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Autore: marmelade    28/03/2015    2 recensioni
Ashton e Margareth si sono appena laureati, appena conosciuti, hanno appena finito di fare l'amore.
Nella stanza di lei aleggia ancora l'odore dell'ultima sigaretta fumata da lui, mista all'odore del sesso.
Si abbracciano forte l'uno con l'altra in un minuscolo letto dalle lenzuola sporche, come per aggrapparsi a quegli ultimi momenti della loro giovinezza.
Non si conoscono, eppure è come se la vita li avesse fatti incontrare da sempre. Sono convinti che non si rivedranno mai più, ma non è così: sono strettamente legati tra loro.
Cadranno insieme, rideranno, piangeranno e si diranno addio molte volte, senza mai riuscirci davvero.
Resteranno per una vita intera ad amarsi, anche lontani, fino a che non vorranno tornare indietro nel tempo e ricominciare tutto dall'inizio.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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V
 
“Non mi prendere mai sul serio quando ti dico di lasciarmi. Tienimi, ti prego, tienimi.
Vieni quando ti pare, una volta al mese, una volta all’anno, ma tienimi”.
Margaret Mazzantini
 
 
 
I really feel that I'm losing my best friend 
I can't believe this could be the end [...]
You and me... I can see us dying... are we?
 

Dicembre 2005.
 
Lo aspettava da ore di fronte al ristorante in cui si erano dati appuntamento.
Si torturò ancora una volta le pieghe morbide del suo corto vestito nero, come se volesse eliminare qualsiasi e minuscola imperfezione da esso. L’aveva comprato apposta per l’occasione in un negozio sconosciuto nel quale Susie l’aveva trascinata e, nonostante fosse molto semplice, aveva speso un occhio della testa.
“Vedrai che ne varrà la pena!”, le aveva detto Susie speranzosa, stringendole un braccio quando si erano avvicinate alla cassa per pagare, mentre lei continuava a maledirsi mentalmente. Avrebbe tanto voluto indossare uno dei suoi sgualciti jeans chiari, ma Susie gliel’aveva categoricamente negato, sostenendo di non potersi più vestire come una ragazzina, dati i suoi ventotto anni suonati.
Era riuscita a dare ai suoi capelli – corti e drittissimi - un po’ di volume legandoli in un comodo e semplice chignon, lasciando libera dalla presa qualche ciocca più lunga, le quali le incorniciavano il viso leggermente truccato.
D’altronde, era solo Ashton. Non voleva esagerare.
Ma adesso era lui quello che stava esagerando.
Le aveva dato appuntamento fuori ad un ristorante – uno dei più chic, avrebbe detto – alle otto in punto, raccomandandosi della puntualità per prenderla in giro, consapevole del fatto che lei, in ritardo, non lo era mai, ma era lui stesso quello che si faceva sempre attendere. Poteva anche comprendere – sopportare? – dieci, quindici minuti di ritardo, ma erano già passate due ore e, di Ashton, non se ne vedeva nemmeno l’ombra in lontananza.
Si alzò leggermente sulla punta dei suoi scomodi tacchi, buttando un’occhiata verso la fine della strada, ma nulla: nessuna chioma bionda in avvistamento.
Sbuffò ancora una volta, maledicendo Susie per la scelta dei tacchi e maledicendo se stessa per averle dato retta e, soprattutto, per aver accettato l’invito di Ashton ed essersi presentata fuori il locale con un quarto d’ora d’anticipo.
Estrasse dalla pochette il vecchio – ma ancora abbastanza funzionante – cellulare, provando a richiamarlo nuovamente ma, dall’altra parte del ricevitore, sentì nuovamente la voce registrata della sua segreteria telefonica, la quale l’avvertì cortesemente che il cliente non era al momento raggiungibile.
Sono due ore che non è fottutamente raggiungibile, pensò, forse troppo rudemente.
Chiuse violentemente la telefonata, rimettendo il cellulare in borsa e stringendosi nel cappotto pesante che le copriva le spalle, abbottonandolo ancora di più sul collo.
Il vento freddo e pungente della sera le stava smorzando il viso, quasi come se volesse tagliarglielo a metà, mentre gli occhi iniziarono a lacrimarle per quel contatto così violento. Non si preoccupò minimamente del trucco sciolto perché, oramai, sapeva che Ashton non sarebbe più arrivato.
Si diede ancora una volta della cretina sia per aver accettato, sia perché non riusciva proprio a smettere di essere tesa ed emozionata come una ragazzina al suo primo appuntamento. Le mani continuavano a sudarle e, più le sfregava tra loro, più le si formava un nodo all’altezza dello stomaco che non ne voleva sapere di sciogliersi e scivolare via. Portò le mani - giunte tra esse - all’altezza delle labbra per poi farne fuoriuscire un leggero sbuffo caldo per donarsi almeno un minimo di tepore e sollievo contro il freddo di dicembre, cercando di dimenticare cosa ci facesse ancora lì fuori.
Afferrò ancora una volta il cellulare per controllare se ci fossero state eventuali chiamate o messaggi da parte di Ashton che l’avvertiva di non poter più raggiungerla per chissà quale preda incontrata all’improvviso, ma niente. Non si era nemmeno preso la briga di avvertirla.
Controllò l’orario per l’ennesima volta, sbuffando. Erano le dieci e dieci e lei era fuori il locale da esattamente due ore e venticinque minuti che aspettava qualcuno che, sapeva, non si sarebbe più presentato.
E stavolta lei non l’avrebbe perdonato.
Si sedette sul marciapiede alle sue spalle - incurante del fatto che fosse sporco – e sbuffò veemente mentre toglieva quelle sottospecie di torture cinesi dai piedi, comunemente conosciute con il nome di tacchi. 
Pensò nuovamente che avrebbe potuto almeno avvertirla che non si sarebbe fatto vivo, perché lei non meritava di aspettarlo lì fuori come una povera anima in pena infreddolita, per giunta.
Mai come in quel momento stava odiando Ashton alla follia. Trattenne alcune lacrime – forse per colpa del vento freddo e pungente, forse per colpa di Ashton stesso – e si strinse nuovamente nel cappotto, cercando di riscaldarsi quanto più possibile.
Si domandò mentalmente per l’ennesima volta perché lo stesse aspettando nonostante tutto, nonostante il freddo, nonostante le lacrime. Ancora una volta si diede della cretina poiché troppo speranzosa e troppo positiva nel fatto che Ashton, prima o poi, sarebbe arrivato.
Ma quando?
Decise di rimettersi i tacchi e, con un bel po’ di fatica, si alzò dal marciapiede per incamminarsi il più lontano possibile da quel locale in cui avrebbero dovuto cenare. E lei non aveva mangiato per tutto il giorno perché l’emozione di rivedere Ashton, dopo un anno di lontananza, le aveva fatto chiudere lo stomaco per la felicità. E cosa le era rimasto, adesso, se non un vestito nuovo e rovinato ed un grande vuoto nello stomaco e nel cuore?
Si asciugò qualche lacrima che aveva solcato le sue guance con il dorso della mano ruvida ed infreddolita, poi guardò nuovamente l’insegna del locale – dal quale proveniva una musica soft e di lusso – e sospirò amaramente, prima di incamminarsi traballante lungo il marciapiede, nella direzione opposta.
Sei una stupida, Margareth” ripeté a sé stessa, tenendo stretta la pochette tra le sue mani “stupida, stupida, stupida”.
Era lontana solo di poco dal ristorante – se ne rese conto perché riusciva ad udire ancora perfettamente la musica soul – quando sentì una macchina rumorosa frenare di botto dietro di lei e una portiera spalancarsi e richiudersi sonoramente in pochi secondi, prima che quella potesse sfrecciare nuovamente via.
Si asciugò un’ultima lacrima bastarda, prima che si accorgesse di alcuni passi frettolosi dietro di lei ed una voce fin troppo familiare chiamarla con un nomignolo utilizzato solo ed unicamente da una persona.
«Margo! Ehi, Margo!».
Margareth sentì il cuore battere all’impazzata ma, per chissà quale questione di principio, continuò a camminare dritta davanti a sé, accelerando il passo ogni qual volta la voce la richiamava.
«Margo! Fermati, sono io!» continuò a chiamarla, inseguendola con una certa difficoltà.
Lo so che sei tu, brutto stronzo” pensò Margareth, continuando a camminare per stargli il più lontana possibile, quasi fosse un virus. Ed in effetti, lui, un po’ un virus lo era: si era preso il cuore di Margo e l’aveva fatto ammalare di un amore malato e senza speranza, un amore che sembrava dire “non m’interessa se sei lontano, se vai via da me, se mi fai soffrire come un cane... io sono innamorata di te, sempre e per sempre”.
Ashton prese una rincorsa per raggiungerla, continuando a chiamarla con insistenza, mentre gli occhi di lei s’inumidivano di nuovo di tristezza e rabbia fuse insieme.
Quando Ashton le fu abbastanza vicino, le afferrò un braccio con prepotenza per farla fermare lì, accanto a lui, ma lei non si voltò.
Non aveva voglia di perdersi in quegli occhi meravigliosi che le erano mancati tanto per poi cascare di nuovo nel suo gioco meschino e rimanerci fregata. Non aveva voglia di provare ancora tanto amore per lui nonostante l’avesse fatta soffrire.
«Lasciami» gli ordinò secca, senza urlare e sbraitare. Perché dare vita ad una patetica scenata, quando a lui di lei non importava minimamente?
«Margo, ti prego...» sussurrò lui, tenendola ancora stretta. Margareth si accorse che la sua voce era diversa dal solito: sembrava come strascicata, trascinandosi a fatica, come se fosse... ubriaco.
Ashton era ubriaco. Ashton l’aveva fatta aspettare due ore al freddo e al gelo per andarsi ad ubriacare.
Margareth scosse il capo, incredula e, senza voltarsi, gli sussurrò «tu mi hai fatto aspettare due ore da sola, qui, al buio e con un vento gelido di pazzi per il semplice motivo di andarti ad ubriacare con chissà chi?!».
Ashton ridacchiò acutamente. «Io non sono ubriaco!».
«Sì che lo sei, Ash!».
A quel punto Margo non aveva saputo resistere alla tentazione di voltarsi ed urlargli contro, nonostante sapesse il male che le avrebbero procurato quegli occhi. E infatti, non appena incrociò quello sguardo verde, Margo sentì le gambe cederle come fossero due budini, e non poté fare a meno di notare di quanto fossero lucidi e brilli per il troppo alcool.
«Guardati, Ashton» disse, la presa di lui ancora intorno al suo braccio «sei ubriaco marcio ed hai anche il coraggio di affermare il contrario?!» si liberò dalla sua presa con un gesto secco ed arrabbiato sotto lo sguardo divertito di lui. «Quanto sei ridotto male».
«Non essere dura, Margo!» esclamò lui, aprendo le braccia «un anno che non ci vediamo e tu pensi a quanto sia ubriaco?! Smettila e abbracciami, dai!».
Margareth incrociò le braccia al petto e indietreggiò di poco, quasi come se fosse spaventata da lui.
«Sei assurdo, Ashton!» trillò, scuotendo il capo «mi fai aspettare due ore per i tuoi sporchi comodi e poi mi chiedi pure di abbracciarti, cacciando fuori la storia che sei stato via un anno. Avevamo un appuntamento, Ash, non sono la tua serva che puoi far aspettare quanto ti pare e piace!» .
Ma Ashton, dal canto suo, continuò a tenere le braccia aperte in attesa che lei ci si fiondasse dentro, e il suo sorriso rimase impalato lì, sulle sue labbra brille. Margareth non poté fare a meno di pensare che l’alcool gli avesse dato alla testa e gli avesse bruciato i neuroni se solo pensava che lei lo perdonasse così, come niente fosse.
Indietreggiò ancora, nonostante la difficoltà dei tacchi, e lo guardò quasi schifata.
«Io me ne vado, Ashton» sputò amara «chiamami quando sarai finalmente sobrio».
Voltò i tacchi e fece per allontanarsi ancora, incamminandosi solo di pochi passi prima che Ashton – con chissà quale lucidità – la raggiungesse e l’abbracciasse improvvisamente per le spalle, tenendola stretta contro il suo petto racchiuso dalla camicia grigia.
 «Mi dispiace, Margo» soffiò al suo orecchio destro, la voce ancora biascicante «mi dispiace tanto. Scusa».
Margareth rabbrividì improvvisamente, e non seppe spiegarsi se la causa fosse il freddo pungente o il sospiro caldo di Ashton lungo il suo viso. Fatto sta che rimase immobile contro il suo petto, forse perché la  sua presa era talmente tanto forte che non le dava la possibilità nemmeno di respirare.
O forse perché quella presa le era mancata talmente tanto, che non aveva voglia di sottrarsene per nessuna ragione al mondo, nonostante fosse arrabbiata.
Rimasero così, in silenzio, ad ascoltare i loro sospiri alternati e profondi per un tempo che ad entrambi sembrò interminabile e piacevole allo stesso tempo.
Margareth abbassò di poco il capo, rendendosi conto di come la sua dignità sparisse nel momento in cui Ashton le rivolgesse semplicemente la parola, e non poté fare a meno di maledirsi mentalmente per essere una dannata cretina perdutamente innamorata.
«Vaffanculo, Ashton» bofonchiò, mentre la presa di lui si faceva ancora più stretta.
Ashton ridacchiò sommessamente. «E’ il tuo modo di dire che mi perdoni?» domandò con la voce strascicata, ma meno acuta del solito.
Margareth sbuffò e roteò gli occhi lucidi al cielo. Anche ubriaco, Ashton era sempre il solito idiota convinto di sé stesso e del suo incredibile charme.
«No» affermò, voltandosi improvvisamente verso di lui «questo è il mio modo per dirti vaffanculo».
Ashton scoppiò a ridere, forse anche sotto dettatura dell’alcool, strizzando gli occhi e piegandosi in due.
Margo pensò che fosse davvero estremamente ubriaco, perché non le sembrava aver fatto nessuna battuta divertente, ma gli aveva semplicemente indicato – nel modo meno pacato possibile – la strada per sparire dalla sua visuale.
Ashton fece dei lunghi sospiri prima di appoggiare il palmo di una mano su un muro lì accanto e riprendersi dalle risate – ma non dalla sbronza – per poi scrollarsi con le dita i capelli e avvicinarsi a lei per circondarle le spalle con un braccio. «Sei sempre la solita, Margo» esclamò, dandole un buffetto sulla guancia che la fece indietreggiare. Non sapeva nemmeno perché non si fosse ritratta a quel contatto.
Ashton la guardò negli occhi prima di indicare con un cenno del capo l’entrata del locale. «Entriamo?» le domandò allora, come se niente fosse.
Margareth rimase quasi sconvolta da tutta quell’indifferenza nei suoi confronti, poi scosse il capo. «Non mi sembra proprio il caso, Ash» rispose, sottraendosi alla sua presa.
Lui la guardò confuso, corrugando un sopracciglio. «Perché?».
«Sei ubriaco fradicio» gli fece notare lei, sospirando «e poi è tardi. Vediamoci domani, dai... riprenditi dalla sbronza e riposati».
Nonostante le avesse fatto aspettare tutto quel tempo, Margareth proprio non se la sentiva di essere arrabbiata con lui. Forse quella ubriaca davvero era lei, in quel momento, o forse i suoi sentimenti avevano semplicemente preso possesso dei suoi neuroni e l’avevano fatta impazzire.
Ashton fece un ghigno, poi le si avvicinò ancora. «Guarda che ho una prenotazione, possiamo entrare quando più ci pare» disse, afferrandole una mano e guardandola con occhi supplicanti, poi ghignò divertito.
«Sono o non sono Ashton Irwin?!».
E Margareth avrebbe tanto voluto dargli una botta in testa, uno schiaffo, un calcio o qualsiasi altra cosa che lo facesse scendere dal piedistallo anche solo un secondo, ma si limitò a roteare gli occhi al cielo ed a sbuffare, facendolo ridacchiare leggermente.
«Dai Margo, non ci vediamo da un anno, chi se ne frega che è tardi!» esclamò lui, quasi come fosse un bambino. «Pensiamo solo a passare una bella serata soli io e te, come i vecchi tempi».
I vecchi tempi in cui non eri Ashton Irwin, il famoso batterista voluto da tutte? I vecchi tempi in cui eri solo Ashton, il mio migliore amico logorroico, a volte pedante, un po’ egocentrico, ma comunque la persona più buona del mondo?”  pensò amareggiata Margo, guardandolo tristemente negli occhi. Ashton continuò a sorridere – forse per la sbronza, forse perché era felice davvero – senza accorgersi minimamente del velo  di tristezza che aveva preso possesso delle iridi della sua migliore amica.
Margareth riuscì solo ad emettere un live sospiro prima che Ashton la trascinasse dentro divertito, sotto il suo sguardo confuso e scioccato.
«Ash, dai...» provò a dire, cercando di ritrarsi da quella presa ma lui, in risposta, portò un indice sulle sue labbra e le fece segno di non lamentarsi, per poi rivolgerle un occhiolino.
Si avvicinarono all’entrata del locale ed Ashton poggiò con un po’ di difficoltà la mano sulla maniglia della porta, prima di aprirla completamente. Margo si fece invadere da quella leggera musica soul e sospirò ancora, prima di entrare nella sala calda ed accogliente.
Era grande, spaziosa e arredata con cura: le luci soffuse le davano quel tocco d’intimità giusta per chi avesse voluto passare una serata in santa pace con qualcuno di speciale, e l’odore di lavanda - misto a quello della vaniglia – le conferivano un’aria pulita ed elegante. Le pareti erano di un color castagna, addobbate con quadri astratti dai diversi colori e le donavano un calore ancor più accentuato, quasi fosse una casa familiare accogliente.
Ashton si avvicinò ad uno dei camerieri – vestiti completamente di nero – per dare il suo nome ed informarli della loro presenza, mentre Margareth si guardava attentamente intorno: era un ristorante talmente chic che, probabilmente, una cena le sarebbe costata gran parte del suo stipendio mensile, se non del tutto.
Ashton le sfiorò una mano per richiamare la sua attenzione, poi le fece cenno di seguire insieme a lui il cameriere dal sorriso cordiale che li avrebbe accompagnati al loro tavolo. Margo annuì distrattamente, poi si strinse nelle spalle e li seguì con passo indeciso ed infermo a causa di quei maledetti tacchi.
Una volta oltrepassato l’ingresso, si ritrovarono al centro della sala dove il loro tavolo – addobbato con alcune rose in un vaso – li attendeva da più o meno due ore e mezzo. Margareth arricciò leggermente il naso alla vista di quelle rose rosse – il fiore che lei odiava più di tutti – mentre si liberava dal cappotto nero per porgerlo gentilmente al cameriere. Ashton gli sussurrò qualcosa prima di congedarlo, dandogli anche la sua giacca nera, poi fece un sorrisino divertito a Margo e le si pose dietro rapidamente, indietreggiando di poco la sua sedia per farla accomodare.
«Prego, signorina» le disse, cercando di imitare il tono di voce di un cameriere, indicandole con una mano la superficie legnosa della sedia, sotto lo sguardo sconvolto di Margo, che scosse il capo.
«Non la sai fare la parte del galantuomo» ribatté lei, sedendosi «evita queste scenette».
Ashton sbuffò pesantemente. «Ancora non mi ha perdonato?» domandò, prendendo posto di fronte a lei.
«Non credo lo farò» rispose, guardandosi poi ancora intorno.
Alcune persone erano seduti intorno a loro, chiacchierando sommessamente sulla melodia del momento, ridacchiando per chissà quale cosa detta o fatta, scambiandosi sorrisi sinceri accompagnati dal tintinnio dei bicchieri pieni di vino rosso.
«Te l’ho detto che sei bella?».
Margareth si voltò immediatamente verso Ashton, colta alla sprovvista da quella cosa appena pronunciata ed uscita velocemente dalle sue labbra. Lui abbozzò un sorriso, facendole un mezzo occhiolino, mentre le sue guance si tingevano di un colorito dal nome rosso imbarazzo. Morse il labbro inferiore come se lo volesse staccare, maledicendo sé stessa mentalmente per l’effetto che Ashton le aveva appena provocato dopo averle rivolto quel complimento. Lo guardò dritto negli occhi, cercando di sostenere quello sguardo verde senza innamorarsene ancora di più, e li vide lucidi, arrossati... brilli. E il cuore un po’ le fece male.
«Sei ubriaco» gli ricordò – e lo ricordò anche a sé stessa – con un sorriso amaro sulle labbra.
Ashton fece un ghigno, incrociando le mani e sporgendosi verso di lei. «Non lo sai che gli ubriachi dicono sempre la verità?».
«Non è questo il caso» ribatté, imitando i suoi movimenti. «Tu da ubriaco spari ancora più cazzate».
Ashton ridacchiò. «Non è questo il caso» ribatté a sua volta, imitando il tono di voce utilizzato da Margo, poi scosse il capo e si passò una mano tra i capelli biondicci ed ancora troppo lunghi.
Margareth si ricompose sulla sedia, notando in lontananza il cameriere arrivare verso di loro trasportante un carrello dove vi era un secchiello in cui era contenuta una bottiglia di chissà quale champagne pregiato.
Pensò – sperò – che il cameriere si stesse dirigendo verso un altro tavolo, magari situato dietro il loro ma, solo quando lo vide fermarsi accanto a loro con lo stesso sorriso cordiale di sempre, ne fu proprio sicura.
Ashton era un cretino.
«Ash...» lo richiamò Margareth, mentre quello ringraziava tranquillamente il cameriere.
Si voltò verso di lei con sguardo interrogativo ed un sorrisino su volto, mentre il cameriere stappava la loro bottiglia e versava lo spumante nei loro calici di vetro.
Margareth lo guardò severa. «Forse non avresti dovuto ordinare anche lo spumante».
«Perché?» le domandò, aggrottando le sopracciglia.
«Mi chiedi anche il perché?!». Margareth lo guardò sbigottita, mentre il cameriere si allontanava da loro, portando con sé anche il carrello. Roteò gli occhi al cielo, sporgendosi di poco verso di lui, che ancora non riusciva a comprendere.
«Ash, sei ubriaco! Non puoi ordinare altro e continuare a bere alcolici!» lo rimproverò, guardandolo con occhi severi e scioccati.
Ashton ridacchiò e, subito dopo, lasciò che uno sbuffo rilasciasse le sue labbra. «Come la fai lunga, Margo!» esclamò divertito, per poi afferrare il calice colmo di spumante e guardarla negli occhi.
«Dobbiamo festeggiare il mio ritorno, ricordi?».
E Margareth pensò che l’unico ritorno che Ashton dovesse davvero fare, era quello in sé stesso.
Ashton aveva già pronto il calice contro di lei per brindare al suo ritorno e alla sua trionfante carriera, ma Margareth continuò a guardarlo male. D’altronde potevano brindare solo di lui, dato che lei non aveva fatto poi chissà che nel corso degli anni. Forse avrebbero potuto brindare alla sua stupidità ed incoerenza, dato che era non era riuscita a diventare tutto ciò che avrebbe voluto essere e aveva fatto praticamente tutto ciò che aveva sempre negato e guardato con ribrezzo.
E una di queste cose, era stato l’innamorarsi perdutamente di due occhi completamente ubriachi.
Si perse nuovamente in quei due pozzi di fronte ai suoi occhi e, ancora una volta, smise di pensare razionalmente.
Ma sì” pensò, afferrando il suo calice “tanto lui non saprà mai che sto brindando ai miei fallimenti”.
Ashton si aprì in un enorme sorriso quando la vide prendere il bicchiere di vetro tra le dita, così fece scivolare il suo calice verso il suo, creando un leggero e piacevole tintinnio.
«A questa serata» sussurrò Ashton, la voce leggermente strascicata. Alzò nuovamente il calice nella sua direzione e cominciò a bere lo spumante ad occhi chiusi.
All’idiota che sono” pensò Margareth, guardandolo “assurdamente innamorata di qualcuno che è più idiota di me”. Portò il calice alla labbra e, con un velo di tristezza e malinconia, sorseggiò lentamente un po’ di quel frizzante e pregiato champagne.
Guardò Ashton bere le ultime gocce di spumante e poi aprire nuovamente gli occhi, poggiando il calice sul tavolo e sorridendo felice – ed ubriaco – verso Margo.
«Buono, eh?» le domandò, facendole un occhiolino.
Margareth non poté fare a meno di notare la sua voce ancor più strascicata ed i suoi occhi divenire ancor più lucidi, e si domandò mentalmente quanto alcool nel corpo avesse Ashton in quel momento.
Annuì distrattamente mentre si focalizzava sulle sue fossette, che facevano da cornice a quel sorriso così meraviglioso. Margo si sentì nuovamente ubriaca lei, al posto di Ashton, perché quel sorriso la mandava davvero nel pallone.
Forse avrebbe dovuto dirglielo.
Forse avrebbe dovuto dirgli di tutto l’amore che provava per lui, dei sentimenti nascosti nel profondo dentro di lei da anni, della felicità che provava anche solo guardando il suo sorriso tramite uno schermo.
Forse avrebbe dovuto dirgli di essere completamente e irrimediabilmente innamorata di lui.
Tanto non se ne sarebbe mai ricordato, ubriaco com’era.
E allora non pensò più alle conseguenze, non pensò più a quello che quelle parole avrebbero provocato. Strinse il calice tra le mani e fece un lungo sorso, prima di poggiarlo sulla superficie legnosa del tavolo, coperto da una morbida tovaglia bianca e raffinata.
Lo guardò negli occhi, incontrando nuovamente quel verde prato, guardandolo ed ammirandolo come fosse la prima vera volta, nonostante quelle iridi fossero ubriache da morire.
E, quando Ashton le sorrise, il suo cuore perse un battito.
E capì che quello era il momento.
«Ashton, devo dirti una cos...?!»
«Non puoi immaginare quanto bello sia stare in tour, Margo!» esclamò Ashton, bloccando sul nascere le parole dell’amica. Gli occhi gli brillavano come fossero due stelle, e non solo per il suo stato di ubriachezza pesante.
Margareth sospirò mestamente, mentre il battito del cuore iniziò ad affievolirsi lentamente, secondo per secondo. Non sapeva se fosse più idiota lui per il suo solito egocentrismo, o se lo fosse di più lei, convinta che Ashton le avrebbe dato ascolto.
E allora si convinse che, forse, l’idiota in questione era proprio lei: lei, innamorata di qualcuno che non l’avrebbe amata mai come avrebbe voluto.
Incrociò le braccia sulla tavola – nonostante fosse una cosa che il bon ton riteneva denigrante – e si perse nelle parole brille di Ashton. Lo ascoltò ciarlare di cose su cose su cose, su come fosse bello girare su un tour bus, di quante risate si fossero fatti tutti e quattro insieme, degli scherzi fatti a Luke, delle ragazze che si portava dietro Calum quasi ogni sera, del nuovo colore di capelli di Michael.
Ashton parlava, e lei ascoltava.
Ascoltava di quante sigarette avessero fumato tra le risate, di come Michael stesse cercando di smettere, ma senza successo, di quando quella volta Calum aveva provato a farsi una canna ed era collassato miseramente, di quando si erano ubriacati una sera dopo un concerto a San Francisco che, a detta di Ashton, è una delle città più belle del mondo.
Parlava, Ashton, parlava tanto. E, più parlava, più beveva, più beveva, più si ubriacava.
E Margareth ascoltava distrattamente quelle parole, e si ritrovava a pensare a cose assurde, guardandolo negli occhi.
Aveva sbagliato tante cose, nella sua vita, ed una di queste era stato innamorarsi di Ashton Irwin.
Forse non sarebbe dovuta finire a letto con lui, quella maledetta sera di cinque anni prima, quella maledetta sera in cui l’aveva fatto entrare in camera sua e lui, incurante, era entrato anche nel suo cuore, senza andarsene mai sul serio. Forse non avrebbe dovuto parlargli dei suoi sogni, delle sue ambizioni; forse non avrebbero dovuto diventare così dipendenti l’uno dall’altra perché, si sa, a ricavarne il peggio ne è sempre uno solo, mentre l’altro gode sempre del meglio.
E Margareth – sfigata com’era, l’aveva sempre detto – aveva ricavato il lato peggiore di quella dipendenza e, nonostante tutto, aveva finito per innamorarsene.
Forse non avrebbe dovuto incontrarlo mai. Forse non avrebbe dovuto incontrare quegli occhi tanto luminosi e quel sorriso tanto dolce.
Forse avrebbe dovuto amare Jaden e avrebbe dovuto sposarlo, invece di lasciarlo andare così, senza una vera spiegazione. Avrebbe dovuto amarlo, avrebbe dovuto dimenticarsi di Ashton e del male che le stava provocando, e invece... invece lei, di quel male, non ne poteva proprio fare a meno.
«E tu, invece? Come stai?».
Le parole improvvise del suo migliore amico la fecero risvegliare da quello strano stato di coma.
Scrollò leggermente le spalle, ridestandosi dai suoi pensieri e concentrando un minimo della sua attenzione sulla domanda che Ashton le aveva appena rivolto.
E allora Margareth avrebbe tanto voluto dirgli come si sentiva davvero, che era infelice, delusa da sé stessa e da quello che non era riuscita a creare, che si sentiva stronza per aver lasciato Jaden così, senza una motivazione precisa, quando quest’ultimo le aveva detto di voler passare la sua vita insieme a lei, che non si sentiva un’insegnante vera e propria perché lei, da insegnare, non aveva proprio nulla.
Lei, che si sentiva una fallita, una sfigata cronica, una senza speranze, aveva il compito di insegnare a dei ragazzini di quindici anni non solo nozioni scolastiche, ma anche cosa fosse la vita.
E avrebbe tanto voluto dirgli che la sua, di vita, era vuota, senza di lui.
«Beh, mi va... discretamente, direi. Sì, discretamente» rispose, facendo spallucce.
E, ancora una volta, si sentì morire per quella grossa bugia appena pronunciata.
Perché non era vero che stava discretamente, non era vero che le cose le andavano abbastanza bene.
Le cose le andavano male, veramente male a detta sua, e avrebbe solo voluto parlargliene.
Ma come poteva, quando parte del cervello di Ashton era occupato dall’alcool?
«E come va la cosa lì...» chiese ancora, tentennando leggermente, poi schioccò l’indice e il pollice tra loro e ghignò  «l’insegnamento, ecco. Come ti va?». Afferrò nuovamente il calice – colmo quasi fino all’orlo – di vino e lo roteò leggermente, prima di berlo con gusto.
Margareth storse un po’ il naso, notando una leggera indifferenza nel tono di voce di Ashton, ma non ci diede troppo peso. Era già tanto che le avesse chiesto come stesse andando.
«Va abbastanza bene» rispose perché, in realtà, era vero. Insegnare non era mai stata una delle sue aspirazioni, ma la paga era buona – molto di più rispetto a quella del pub – e i ragazzini erano simpatici, quando non le stressavano l’anima. Certo, ancora non era del tutto soddisfatta della sua vita – forse per niente – ma almeno riusciva a trarre un minimo di ispirazione da quei ragazzi per alcuni dei suoi scritti.
Improvvisamente, sentì il ridacchiare di Ashton dopo la sua risposta, e la cosa non poté che provocarle un certo shock.
«Cosa c’è?» domandò, aggrottando lievemente le sopracciglia.
Ashton scosse il capo, ridacchiando ancora, mentre con le dita tamburellava sul calice appena posato sul tavolo.
«Nulla» rispose, la risata che non gli moriva tra le labbra «è che stavo pensando a...»
«A cosa?». Il tono di Margareth risultò interrogativo, incazzato, feroce. I suoi occhi avrebbero potuto fulminarlo da un momento all’altro.
Ashton fece un altro ghigno, lasciando che le sue fossette si presentassero nuovamente ai lati delle sue labbra in un modo così insolente ed indisponente, che Margareth avrebbe solo voluto strappargliele.
Fece un altro sorso dal calice, prima di aggrottare le spalle e guardarla con gli occhi ubriachi e divertiti.
«Beh, pensavo che insegnare è una cazzata. Basta che dici due stronzate sulla vita di qualche autore e poi basta, finisce lì. Voi insegnanti prendete una paga solo per ripetere delle cose che sono già scritte su un libro, che senso ha?».
Le mani di Margareth si chiusero immediatamente in due pugni stretti tra loro, che finirono sulla superficie del tavolo creando un rumore assordante. Il suo volto era contratto in un’espressione rabbiosa ed incazzata, e i suoi occhi cercavano in tutti i modi di trattenere le lacrime.
«Sei proprio uno stronzo» sputò velenosamente, alzandosi dalla sedia e lasciando che questa strisciasse rumorosamente dietro di sé.
Ashton rimase a guardarla allibito, mentre Margareth gli rivolgeva uno degli sguardi più arrabbiati e tristi allo stesso tempo, uno di quegli sguardi che la sua migliore amica non gli aveva mai rivolto, uno di quelli che non scordi facilmente, perché ti uccidono dentro.
Margareth si allontanò velocemente dal tavolo sotto gli occhi scandalizzati del resto della sala, che aveva assistito alla scena. Ci volle un po’ prima che Ashton si rendesse conto della situazione e si alzasse dalla sedia al seguito di Margo, che aveva già raggiunto il cameriere per farsi ridare il soprabito tolto poco prima.
«Margo, ehi!» la richiamò, mentre quella infilava il cappotto.
Lei si voltò verso Ashton, gli rivolse un ultimo sguardo incazzato e poi uscì via dal locale, mischiando il suo stato d’animo all’aria fredda di Dicembre. Si chiuse di poco il cappotto in petto e compì dei rapidi passi per allontanarsi quanto più possibile da quel locale, ma non poté fare a meno di sentire il rumore della porta del ristorante aprirsi dietro di lei e dei passi seguirla freneticamente.
Accelerò la camminata con le lacrime pungenti contro gli occhi ma, nuovamente, la mano forte di Ashton le si posò sul braccio, strattonandola violentemente per farla voltare. E Margareth si voltò, incontrò quegli occhi verdi, e si lasciò andare.
Pianse per loro, davanti a loro. E si sentì stupida da morire.
«Margo...»
«Sei un grande stronzo, Ashton Irwin!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola, allontanandosi da lui. «Sei veramente un grande stronzo!».
Ashton provò a richiamarla ancora una volta, ad avvicinarsi a lei, a chiederle scusa ma, stavolta, fu lei a non farlo finire di parlare. Fu lei ad interrompere le sue parole, ad interrompere le sue scuse, a sputare parole su parole.
«Non solo io ti aspetto come una cogliona per due ore, qui fuori, al freddo e al gelo... poi mi arrivi anche ubriaco fradicio! In ritardo ed ubriaco! Senza un minimo di rispetto per l’appuntamento che avevamo, per me, cazzo Ashton... per me!». Margareth fece un grosso sospiro, asciugandosi con il palmo della mano una lacrima appena scesa sul suo volto.
«Arrivi qui, ubriaco, e mi supplichi di passare una serata come ai vecchi tempi, soli io e te. Ma, quando vado per ricordarti che è tardi, che sei ubriaco... allora no! Allora sono io la cretina, certo! Sono io la cretina, perché, oh mio Dio, grosso errore... ho dimenticato che tu sei Ashton Irwin e a te tutto è dovuto, no?! Ho dimenticato che adesso sei il batterista più famoso ed amato del mondo, che puoi arrivare tardi agli appuntamenti, che puoi ubriacarti quando ti pare e piace quando c’è una cogliona – perché questo è quello che sono – che ti aspetta fuori un locale dove tu le hai dato appuntamento! Una cogliona che, si suppone, sia la tua migliore amica, una che ti ha aspettato per due ore qui fuori a congelarsi il culo, pur di vederti, nella speranza che saresti arrivato! E invece no! Oltre al danno anche la beffa, perché tu, con quella tua prosopopea del cazzo, arrivi qui e ti permetti anche di prendermi per il culo come fossi la migliore delle idiote, perché non ti è bastato non avere rispetto per me, non ti è bastato non amarmi abbastanza... non ti è bastata tutta la sofferenza che mi hai provocato, devi sempre esagerare perché, giusto, tu puoi... tu sei Ashton Irwin, no?!».
E la voce di Margo si affievolì per quell’ultima frase, un po’ perché ha urlato troppo, un po’ perché ripetere il nome di Ashton, in quelle circostanze, le fa male.
Ashton provò ad avvicinarsi a lei, ad accarezzarle le lacrime, a chiederle scusa, ma Margo si ritrasse sempre di più, perché quella fiducia in lui, forse, era scomparsa davvero.
«Margo... mi dispiace tanto, davvero...» sospirò Ashton, la voce leggermente strascicata.
«Non è vero...» le lacrime di Margareth non resistettero alla voglia di solcare il suo viso truccato, lasciando che il mascara colasse di poco dai suoi occhi.
«A te non dispiace questa vita, Ash. A te non dispiace essere così strafottente, così ricco, così maledettamente stronzo. E’ a me che dispiace non vederti più com’eri prima, come l’egocentrico, ma buono, Ashton...» e a quelle parole, le scappò una risatina amara. Tirò su col naso, poi indietreggiò ancora una volta.
«Margo, ti prego... scusami, perdonami, io non intendevo dirti quelle cose...» Ashton cercò di raggiungerla, di afferrare una sua mano ormai troppo lontana. «L’hai detto tu, no? Sono ubriaco!».
E Margareth non poté fare a meno di scuotere il capo e piangere ancora di più. Ridacchiò amaramente tra le lacrime copiose, poi tirò ancora una volta su col naso prima di puntare i suoi occhi velati dalla tristezza nei suoi.
«L’hai detto tu, no?» ripeté, mentre un singhiozzo le smorzò un sospiro «gli ubriachi dicono sempre la verità».
E quelle parole fecero male ad Ashton, più di un coltello conficcato nel petto. Provò ad avvicinarsi ancora una volta a lei, alla sua figura triste ma, inaspettatamente, Margo gli buttò le braccia al collo, poggiando la sua guancia bagnata contro quella di lui, avvicinando le sue labbra all’orecchio, sfiorandolo col suo respiro triste. Ashton la strinse forte perché, in cuor suo, lo sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe abbracciata.
«Mi dispiace, Ashton...» sussurrò Margareth tra le lacrime «mi dispiace tanto».
 Ashton provò a dirle qualcosa, a rassicurarla, a dirle che la colpa era solo sua, che lui era quello che avrebbe dovuto scusarsi e, per un attimo, pensò che l’avesse perdonato ma, ancora una volta, lei lo interruppe, uccidendolo di nuovo.
E Margareth capì che, quello, era il momento adatto per confessargli tutto.
«Io ti amo, ti amo da morire, Ashton... ma, quello che sei adesso, non mi piace più...».
Margareth si staccò velocemente da lui, dopo avergli rivelato quelle confessioni frettolose in un orecchio, poi scappò via da lui, traballando sui tacchi, lasciandolo lì da solo, in mezzo alla strada, al freddo, con il vento gelido di Dicembre a colpirgli il viso e il cuore.
Ashton sentì le lacrime formarsi nei suoi occhi verdi, soli. Le unghie, seppur corte, gli si conficcarono involontariamente nella carne, mentre cercava di trattenere un conato di vomito salitogli su per la tristezza.
Fece un grosso sospiro, chiudendo gli occhi, lasciando che qualche lacrima sfuggisse alla presa delle iridi brille e totalmente ubriache. Si sentì solo per la prima volta in vita sua, in quel momento.
Solo, in mezzo ad una strada, ubriaco marcio, al freddo.
E Ashton, per la prima volta in vita sua, ascoltò in silenzio il suo cuore, senza più interromperlo.
E lo sentì distrutto, perché aveva appena perso la metà della sua vita. 

 
 
Mamma mia, sono pessima... da quanto non aggiorno?! D: 
Faccio proprio pena, madre... mi sa che è meglio se mi ritiro!
Anyway, dopo queste considerazioni su quanto possa fare schifo... hiiii people!   *canticchiano i grilli*
No vabbé, se ancora esiste qualcuno che si caga questa storia fatemelo sapere hahaha io praticamente l'avevo proprio abbandonata a sé stessa! 
Mi scuso tanto con le persone che stavano aspettando questo capitolo, ma la verità è che ho fatto molta fatica a scriverlo perché, boh... mi sono dedicata alla scrittura di altro e quindi l'ho messa un po' da parte. Buuut, ho deciso che mi metterò e la porterò avanti, anche perché mancano quattro capitoli alla fine e ce la posso fare (seh, come no). 
Alluuuora, che dire? Il capitolo fa pena, l'ho appena finito e... fa pena. L'ho già detto, vero? Sì, ma sempre meglio ribadire. 
C'è questo litigio tra i duuue che fa dire cose nascoste a Margareth, uhuhuhu finalmente! 
Ad ogni modo, un po' di tempo fa, mi era venuta in mente una oneshot da scrivere - dal punto di vista di Ashton - sempre riguardante questo momento.
Una sorta di missin moment, per utilizzare termini efpiani (?) 
So adesso vi chiedo: a qualcuno piacerebbe se la scrivessi? Ovviamente, è ancora in forse, anche se ho una mezza idea in mente. Nel caso in cui potesse farvi piacere, fatemelo sapere, che io mi metto all'opera u.u 
E nulla, credo di non avere nient'altro da dire!
Se vi va, ho pubblicato da poco delle oneshot su Ashton e su Michael, quest'ultima in collaborazione con la meravigliosa Vane (Nanek, suu che la conoscete tutti! *-*) per il compleanno di Giaada (Andysmile, e ovviamente conoscete tutti quanti anche lei *-*)
Vi lascio i miei contatti di facebook twitter ed ask, nel caso in cui vogliate anche solo insultarmi u.u 
Grazie mille per esservi soffermate anche solo a leggere, siete delle anime pie *-*
Un bacione, 

Mary 
  
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