l’Adam che tutti conoscono.

Lui non ha mai voluto tentare di istaurare un rapporto con me ma devo ammettere che la colpa è stata un po’ anche mia. Io non gli ho permesso di farlo, la nostra è stata una confidenza di sopravvivenza familiare, siamo stati come costretti dal caso a definirci “padre e figlio”, non di certo per scelta.

Il suo sguardo severo stavolta, non mi procura i brividi né la stessa paura che mi causavano un tempo: sono rilassato, del tutto calmo, non ho alcuna voglia di litigare tantomeno davanti a mia mamma.

«Che ci fa lui qui?» chiede arrabbiato a mia madre che in tutta risposta si alza piazzandosi di fronte a lui con sguardo severo e di rimprovero.

È così piccola e indifesa confronto al grande mostro che ha dinanzi, sono entrambi gli antipodi eppure ricordo che un tempo si sono amati tanto, con tutto l’ardore di quegli anni di cui erano in possesso; sono due sconosciuti l’uno per l’altra e so di essere stato io la causa del disfacimento del loro rapporto.

Una volta ero convinto che non si sarebbero lasciati per niente al mondo, pensavo innocentemente, che il loro amore fosse indistruttibile..ma come sempre mi ero sbagliato.

Non avevo fatto un piccolo calcolo, ovvero me.

«Lui può venire tutte le volte che vuole» dice mia madre puntandogli un dito contro.

Mio padre di tutta risposta le sposta la mano dal petto e sembra –se è possibile-, farsi ancora più grande:«Io non lo voglio in casa mia. Non voglio che quel frocio sieda sul mio divano. Hai capito?» il suo tono di voce è perentorio.

«Non ti permetto di parlami in quel modo, Peter!»

Strillano l’uno contro l’altro e io sono già stanco di questa sceneggiata.

Mi alzo e afferrando mia madre per le spalle, le do’ un bacio sulla testa, trai capelli ingrigiti e profumati; si volta a guardarmi con gli occhi lucidi ma so che non piangerà, è troppo orgogliosa per farlo ed io questo lo devo a lei.

«Va tutto bene..» le sussurro dolcemente e per tutta risposta mi stringe l’indice della mano sinistra.

Mio padre mi sta ancora guardando con disprezzo e vergogna.

«Non guardarmi con quegli occhi. Anche io mi vergogno. Mi imbarazzo a sapere di avere un padre come te che non è capace di provare sentimenti, che non è per niente intelligente come mi aspettavo. Hai ragione quando dici che sono sempre stato un illuso, mi sono illuso di poter aver una figura paterna coscienziosa e che sapesse comportarsi da padre, come sarebbe giusto. Non importa però, io non ho mai avuto bisogno di te come tu di me» dico tutto di getto, non gli lascio nemmeno il tempo di rispondere, ma a giudicare dalla sua espressione, non penso avesse in mente di farlo.

Mia madre mi guarda sbalordita, gli occhi sorpresi.

«Ti voglio bene mamma, e scusami per tutto..».

Mi avvio alla porta e mi volto soltanto per farle un cenno della mano.

Sta piangendo, la muraglia cinese è stata abbattuta; non posso restare e vederla così.

Richiudo la porta alle mie spalle e mi incammino verso casa alla stessa velocità con il quale sono venuto fin qui.

I miei passi sono lenti e silenziosi, come la mia mente in questo preciso momento.

Il tragitto verso la mia dimora mi pare duri una vita, lungo la strada i miei occhi non ha visto, le mie orecchie non hanno udito, i miei sensi sono stati come ovattati, solo un ronzio nella mente comunque troppo distante perché potessi rendermene conto.

Quando finalmente giungo a destinazione mi dirigo in camera, prendo le solite pastiglie e mi getto sul letto: non ho intenzione di pensare, non voglio dover badare a nulla.

La testa mi fa male ma il dolore pian piano scema lasciando lo spazio al sonno che, anche se turbolento, finalmente arriva.

 

 

Mi sveglio esattamente alle dieci di sera, il cielo è già buio e le luci a neon dei lampioni fuori dalla finestra, mi accecano gli occhi.

Grattandomi l’occhio mi metto a sedere, il dolore alla testa è passato ma non tarderà molto a ritornare; penso che devo prepararmi se voglio arrivare in tempo a “lavoro”.

Vado in bagno a lavarmi, dopodiché torno in camera e mi posiziono dinanzi allo specchio cominciando a truccarmi.

In quel momento rammento gli insegnamenti sul makeup della mia vecchia migliore amica, la dolce e simpatica Marie, quanto mi manca anche lei..

Ricordo il primo giorno che decidi di farmi truccare da lei, avevo solo sedici anni ma la stessa predisposizione di adesso; mi ha sempre sostenuto, fino a quando le nostre strade non si sono separate per scelte diverse, ambienti diversi, vite diverse.

Il nostro sentiero differente ci ha condotti ad un punto di non ritorno, ma non riuscirò a dimenticarmi di lei e lo stesso vale per la sua anima gemella, l’altra mia compagna di vita, la pazza Cassie.

Quante ne abbiamo trascorse insieme nel tentativo di farmi maturare e affrontare i rischi che la società ci impone..

Inevitabilmente mi ritrovo a piangere e con il dorso della mano mi asciugo le lacrime dal viso.

Continuo la mia opera passando alle ciglia finte, e inseguito al rossetto rosso scuro, il mio preferito.

Guardandomi allo specchio ritrovo me stesso o meglio, me stessa.

Questa persona che ho di fronte ora la riconosco, ha grandi occhi scuri truccati al meglio, i lineamenti ben curati, il sorriso femminile ammaliante..

Questa persona che ho di fronte, è quella che ho sempre voluto essere.

“Sei bellissimo così come sei. Adam o Alyssa, che differenza fa? La tua anima rimane la stessa, quella che io amo e di cui mi sono innamorato” la voce di Ben rimbomba nelle mie orecchie.

Lui sapeva amarmi come volevo, sapeva apprezzarmi come un vero uomo guarda la sua “donna”..è un qualcosa che non ritroverò mai in nessun altro, non troverò mai un altro Ben, da nessun parte.

Era un amico, un fratello, un padre, un complice, un fidanzato..tutto quello di cui potessi aver bisogno nella mia dura vita.. qualcosa che non ero stato in grado di custodire con cura e che qualcun altro aveva afferrato come un ladro portandolo via da me.

Scuoto la testa, niente lacrime.

Scelgo un vestito blu dall’armadio: è vaporoso e con un grosso scollo a cuore; infilo le protesi nelle coppe dell’abito e lo indosso passando poi alle scarpe argentate dal tacco vertiginoso.

Di nuovo fisso il mio riflesso.

Sono stato una delusione.

Sono una delusione.

Ho perso tutto ciò per cui valeva la pena vivere in questo mondo triste e povero di sentimenti, un mondo dove quelli come me non trovano pace.

Non si può tornare indietro, io non voglio tornare indietro: ho abbracciato questa parte di me, l’unica cosa che ora mi fa sentire vivo.

Afferro la parrucca castana e me la infilo sulla testa.

Ho perso tutto, ma l’unica cosa che non ho smarrito, è me stesso.

«Ben ritrovata Alyssa» dico con un sorriso sul volto.

Tutto ciò che mi resta…semplicemente me.

  
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