SENSEI
Com’è
strano. Di tutte le cose che mi potevano venire in mente ora, che sia proprio
questa a farlo è inaspettato.
Non
che abbia mai pensato realmente al giorno della tua morte, ma suppongo che se l’avessi
fatto avrei ipotizzato altri ricordi a comparirmi nella mente. Quella sera sull’albero,
quando mi hai costretto ad ascoltare verità che non volevo sentire, da ragazzino
illuso di ottenere giustizia quand’essa non è che un concetto
aleatorio. Oppure la terrazza assolata e la tua voce pacata che pronunciava una
presentazione che non voleva dire nulla, mentre ti prendevi gioco dei tre
bambini che ti avevano rifilato, nel tuo modo sottile e dissimulato. Il sorriso
bonario che mi hai rivolto dopo avermi sotterrato fino al collo, sventolandomi
il campanello davanti alla faccia. Oppure mi sarei potuto ricordare che quando
hai preso in mano le cose non ho più avuto così tanta paura: c’era
quel Sigillo sul mio collo, ma sembrava meno nero quando ci hai aggiunto il
tuo.
Invece
la prima cosa che mi viene in mente davanti a questa notizia è un
pomeriggio nuvoloso, una spianata dissestata a picco sul fianco scosceso della
montagna spoglia. Il mio respiro affannoso, le gambe tremanti e il mio braccio
che sembra diventare il prolungamento di un qualche dio, tra le mie dita la
luce perfetta e assoluta del fulmine, il suo riverbero nei miei occhi e nei
tuoi; l’energia ultima che scorre lungo ogni terminazione nervosa,
invadendomi di profondo trionfo. Due voci che pronunciano la stessa parola, il
doppio bagliore accecante che si diffonde e freme irradiandosi in una luce
sovrannaturale, l’esplosione della folgore e il boato.
Il
mio sangue che grida vittoria e un sorriso condiviso senza parlare, con la consapevolezza
della riuscita estrema.
Forse
non è strano. Forse la morte fa ricordare l’attimo massimo di
vicinanza con l’estinto, l’istante di completa intimità. Quel
giorno ero qualcosa di straordinario, ma non la ero da solo: eravamo in due.
Era
un rischio che hai voluto correre, regalarmi la scintilla e sperare di vederla
germogliare in un bel fuoco che riscaldasse Konoha e non invece in un incendio
devastatore.
Hai
perso, completamente perso.
Mi
volevi insegnare l’umiltà, ma non ti stavo ascoltando.
Hai
provato a spiegarmi il perdono, ma io volevo volgermi soltanto alla vendetta.
Mi
illustravi la collaborazione, quando io miravo unicamente all’ambizione
personale.
Doveva
essere stancante parlare a qualcuno che viveva senza neanche guardarsi intorno.
Ma
ti stavo ascoltando. Ti stavo ascoltando, anche se adesso non serve a niente
dirlo, e magari è vero che quel che hai seminato darà qualche
frutto, un giorno. Ma forse a te non importava davvero, forse essere un maestro
era trasmettere e poi auspicare che tutto si evolvesse nella maniera migliore, guardare dove i nostri passi si sarebbero
allontanati dai tuoi e quale percorso avrebbero intrapreso.
Quanto
a quella frottola che raccontavi ai tuoi avversari sul poter vedere nel loro
futuro, se puoi farlo ancora provaci di nuovo, con me. Risolvi quest’ultimo
interrogativo.
Adesso chi risponderà al mio chidori, sensei?