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Autore: Claheaven Anfimissi    18/12/2008    5 recensioni
“How can i decide whats right? When your clouding up my mind, I cant win your losing fight, all the time” [Decode – Twilight Soundtrack]. L’incontro tra Edward e Bella. Due momenti importanti, ispirati al primo romanzo della Saga di Stephanie Meyer, rivisitati e vissuti attraverso gli occhi di Edward Cullen.
Genere: Romantico, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Decode, significa decifrare.
Il titolo si ispira all'incapacità di Edward di leggere i pensieri di Bella.
Siamo un po' emozionate, e ci sentiamo sulla stessa lunghezza d'onda di Bella e della sua goffaggine per questa shot.
Perchè è dedicata ad un'amica, e, nonostante i vari ostacoli durante la stesura, ci abbiamo messo il cuore.
Quindi, Giudy, questa è per te, buon compleanno.
Perchè, dedicandola a te, diventa subito speciale.
Ti vogliamo bene.
Lau & Cla.



Quando arrivai in classe, lei era già lì.

Alle chiacchiere frivole dei miei compagni di classe si aggiungevano i loro altrettanto futili pensieri, un sottofondo costante che mi saturava le orecchie.
Non appena la vidi, trattenni il fiato, imponendomi di non respirare.
Avevo trascorso gli ultimi giorni a caccia, nel vano tentativo di placare quella sete che – in sua presenza – si rivelava quasi incontrollabile.
Sentivo la gola ardermi, bramare quel nettare rosso e vivo. Ma questa volta potevo resistere. Dovevo, resistere.
Lei se ne stava china sul banco, lo sguardo fisso sulla copertina del quaderno che stava scarabocchiando. Non alzò gli occhi nemmeno quando le passai vicino, prima di prendere posto accanto a lei.
Scrutava caparbiamente i propri disegni, ben decisa a non alzare lo sguardo.
Ripensai al mio comportamento della volta precedente, e a quanto dovesse esserle sembrato strano, per non dire offensivo.
Forse, se avessi letto i suoi pensieri...
Mi ero riproposto di non rivolegerle parola, di ignorarla. C’era qualcosa in lei, qualcosa che nessun’altro essere umano possedeva, e a cui ancora non sapevo a dare un nome.
Di qualunque cosa si trattasse, sentivo per certo che non avrebbe portato a nulla di buono.
Il buonsenso mi diceva di dimenticarmi della sua esistenza. Eppure, non ci riuscivo.
Volevo sapere, volevo conoscerla. Non era tanto un desiderio, quanto un bisogno.
Una necessità a cui non riuscivo a sottrarmi.
Era come una forza impalpabile, che scuoteva profondamente tutto il mio essere. E mi attirava inesorabilmente verso di lei con la stessa intensità con cui cercavo di sfuggirle.
Avevo sete di lei e contemporaneamente avevo bisogno si sentirla vicina. Al sicuro.
Questa sensazione mi sconvolgeva non poco. Mai, nei miei quasi cento anni di vita avevo avvertito qualcosa di anche solo lontanamente paragonabile.
Esisteva solo la sete, a regnare sovrana  - e repressa -  su tutto.
Gli occhi ancora fissi su di lei, distesi le rughe della fronte in un’espressione ingannevolmente serena.
“Ciao” – affermai, abbozzando un sorriso.
La vidi sollevare la testa di scatto, per poi fissarmi con uno sguardo incerto, titubante.
Probabilmente pensava che avrei continuato a ignorarla in eterno.
“Non credo di aver ancora avuto l’occasione di presentarmi” – continuai – “Sono Edward Cullen. Tu sei Bella Swan, giusto?”
Notai un bagliore sorpreso attraversare le sue iridi nocciola, e compresi all’istante il motivo del suo stupore. L’avevo chiamata Bella.
Il soprannome che lei preferiva, e che io avevo spesso letto nei pensieri di Mike Newton e degli altri studenti con i quali aveva stretto amicizia.
“Mi è sembrato di capire che preferisci essere chiamata così” – l’anticipai, vago.
“S-sì” – la voce le tremava, mentre si spostava una ciocca di capelli dietro l’orecchio – “Bella va bene. Solo, Charlie...voglio dire, mio padre...beh, ecco, lui insiste nel chiamarmi Isabella.”
Annuii impercettibilmente, gli occhi posati altrove. Da quell’angolazione potevo vedere la giugulare pulsare sotto la pelle sottile del suo collo. Una tentazione a cui solo una settimana prima non avrei saputo resistere.
Distolsi velocemente lo sguardo, e finsi di riportare la mia attenzione sul professor Banner, intento a sproloquiare di vetrini e cipolle d’oro. Terminata la spiegazione, montai il primo vetrino sul microscopio.
“Prima le signore” – dissi educato, fingendo un leggero sforzo mentre sospingevo il pesante strumento verso di lei.
Silenziosa, si curvò in avanti, scrutando attentamente all’interno dell’oculare.
“Non sei più venuto” – commentò, sollevando un attimo lo sguardo.
“Sono stato fuori città per un paio di giorni” – risposi prontamente – “Motivi personali”
Non riuscìì a trattenere una smorfia. Era tanto assurdo da sembrare incredibile.
Avevo detto la pura e semplice verità – una delle rare volte in cui potevo permettermelo – eppure mai nessuno avrebbe potuto comprendere appieno il significato delle mie parole.
Nella mia mente, l’immagine di un alce in fuga nella foresta. Un disperato tentativo di sottrarsi alla morte.
E alle sue calcagna, io. Forte, veloce.
Assetato.
Bella tornò a guardare un’ultima volta nel microscopio, la mano fissa sullo stativo.
“Profase”- annunciò qualche secondo dopo.
“Permetti che io dia un’occhiata?” – domandai, conscio che le mie tipiche espressioni di cortesia dovevano suonarle quanto meno strane, considerato che appartenevano a un’altra epoca. Era un tratto di me che non ero riuscito a cancellare del tutto.
O forse, non avevo voluto farlo.
Del resto, era l’unica cosa che avevo conservato di Edward Masen. L’unica, che gli era sopravvissuta.
Strano, come a volte parlassi di me stesso in terza persona.
Strano...ma vero. Perchè di fatto quella persona non esisteva più.
Al suo posto, solo un essere dannato.
Afferrai il microscopio, e per un istante le nostre dita si toccarono.
Bella rabbrividì, scostandosi istintivamente. Poi mi guardò.
Che dita fredde...” – sembravano volermi dire i suoi occhi.
“Scusa” – dissi asciutto, distogliendo lo sguardo.
Diedi una rapida occhiata al vetrino. Mi bastò una frazione di secondo per stabilire lo stato meiotico delle cellule in divisione – “Profase” – decretai, annotandolo sul quaderno.
“Come avevo detto io” – puntualizzò.
Sembrava meno a disagio di prima. Cercava di inquadrarmi, esaminandomi attentamenti nei pochi momenti in cui fingevo di non prestarle attenzione. Ma potevo percepire il suo sguardo, costantemente fisso su di me.
Mi chiesi a cosa stava pensando, perchè tra le tante voci che percepivo nella mia testa, la sua era l’unica che mancava.
Probabilmente non stava pensando a niente, decisi. Tuttavia, l’dea di sentirla m’intrigava sempre di più. Ero curioso.
Curioso come non lo ero mai stato prima.
“Allora...” – azzardai, ben deciso a soddisfare il mio capriccio – “...Ti piace la piogga?”
Buttai lì la domanda senza nemmeno soffermarmici troppo sopra.
Lei sgranò gli occhi, spiazzata.
“Mi stai chiedendo...” – replicò sorpresa, deglutendo a vuoto prima di schiarirsi la voce – “Mi chiedi cosa penso del tempo?”
Effettivamente era una domanda idiota.
“Si..” – soffiai, la mente già concentrata su di lei, volta a percepire anche il più lieve pensiero – “Direi di sì”
Bella si strinse nelle spalle, le dita delle mani intrecciate. Sembrava stesse pensando a una risposta che non fosse banale quanto la mia domanda.
Sembrava stesse pensando...ma io non riuscivo a sentirla.
Niente di niente.
“La pioggia non mi piace per niente” – esordì un attimo dopo – “Ogni cosa fredda e bagnata, proprio non...” – e si interruppe, scuotendo la testa.
Evitai di mostrarmi sconvolto.
Da quando ero stato trasformato in un vampiro avevo sempre sentito i pensieri delle altre persone.
Sempre, di tutti.
Esseri umani, vampiri. Delle volte mi ero detto che avrei forse potuto sentire anche i pensieri degli animali, se questi fossero stati coscenti.
Mi ritrovai presto a ridere da solo, per l’assurdità della situazione.
“Perchè ridi?”
Scossi la testa, mentre montavo un nuovo vetrino – “Niente” – risposi, le labbra ancora piegate in un sorriso che rivelava i miei denti, bianchi e perfetti.
Bella Swan era per me un’eccezione.
Avevo capito subito che non era come tutti gli altri, che in lei c’era qualcosa di diverso.
Il suo profumo era il richiamo più forte che avessi mai sentito. La sua presenza, poi, sembrava sconvolgere un lato di me di cui avevo ignorato l’esistenza fino a quel momento.
Mi piaceva il suono della sua voce, ogni sua minima espressione.
Era tutto sbagliato, ma anche tremendamente bello.
Una sensazione strana, come se avessi appena trovato qualcosa che attendevo da sempre.
Qualcosa di cui non avevo mai sentito la mancanza, qualcosa che nemmeno sapevo di volere.
Ma che ora non riuscivo più a lasciare.
Gettai una rapida occhiata all’interno dell’oculare – “Anafase” – affermai subito dopo.
“Permetti che io controlli?” – mi chiese, utilizzando di proposito le mie stesse parole.
“Certo” – acconsentii, reprimendo un altro sorriso.
Era indubbiamente frustrante non riuscire a leggerle nella mente...ma era anche una cosa nuova, uno stacco dalla monotonia che rivestiva le mie interminabili giornate.
La osservai mentre metteva girava la rotella per la messa a fuoco: a differenza dei miei, i suoi occhi da soli non erano in grado di scorgere il contenuto delle microscopiche cellule con sufficiente nitidezza.
“Anafase” – dovette concordare poco dopo, mordendosi il labbro inferiore.
“Come avevo detto io” – replicai, citandola a mia volta.
Ci conoscevamo da meno di mezz’ora. Trenta minuti passati per la maggior parte a parlare di epidermide di cipolla.
Eppure, in quel breve frangente, era come se si fosse già creato un legame tra noi.
Profondo, atteso, pericoloso.
Inevitabile.
Parlammo del più e del meno per il resto della lezione. Le chiesi del perchè si fosse trasferita a Forks, dato che sembrava detestarne il clima. Mi rispose che sua madre si era risposata, che col patrigno  – Phil – andava d’accordo ma che si sentiva comunque d’intralcio, e che per questo aveva deciso di venire a vivere con Charlie, suo padre.
Mi veniva naturale cercare di leggere le risposte nella mente, prima che le dicesse a voce. Era come essere improvvisamente privati di un senso fondamentale, fosse la vista, l’olfatto o l’udito.
Per me, leggere il pensiero era esattamente questo.
Tutto ciò mi portava ad essere più loquace del solito. Non ero abituato a conoscere le persone in modo tradizionale, e mi riscoprii a porle un sacco di domande e a tentare di decifrare dalle sue espressioni ciò che la sua mente mi taceva.
Finita l’ora di biologia, m’incamminai con lei lungo il corridoio affollato. Bella teneva in mano la cipolla d’oro, stravagante trofeo che ci eravamo guadagnati con la corretta identificazione di tutti i vetrini.
Lo confesso, per un attimo, un solo breve istante, dimenticai di essere un vampiro.
Continuavo a non respirare e la mia gola ardeva di sete come sempre.
Ma ero troppo preso da lei, per fargli caso.
Mi stregava. Catturava la mia attenzione, facendo sbiadire tutto il resto.
Non mi ero mai sentito così, prima di allora.
Mai, nella mia vita da vampiro. E forse, nemmeno durante la mia breve esistenza da essere umano.
“Porti le lenti a contatto?”
Quella domanda spezzò i miei pensieri, lasciando che la cruda realtà mi rovinasse addosso.
Bella mi guardava con occhi strani, insicuri e curiosi.
Strani.
Così apparivano i membri della famiglia Cullen al resto del mondo. La gente non ci capiva. Non sapeva. Ma quanto percepivano era sufficiente a farli stare alla larga da noi.
Bella era diversa. Sembrava non rifuggire quella sensazione. Al contrario, ne era attratta quanto io lo ero da lei.
Ma se anche Bella fosse stata diversa da tutti gli altri umani, io ero comunque quello di sempre: un mostro.
“No” – mi limitai a rispondere.
Osservai le sue sopraciglia inarcasi, e l’espressione perplessa e confusa distorcerle il volto – “Avevi gli occhi neri la scorsa settimana” – continuò – “Ora sono di un castano dorato. Non capisco...”
Non capiva.
Non avrebbe mai potuto capire.
“Sono le lampade al neon...” – risposi a denti stretti, prima di voltarle le spalle.
Poi, trassi un profondo respiro.
L’odore di lei mi giunse alle narici in un istante, cancellando gli stralci di umanità che mi ostinavo a preservare, per poi ridiscendere a infiammarmi la gola.
L’istinto di un animale, racchiuso in un corpo dalle sembianze umane.
Nessuna pietà, nessuna speranza.
Me ne andai, allontanadomi lungo il corridoio a grandi falcate.
Non potevo negare ciò che ero.
E lei, per quanto la potessi desiderare sotto ogni aspetto, non avrebbe mai potuto fare parte del mio mondo.

***


Tolsi le chiavi dal quadrante e scesi dalla macchina lanciando una breve occhiata alla figura longilinea di Alice.
La leggera pioggia mattutina le imperlava i capelli e le conferiva quell’aria radiosa che alle otto di mattina, con ancora una schiera di lezioni davanti, riusciva a farmi storcere il naso.
Lei ridacchiò, sfiorandomi il gomito con le dita delicate ed invitando, con un leggero cenno del capo, me e Jasper ad avviarci verso l’entrata.
Con la coda dell’occhio individuai il pick-up di Bella, miracolosamente intatto. Serrai le palpebre per un secondo, ricordandomi l’effetto che avrebbe scatenato nel mio corpo la vista del suo viso.
Non era bastato avvisarla, minacciarla o semplicemente evitarla per farle capire che in nessun logo, futuro o dimensione spazio-temporale io e lei avremmo dovuto intrattenere una conversazione.
“Cos’hai intenzione di fare?” – la domanda di Alice, pronunciata con voce sommessa tanto da farmi credere che non avesse mai abbandonato le sue labbra, mi colse impreparato.
Scrollai le spalle impercettibilmente, ignorando i pensieri di mia sorella, immagini pronte a ricondurmi a lei e solo a lei.
“Ehi” – obiettò Jasper – “Mi sento sgarbatamente escluso dalla discussione, ho intenzione di farvi sentire in colpa, se non vi dispiace”.
“Dicevo a Edward che è monotematico” – sorrise, scostandosi una ciocca mora dal viso – “E che ora è il caso di togliere il disturbo”.
Jasper annuì brevemente, intravedendo la figura di Bella sulla porta.
Indossava un semplice maglione blu scuro e dei jeans, aveva scelto una tonalità che sapeva essere la mia preferita sulla sua carnagione.
Strinse le mani sul cuoio della tracolla, distogliendo per un attimo lo sguardo per poi posarlo nuovamente sul mio viso.
Alice e Jasper la salutarono, ma lei parve accorgersene solo in un secondo momento, alzando la mano, goffamente ricoperta di cerotti, e distendendo le dita pallide in un cenno cortese.
Tenni la porta aperta e la invitai ad entrare, un refolo d’aria calda proveniente dal corridoio le scompigliò i capelli, investendo il mio olfatto con il suo profumo.
Infilai le mani nelle tasche anteriori dei jeans, attraversando il corridoio senza aspettarla. Non avevo bisogno di girarmi e osservarla per sapere che mi stava seguendo.
Mi era sufficiente inalare l’ossigeno presente nella stanza per avvertire la sua presenza con uno schiaffo sul viso.
“Edward” – la voce risuonò cupa e forse un po’ risentita. Continuava a stupirmi la sua reazione priva di logica e di spirito di sopravvivenza.
Era arrabbiata e ferita perché io la stavo ignorando invece di esporla al rischio di dare un taglio prematuro alla sua esistenza.
Mi bloccai, combattuto, sino a girarmi di scatto verso di lei. Avrei dovuto calcolarlo con più chiarezza, sapere che i tempi di reazione di qualsiasi umano non erano paragonabili alla mia fluidità nell’agire, figurarsi se si analizzavano le capacità motorie di Bella.
Inciampò, sul suo piede probabilmente, e invece di mettere avanti le mani per proteggersi si lasciò andare a peso morto verso il pavimento.
L’afferrai per la vita, attento a non metterci troppa forza per non stringere con violenza quei fianchi esili.
“Non pensavo stessi per fermarti”- si giustificò, posando le mani sulle mie spalle – “Quindi avevo deciso di correre, ma quando corro inciampo e quando una persona frena bruscamente il mio corpo va in tilt e non sa che messaggio mandare ai muscoli”.
“Bella” l’ammonii, ignorando i suoi polpastrelli intenti a seguire la linea della clavicola.
“E’ colpa di mia madre, mi ha sempre detto che l’educazione fisica era una materia inutile”- continuò a farfugliare, stringendomi la maglia – “Non sono imbranata, è uno stato mentale”.
“Bella”
“Non ignorarmi, ti prego..” – mormorò, rivelando i suoi luminosi occhi castani – “Non puoi, avevi promesso..”
Rifilai un’occhiataccia ad un gruppo di studenti poco lontano da noi, intenti ad osservare la scena.
Compresero il messaggio, dileguandosi frettolosamente.
Posai una mano sulla sua schiena, invitandola a seguirmi sino alla mensa completamente deserta.
Presi posto nel primo tavolo disponibile, ignorando l’odore di disinfettante che ancora permeava l’aria, mi concentrai sul profumo di Bella.
Invitante, dolce e in grado di annebbiarmi la mente.
Mi passai una mano tra i capelli, inspirando rumorosamente, sino ad avvertire la freschezza delle sue dita contro la guancia.
“Mi dispiace per prima” – si scusò, prendendo posto accanto a me e cercando il dorso della mia mano per accarezzarlo.
“Non dovresti essere dispiaciuta, dannazione” – sibilai, guardandola negli occhi con una tale freddezza che la fece sussultare - “Dovresti avere paura di me, non tentare di rimanere sola con me. Con un vampiro”
“Pensavo che avessimo deciso che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro”
Arcuai un sopracciglio, mettendomi a cavalcioni sulla panca e afferrandole il mento con le dita – “E quando sarebbe successo?”
“Era un accordo non verbale” – articolò, coprendosi il viso con una cascata di ciocche castane e mosse.
“Talmente poco verbale che non ricordo nemmeno di averne parlato” - ritrosi, sporgendomi inconsapevolmente verso il suo calore.
Osservai il suo viso sotto le ciglia, il rossore diffuso sulle guance e la cinghia della tracolla intenta a segnarle una linea sulla spalla destra e tra i seni.
“Non mi importa se sei diverso” – riprese, senza perdersi d’animo – “Nemmeno io m’identifico con gli umani a volte, l’unico momento in cui mi sento veramente me stessa e felice, è quando sono con te”.
Sospirai, avvertendo quasi una risata incresparmi le labbra, era il modo con cui concepiva la realtà a divertirmi.
Il desiderio di piacere alla mia famiglia, di non battere ciglio e rispondere prontamente con una battuta anche quando aveva appena corso in spalla ad un ragazzo che raggiungeva velocità insperabili anche per il suo pick-up.
“Puoi andartene ed ignorarmi solo se ritieni che io non sia abbastanza importante per riuscire a controllare la tua sete”
L’attirai più vicino, scivolando con le labbra tra i suoi capelli, percependone i respiri affannati contro il mio collo mentre tornavo a baciarle la fronte.
Inspirai sino ad avvertire la gola bruciare e le iridi diventare due pozze nere dal desiderio.
La sua presa sulla mia maglietta si fece più decisa, sino a risalire il colletto e a strattonarlo per richiamare la mia attenzione.
Strofinò il naso contro la linea della mandibola e nello stesso frangente artigliai il tavolo affianco a noi, sbriciolandolo come se fosse stato semplice gesso.
“Dimmi che vuoi restare” – sussurrò, con le labbra sulla mia pelle sino ad unire i nostri respiri.
Il sangue pompava nelle vene con una forza tale da essere doloroso, la pressione alta causava un rumore insistente, simile ad un battito ovattato, all’interno della cassa toracica.
“Sei così testarda” – ringhiai – “Incosciente e stupida
Le serrai le braccia attorno alla vita, lasciando che si accoccolasse contro il mio petto e socchiudesse le ciglia umide per guardarmi tenacemente negli occhi.
“Ho una teoria”
Quella sua frase ebbe il potere di farmi sentire vivo come non provavo da anni. Era un’affermazione che avevo sentito spesso uscire dalle sue labbra, frutto delle sue fantasie e di un mondo nella sua mente inaccessibile.
“Se ci fosse un incendio nella scuola, adesso” – asserì, senza mai distogliere lo sguardo, - “E tu potessi salvare solo una persona, una sola, chi sceglieresti?”
Sorrisi - “Posto che trovo ogni alunno di questa scuola particolarmente fastidioso, rimarreste tu e i dolci della nostra adorata cuoca”.
“Mi sembra giusto” – convenne, posando un bacio leggero sul mento – “Io o la mousse al cioccolato?”
“Non so, mi ritengo una persona equa” – celiai - “La mousse non ha le gambe, anche se tu inciampi di più”
Percorsi con il polpastrello la sua spina dorsale, risalendo fino al collo per tuffare le mani tra i suoi capelli morbidi e accarezzarle la nuca.
“Tu non vuoi farmi del male”
“No” – affermai, serio – “Non potrei mai”
Lei annuì, facendo perno con le mani sulle mie spalle per allontanarsi abbastanza da incastonare meglio i nostri sguardi.
“A me basta” – dichiarò, ferma – “Mi basta e non ti chiedo altro, perciò smettila di torturare te stesso, preferisco rischiare la vita per starti vicino piuttosto che sopravvivere senza di te”.
Crollai il capo alzandomi e sollevandola di peso sino a rimetterla a terra.
“Tu sei pazza”
“Grazie”- ridacchiò, arrossendo - “Dopo aver evidenziato l’ovvio, forse è il caso che mi diriga a lezione, non tutti hanno una doppia laurea e possono permettersi di ammaliare le segretarie per farsi cambiare i corsi”
Le passai un braccio intorno al collo, chiudendo gli occhi.
Quando arrivammo sulla soglia, dietro alla quale si avvertiva il vociare di alcuni studenti per il cambio dell’ora, si girò per l’ultima volta verso di me.
“Questa sera”
“Ci sarò”
“Quella dopo ancora”
“Sarò in camera tua ad ascoltarti mentre parli nel sonno”
“E tra un mese?”
“Bella”
“Che c’è?” – borbottò – “Devo raccogliere dei dati precisi”
Abbassò la maniglia, pronta ad andarsene, osservandomi attentamente con la coda dell’occhio mentre, con passi minuscoli, si accingeva ad uscire dalla mensa.
“Arrivaci tutta intera a stasera, Swan”
“Contaci Cullen”
Imboccò il corridoio, camminando all’indietro ed evitando per miracolo alcuni ragazzi.
Di tutte le sensazioni umane che bella sapeva risvegliare in me, una sola mi aiutava a combattere la mia natura.
Era una calore confortante, all’altezza del petto, a cui ancora non sapevo dare un nome.
Ma avrei avuto tante sere, infinite, per poterlo scoprire.
  
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