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Autore: vegeta4e    30/03/2015    2 recensioni
Haytham e Connor sono alla ricerca di B. Church, colpevole di aver tradito l'Ordine Templare e di aver sottratto a Washington i rifornimenti destinati all'Esercito Continentale. Il birrificio di New York è palesemente abbandonato e questo piccolo dettaglio obbligherà padre e figlio a collaborare, costringendo il Gran Maestro a lavorare separatamente sia con Charles sia con il figlio. Successivamente Haytham li convincerà a cooperare, tentando di metter da parte l'odio tra Assassini e Templari per raggiungere uno scopo più grande, desiderato da entrambe le fazioni: vincere la guerra contro gli Inglesi.
Ma non sarà questo l'unico intoppo. Torneranno vecchie conoscenze, vecchi problemi che H. Kenway credeva di essersi lasciato alle spalle. A cosa dare la precedenza? Ad una richiesta d'aiuto o a Washington che, battaglia dopo battaglia, sta perdendo sempre più terreno?
Questi eventi coinvolgeranno anche Connor e Charles Lee, nel bene e nel male.
Dal testo:
Charles e Connor entrarono nella sala, notandomi assente e pensieroso.
«Signore? Che succede?» Sospirai nuovamente, premendomi due dita alla base del naso.
«Temo di dovervi lasciare soli nelle prossime missioni. Devo tornare in Europa» annunciai tornando in posizione eretta per darmi un contegno.
Genere: Avventura, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charles Lee, Connor Kenway, Haytham Kenway, Jenny Kenway
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Capitolo 34

Il tizio imparruccato che stavo fissando da mezz’ora si decise finalmente a parlare, spiegando il foglio che aveva in mano e leggendo ciò che vi era scritto dopo un leggero colpo di tosse. «Signori, vi comunico che a fronte della disgrazia appena avvenuta che ha lasciato il nostro esercito temporaneamente senza comandante, il Consiglio si è riunito urgentemente per nominare un sostituto, il quale ricoprirà il ruolo seduta stante date le gravi condizioni in cui vertono i soldati che con coraggio e onore difendono queste terre.» Lanciai un’occhiata a Charles, che per l’ansia stava torturando la tovaglia di velluto del tavolo cui eravamo seduti.

Sapevamo tutti a chi sarebbe passato il comando, ma l’agitazione c’era lo stesso. Temevo quell’un percento di possibilità che Artemas, o chi per lui, soffiasse il posto a Lee per l’ennesima volta, ma in cuor mio sapevo che quella sarebbe stata la volta buona.

Dopo una breve pausa l’uomo tornò a guardare i presenti. «Il generale Charles Lee, seppur di origini britanniche, è chiamato al comando poiché ritenuto dall’ottantasei percento il più idoneo a sostituire George Washington, deceduto per cause ancora sconosciute, e a guidare l’esercito alla vittoria.» Lo guardai mentre serrava la mascella in uno scatto istintivo che mi ricordò tanto l’Haytham Kenway spensierato che viveva a Londra, che reagiva nello stesso modo quando Edith, una delle mie bambinaie, si accorgeva dei danni in giardino causati dall’irrefrenabile voglia di esplorare. Lo stesso Haytham il cui unico pensiero era quello di disporre i soldatini al centro del corridoio, davanti alla stanza dei giochi, nell’attesa dell’allenamento pomeridiano.

Sorrisi appena. Charles meritava quel posto più di chiunque altro, aveva le capacità e l’impegno adatti per poter vincere la guerra e solo Dio sa quanto fossi orgoglioso di lui in quel momento. C’è forse qualcosa di più bello che vedere il proprio figlio realizzare un sogno? Mi scoppiava il cuore.

Diedi una lieve gomitata a Lee, ancora incredulo per ciò che aveva sentito, destandolo e facendolo alzare scattando come una molla. Con passo deciso si avvicinò all’uomo che l’aveva appena proclamato comandante in capo, quindi gli strinse la mano con vigore.

«Buona fortuna, comandante.»

Lui sorrise di rimando. «Grazie, anche se non credo molto a questo genere di cose.» Già. Charles era un tipo più pragmatico. Non credeva al fato, al destino o stronzate simili. Ciò che accade è una conseguenza diretta delle nostre azioni, avevo perso il conto di quante volte gliel’avessi sentito dire.

Un colpo sordo alla mia destra mi fece voltare verso il tavolo accanto, scorgendo Connor e Adams seduti poco distante. Il volto di Samuel era teso ma rassegnato, come se si aspettasse da un momento all’altro l’ascesa di Charles. Il ragazzo, invece, tratteneva a stento l’ira. Se avesse potuto uccidere Lee con la sola forza del pensiero, beh, state pur certi che il mio pupillo sarebbe affogato nel suo stesso sangue in quel preciso istante.

Scostai lo sguardo da quei due imbecilli con disinvoltura, tornando a fissare Charles che, a turno, stava stringendo la mano a chi gli aveva dato fiducia. Con la coda dell’occhio intravidi Artemas, sulla destra, leggermente più avanti rispetto a me e Connor, notando un’espressione poco rassicurante anche sul suo viso. Ci mise qualche secondo per scorgermi tra gli astanti, interrompendo il discorso, che non riuscii a cogliere, che stava facendo con il tizio che non conoscevo seduto accanto a lui. Sicuramente si trattava di pettegolezzi su Charles e sulla misteriosa morte di Washington, ma poco m’importava. Non avrebbe potuto fare piazzate, non davanti a tutta quella gente, almeno.

Mi alzai istintivamente quando vidi Ward e il suo amico allontanarsi dal tavolo e aspettare che Lee fosse libero da tutte quelle formalità inutili.

L’intenzione era quella di imitarli e raggiungere Charles insieme a loro, ma Connor si avvicinò con poche falcate, sbattendo un pugno sul tavolo e attirando l’attenzione dei pochi lì intorno. «Scommetto che ci siete voi due dietro a queste cause sconosciute, non è così?» Sibilò. Ignorai il tono acido e la voce strozzata, concentrandomi più che altro sul dolore che dovesse provare per aver perso la sua nuova mamma adottiva. E se avevo sperato di provare un minimo di compassione facendo leva su un dettaglio del genere, dovetti ricredermi subito.

Adams lo raggiunse con calma, le braccia lungo i fianchi e la schiena dritta.

«Se ti riferisci alla morte di George, temo di doverti deludere. Io e Charles non ci siamo mossi da New York per una settimana» e nessuna prova può dimostrare il contrario, caro ragazzo mio.

«Potresti aver assoldato qualcuno, è pieno di gentaglia pronta ad intascare il tuo denaro per fare il lavoro sporco al posto tuo.»

Risi appena, soffiando aria attraverso le labbra leggermente dischiuse. «Vero, ma non è questo il caso.» Vidi Lee tornare verso di me e giunsi le mani dietro la schiena, intenzionato più che mai a stroncare quell’assurdo discorso.

«Congratulazioni, Charles.» Artemas e l’altro tizio spuntarono da dietro Samuel, e Ward gettò un braccio intorno alle spalle del mio pupillo. «Sei contento? Finalmente hai ottenuto quello che volevi, così non romperai più il cazzo a nessuno.» Lo strinse a sé, intrappolandogli il collo nell’incavo del gomito e sorridendogli beffardo. I denti scoperti come un cane affamato, pronto a banchettare al primo passo falso di Lee.

«Già. Ricordati che io non sono come Washington, non ho bisogno delle tue visite notturne, d’accordo? Preferisco dormire da solo.» Replicò senza scomporsi e sfoderando un sorriso di circostanza.

Artemas rise, sorvolando sulla frecciatina di Charles e scoccando un’occhiata all’amico. «Ma sentilo, Philip, gli piace scherzare» tornò quindi a guardare Lee, schioccando la lingua contro il palato. «Beh, buona fortuna. Dopo tanta fatica goditi il freddo di Valley Forge, ti si congeleranno le palle dopo mezz’ora, ti avverto.»

«Lo so, non è la prima volta che ci vado.» Rise di nuovo, poi mi lanciò un’occhiata divertita e si allontanò non prima di aver lasciato una pacca a mano aperta sulla schiena di Lee. Li osservai fino a che non sparirono oltre la soglia della stanza, poi tornai a guardare Connor, che intanto si era avvicinato al mio allievo con fare minaccioso. Nel giro di un secondo lo afferrò per il bavero con poca grazia, avvicinandoselo e facendolo sbattere contro il bordo del tavolo.

«La pagherete tutti e due, mi sono spiegato?»

Charles aggrottò le sopracciglia, risentito per l’atteggiamento del ragazzo. «Vedo che sta diventando un’abitudine» si tolse malamente di dosso la mano di Connor, «è un vizio che dovete togliervi, chiaro? Porta rispetto, ragazzino, non ci metto niente a darti una lezione.»

Mio figlio avanzò di mezzo passo, portandosi ad un palmo dal viso di Lee. «Non sfidare la mia pazienza.» Prontamente afferrai Charles da dietro, infilando quattro dita all’interno del colletto della giacca e tirandolo verso di me, lontano dall’Assassino.

«Adesso basta, state diventando ridicoli. Vedete di darvi una calmata. Tutti e due.» Posai l’altra mano sulla spalla sinistra di Connor, «qui nessuno ha ucciso Washington, puoi chiedere a tutte le guardie di Fort George, non siamo stati noi.»

Con una manata il ragazzo si liberò dalla mia presa, indietreggiando di un passo e puntandomi contro un dito accusatore. «Se speri di convincermi sei fuori strada. Tu, i tuoi compagni e le tue guardie siete gli ultimi uomini di cui mi fiderei» lanciò un’occhiata a Charles, poi tornò a fissare me. «La collaborazione finisce qui» e senza aggiungere altro raggiunse la porta senza neanche aspettare Adams, che a capo chino gli andò dietro.

Una volta soli sbuffai esasperato, portando due dita alla base del naso per fare il punto della situazione. Sarei rimasto solo a New York, solo contro Connor, che sicuramente avrebbe scatenato altre rivoluzioni inutili. Il lato positivo, almeno, era che non avrei più dovuto preoccuparmi dell’esercito. Con Charles al comando sarebbe filato tutto liscio.

«Chi era quell’altro tizio?» Domandai di punto in bianco riferendomi all’amico di Artemas. Era rimasto in silenzio per tutto il tempo, guardando Lee di sottecchi e con aria dubbiosa e senza mai intervenire per schernirlo.

Charles si aggiustò il colletto della giacca. «Parlate di Philip Schuyler? È un mio pari. Anzi, era. George Washington nominò me, lui, Artemas e Israel Putnam come suoi secondi in comando.» Lo seguii fuori dalla sala ripensando a Philip. Il suo sguardo non mi era piaciuto per niente.

«Se è simpatico come Ward, bell’affare.» Rise piano, godendosi gli ultimi istanti caotici tipici della città.

«Forse un po’ meglio. Non abbiamo mai avuto modo di conoscerci. Non ce l’ho avuto con nessuno, in verità. Eravamo tutti impegnati con le truppe, io in particolare, visto che faccio parte anche dell’Ordine.»

Svoltammo un angolo, e nonostante la folla che ci separava dalla porta, riuscii a scorgere il cavallo già sellato per Lee, il quale l’avrebbe portato a Valley Forge.

«Beh, sarà meglio che vada.» Si aggiustò il cappotto, chiudendo gli ultimi bottoni, per poi farsi spazio tra le persone per arrivare all’uscita.

Lo seguii stizzito. «Non si usa più salutare?» Charles si fermò di colpo, come se gli avessi fatto notare di non avere la pistola. Mi guardò con aria colpevole, poi mi gettò un braccio oltre la spalla, afferrando il mantello e stringendo forte. Ricambiai la stretta, passandogli una mano sotto la coda bassa, i capelli malamente raccolti sotto la nuca.

«Non sarei partito senza salutarvi» sussurrò contro la mia camicia.

Sorrisi, la pelle della guancia tirata contro il suo orecchio. «Lo so» gli diedi una pacca sulla schiena e sciolsi l’abbraccio, guardandolo negli occhi, «su, vai. I soldati ti aspettano.»

Annuì con convinzione. «Dite voi a Jennifer che sono a Valley Forge. E tenetela d’occhio al posto mio.»

Roteai gli occhi, esasperato. «Non te la ruba nessuno, ti ci metto la firma col sangue.» Mi guadagnai un’occhiata risentita da parte di Lee e non riuscii a trattenere una risata. Mi diede un ultimo colpo sul braccio e senza aggiungere altro raggiunse il cavallo davanti all’entrata, che partì al galoppo verso la periferia di New York.

 

 

Anche oggi ad orari vergognosi, ma ormai va così, lool.

Graaazie come sempre a chi recensisce e legge soltanto, aaww, a presto :3.

 

   
 
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