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Autore: fuoritema    31/03/2015    1 recensioni
{69esimi Hunger Games; OCs; guerra; triste; un po' introspettiva}
***
Camminò a ritroso ancora e ancora, gli occhi aperti come per captare ogni singolo cambiamento del paesaggio, ma il fantasma continuava a incombere su di lui. Era alto quanto bastava per farlo sentire inquieto, perché ricordava – e ne era certo – che Volpe fosse ormai più bassa di lui. Forse la morte rendeva più alti o forse la sua mente gli stava giocando dei brutti scherzi. Il ragazzo strizzò gli occhi nuovamente, convenendo che la seconda ipotesi era la più probabile se non voleva cadere nel sovrannaturale.
"I fantasmi non esistono, idiota."
E i fantasmi non esistevano fino a prova contraria, ma gli Strateghi sì: tra tutte le diavolerie che potevano aver inventato per terrorizzare i Tributi, quella poteva benissimo essere la vincente.
***
I 68esimi Hunger Games visti da Tributi di distretti totalmente diversi. Una delle edizioni dimenticate, una delle edizioni che hanno troncato la vita a ventitré giovani. Perché ci sono giochi a cui è meglio non partecipare.
Mai.
Genere: Avventura, Guerra, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Finnick Odair, Presidente Snow, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'We are not iron children, our shields are shattered glass '
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Banner stupenderrimo fatto da ThanatoseHypnos, che ringrazio molto <3

 

(XVI)
You're so hypnotizing.
Could you be the devil?
Could you be an angel?
 
 
 



Mahinete piangeva ancora, quando il suo alleato decise di lasciarla andare. Era un pianto sommesso, fatto solo di lacrime e sguardi lanciati di tanto in tanto al ragazzo. Tremava – difficile capire se per la tristezza o il freddo – e i suoi capelli venivano smossi dal vento. Raika osservò le ciocche incrociarsi, annodarsi, e ne prese una in mano.
«Le telecamere» sussurrò nell’orecchio dell’albina, aspettando che gli desse un segno di aver capito. E lo diede, restituendogli il bacio di poco prima.
«Che fai?»
«Ora siamo pari» sorrise Neth, con le guance arrossate – come gli occhi, pensò il bruno. Le telecamere li seguivano a ritmo frenetico, cercando di cogliere ogni loro singolo movimento da più angolazioni. Un bacio tra i ghiacci non si era mai visto e i capitolini ne sarebbero stati contenti. Era un bacio da far commentare a Caesar Flickermann, e per far vivere loro. Per un attimo, Raika si sentì spregevole: un nodo gli attorcigliò lo stomaco.
“Se avessimo avuto più tempo, sarebbe successo lo stesso” si disse, per rassicurarsi. Ma lo sapeva anche lui che era solo una bugia, come la maggior parte delle cosa che aveva detto fino ad allora. Per coprire il suo lavoro al distretto, per vivere, per tenere al sicuro Mahinete da quello che la aspettava.
«Lo vedo e vorrei passare in vantaggio.»
Fece scorrere la sua guancia su quella dell’alleata, ancora umida di lacrime, e ci posò un delicato bacio. Gli sembrò di sentire gli “oh” delusi dei Capitolini che stavano guardando la TV. «Hai vinto. Ora però fammi vedere la ferita» gli ordinò Neth, indicando tre tagli paralleli, fatti dallo stesso pezzo di ghiaccio cui si erano aggrappati per sfuggire all’acqua. Il sangue che ne usciva si era unito, raggrumato, e la garza era scivolata in giù.
«Avanti» aggiunse, poiché Raika non si muoveva di un millimetro. Aveva sopportato ferite più dolorose di quelle: bruciature, graffi fatti con vecchi chiodi arrugginiti che sporgevano dalle travi di casa.
«Non mi serve il tuo aiuto. Un’altra fasciatura mi rallenterebbe.»
«E altro sangue perso farebbe lo stesso» rispose prontamente e il ragazzo capì che avrebbero potuto continuare all’infinito, se non si fosse lasciato medicare. Guardò Mahinete e per un secondo la vide come Rebekah, la prima volta che si era scottato con la fiammella.
«Va bene» borbottò a mezza voce, roteando gli occhi. Non ebbe neppure il tempo di dire altro che l’albina gli buttò del disinfettante sulla ferita, facendolo gridare.
«Forse dovresti fare più piano.» Mascherò un gemito con un colpo di tosse, scostando bruscamente la mano dell’altra.
«Forse non sei tanto forte come dici» lo rimbeccò, continuando imperterrita a medicarlo. Non era mai stata brava con le tecniche di sopravvivenza: dopotutto, non aveva mai neppure accennato all’idea di offrirsi. Gli Hunger Games per lei erano solo stati così lontani da non essere neppure presi in considerazione. Solo Hito, una volta, aveva avanzato l’ipotesi di offrirsi per i soldi. Era stato subito dopo una tempesta che aveva spazzato via le barche a largo, mentre osservava l’orizzonte alla ricerca di un segno di vita. Mahinete gli aveva fato cambiare idea all’istante.
«Ti prego. Fa’ piano» la supplicò Raika. Il bruciore si era fatto insopportabile e le sue difese stavano crollando una dopo l’altra. Sebbene tentasse di non risultare dolorante, le sue reazioni non facevano altro che tradirlo.
«Okay, okay. Faccio piano, capo.» Neth si fermò, lo osservò per un attimo con occhio critico, come per accertarsi che stesse soffrendo per davvero, e  posò il disinfettante per terra.
«Fa male?»
«No, guarda, fa bene, solo che io ho voglia di lamentarmi» fece lui, laconico. Il silenzio che calò lo fece pentire della battuta appena fatta.
«Sai cosa non mi piace di te?»
«Tutto?» azzardò il ragazzo, con una risata che risultò forzata persino per lui.
«No, che stai diventando acido come un limone. Perché avrei potuto lasciarti in qualsiasi momento e non l’ho fatto, ma continui a borbottare parole che non pensi davvero per farmi incazzare. O per farti abbandonare, che è ancora peggio.»
“Bell’inquadramento, complimenti” pensò Raika, un sorriso sulle labbra. Non avrebbe mai pensato che la pecorella avesse potuto fare una riflessione del genere, considerato che nessuno gli aveva rinfacciato le sue risposte derisorie. Ma la cosa ancora più assurda era che aveva capito perché si stesse comportando così. O farti abbandonare. Era quello che stava tentando di fare da già troppo tempo, perché Mahinete non avrebbe mai trovato il coraggio di ucciderlo e lasciarla così sarebbe stato meglio per entrambi. Quando infine si decise a rispondere, lei aveva già iniziato a stufarsi di aspettare.
«Come fai a sapere che non lo penso davvero?»
«Perché menti con le parole, non con il corpo» rispose con una scrollata di spalle. «Perché ti guardo e vedo solo un’idiota che vuole fare l’eroe del cazzo, senza pensare che, trattandomi così, non migliorerà le cose.» Lo sguardo dell’albina si soffermò nel suo, orgoglioso, e lei riprese in mano la garza.
«Ora, se mi vuoi scusare, ho una ferita da mettere apposto.» Un’altra pausa di silenzio, più lunga di quella precedente, che diede il tempo a Raika di riflettere su quelle parole. Aveva solo deciso di salvarla, che c’era di male in questo? Rebekah lo avrebbe trattato così, ma forse quell’atteggiamento non si addiceva a lui. Era strano aver indossato una maschera per così tanto tempo e doversela togliere, perché finalmente una stupida pecorella se n’era accorta.
Intanto, dal cielo, i volti dei caduti di quel giorno li osservarono, come a renderli colpevoli di quello che gli era successo. Forse era proprio così.
“Scusa, Nat” pensò il Tributo del nove, e i suoi occhi si abbassarono verso terra.


 
«Che ti sei fatto?» Rebekah lo guardò dall’alto, indicando con le dita sporche di cenere il suo braccio. Aveva lo zaino sulle spalle, quello vecchio, che i ragazzi della banda consideravano ridicolo. Quello però non gliel’avrebbe mai detto, pensò Raika. Sapeva perfettamente quale sarebbe stata la reazione della ragazza e non voleva certo passare il resto della giornata a massaggiarsi la guancia.
«Nulla» rispose infine il ragazzo, nascondendo con la manica il punto che aveva indicato prima. Volpe inarcò le sopracciglia.
«Qui si suppone che io sappia i piani dei Pacificatori, ma non ho neppure la più pallida idea di dove tu abbia trovato quei fiammiferi» esclamò, sorridendo, ma smise di farlo quando notò che Josh fuggiva il suo sguardo.
«Bene. Il mio fornitore dà un accendino a un marmocchio… Me ne ricorderò.» Il suo sguardo tornò a posarsi sul braccio di Raika, poi scostò il tessuto per osservare meglio la scottatura.
«Primo grado. Sei fortunato» commentò, tirandogli uno schiaffetto sulla parte offesa. «Ah… Josh. Se prendi una decisione da coglione, mi potresti fare il piacere di dirmelo?» aggiunse, in un tono carezzevole che non prometteva nulla di buono.
«Gliel’ho chiesto io.» Dal modo in cui lo guardò, Raika pensò che si fosse dimenticata della sua presenza.
«Ma guarda un po’! Pensavo che te l’avesse messo in mano per caso!» Forse il marmocchio non era capace di cogliere l’ironia, perché la guardò con un’espressione interrogativa dipinta sul volto. Avrebbe dovuto spiegargliela dopo, ma per il momento era meglio ficcargli nella zucca di non toccare fiammiferi.
Lo spinse dietro la casa abbandonata, facendolo fermare proprio davanti a sé.
«Cosa credevi di fare?» gli chiese, scuotendolo. Raika le rispose con una scrollata di spalle. «Se non sai usarlo, ti bruci.»
«Ma allora come cazzo posso imparare?» le chiese, calcando la voce sulla parolaccia. Sapeva di averla spuntata e questo non andava bene.
«Attento alle parole che usi, o non sarò responsabile di quello che potrei farti, marmocchio.»
«Non sono un marmocch-»
«Non sei un marmocchio intelligente, sì» lo fermò con un ghigno divertito. Raika stava imparando in fretta, ma continuava ad essere incerto su come trattarla – se dimostrare ancora di più il suo coraggio o smettere di sfidarla. Alla fine, la posizione superiore della ragazza gli fece rivalutare ciò che aveva appena fatto.
«Rilassati, stiamo parlando normalmente. Anzi… Mi stai rispondendo meglio di tutti gli altri idioti messi insieme.»
«Non è tanto difficile» constatò lui, con un sorrisino. Il braccio gli faceva ancora male, ma era sopportabile e con lo sguardo della ragazza puntato su di sé non sarebbe stato furbo lamentarsi.
«Dovresti passarci su un po’ d’acqua.»
«Già. Peccato che non ce l’abbiamo.»
«E chi ti ha detto che dobbiamo usare la nostra?» chiese il suo capo, retorica. Teneva il cappello calcato in testa, e in quel momento avrebbe facilmente potuto essere scambiata per maschio, se non per i modi così… femminili. Camminava in punta di piedi, le braccia un po’ allargate e il passo sostenuto. Sembrava che tutti i suoi movimenti avessero delle finalità precise: nulla era dato al caso, per lei.
«E quale, allora?»
«Non fare l’innocente. Lo sai meglio di me.» Il guizzo nel suoi occhi non gli passò inosservato e Raika capì che quella ragazza era capace di leggergli dentro meglio di tutte le persone che aveva incontrato fino ad allora. Vedendola non si sarebbe detto, pensò. Sebbene tutto nel suo modo di vestire fosse rozzo, Rebekah conosceva miriadi di parole. Con loro le sfoggiava di rado, come con i commercianti cui chiedeva i fiammiferi, perché parlare così le avrebbe fatto perdere la fama che si era guadagnata. Al massimo sputava parolacce, come uno scaricatore di porto. L’aveva vista persino fare a botte, per calmare qualche discussione finita in malora. Ma non era un maschio lo stesso.
“Smettila di guardarmi come un pesce lesso. Sono una donna, e allora?” aveva esclamato, quando lui si era accorto del suo sbaglio. Già: allora cosa? Raika non lo sapeva e quelle parole non avevano fatto altro che fargli crescere la curiosità sul suo conto.
«Come hai fatto a diventare capo?»
«Quando è morto il mio, lo sono diventata automaticamente. E le mie abilità col fuoco mi hanno dato una mano» sogghignò. Il ragazzino non si era neppure accorto che avevano iniziato a camminare verso i granai, mentre i marmocchi che giocavano dopo il lavoro li guardavano sbalorditi. Una bambina si accostò a Rebekah, le tirò un lembo della giacca e aspettò che si abbassasse per dirle qualcosa nell’orecchio. Era stata l’unica ad avvicinarsi: gli altri li guardavano, senza proferire parola.
«Questa è Arya – indicò la biondina a Raika – una buonissima informatrice.» La presentò così e la piccola fece una specie di riverenza. I capelli lunghi le cascarono davanti agli occhi, evidenziando quanto già non fosse piccola.
«E voi cosa avete da guardare?» chiese agli altri bambini, che indietreggiarono, nascondendosi nel fogliame. «Grazie dell’aiuto, Arya» aggiunse, congedando la bimbetta. A Raika non sfuggì l’occhiata che le lanciò, piena di ammirazione, e il sorriso sincero che comparve sulle labbra della Volpe quando se ne fu andata con gli altri.
«Perché una così piccola?»
«Le cose devono cambiare, e per farlo ci serve tutto l’aiuto possibile» rispose. Il bruno sbuffò infastidito, ticchettando le dita sul tronco di un albero.
«Non hai risposto.» Si sarebbe aspettato che la mano di Rebekah scattasse per tirargli una sberla, ma non accadde.
«Hai ragione – ammise lei – Lei è un topo, come tutti quelli che si lasciano sovrastare dalla capitale, ma non vuole rimanerlo. È  come noi.»
Ricordava, un volta, di aver visto il signor Schiller mettere le trappole per i roditori che infestavano il vecchio granaio, ricordava gli animali morti, le loro carcasse buttate via e persino quelli che erano riusciti ad eluderle, ma erano stati uccisi comunque. Per un attimo, li paragonò al gruppo dei ribelli di cui faceva parte. Loro erano gli ultimi, quelli furbi, eppure anche loro non ce l’avrebbero fatta. Forse ci sarebbero riusciti con l’aiuto della popolazione, o forse sarebbero morti tutti tentandoci.
«Andiamo a prendere questa benedetta acqua per la tua cazzo di bruciatura?»
E Raika si limitò ad annuire, senza dare voce ai suoi pensieri.

 

«Fa meno male?»
Raika strinse i denti, annuendo. Non avrebbe mai pensato che disinfettare soli tre graffi sarebbe stato così doloroso, ma non voleva dare la soddisfazione a Mahinete di scoprirlo senza parole.
«Sì, anche se come medico fai davvero cagare» la informò con una scrollata di spalle. Lei gli rispose con una linguaccia e, sventolandogli davanti la boccetta, aggiunse che avrebbe potuto farselo da solo. Poi si mise a giocherellare con la borraccia: ticchettava le dita sulla plastica, poi la faceva girare. Ricordava di averlo visto fare anche a ‘Bekah, quando aspettava notizie da una qualche spedizione che aveva mandato in avanscoperta. Non si mangiava le unghie né torturava le pellicine, ma aveva la brutta abitudine di giocherellare con le cose che le capitavano a tiro. E a Raika dava fastidio, proprio come vedere il suo vecchio alleato con le mani in bocca. Naturalmente, se gliel’avesse detto, Volpe gli avrebbe rifilato due ceffoni in un amen, conditi da un’occhiataccia. Quel pensiero lo fece sorridere e allontanare dal ricordo di Nat, che già cominciava a farlo sentire in colpa.
“Sopravvivere: devo fare questo.”
Si ripeté come un mantra, gli occhi volti verso il ghiaccio. Era l’alba, l’ottava in quella cazzo di Arena. Una come tante altre, con il sole che sorgeva e la sua luce che colorava di un pallido rosa le lastre davanti a sé. Al nove era più bella, si disse: nonostante l’acqua rilucesse alla luce, al suo distretto era migliore. Forse le spighe la rendevano meglio, con tutte le sfumature che assumevano muovendosi al vento. O forse era l’alba di casa perché, anche se non l’avrebbe mai ammesso – pena darsi del rammollito – il vecchio granaio gli mancava. Gli mancavano i suoi giri per le strade da solo, i commenti della gente e le sue risposte sibilate tra i denti. E Axel, e Nicola.
«Neth… A volte pensi al quattro?» le chiese, come se le parole gli fossero scappate dal cuore perché la sua bocca non voleva pronunciarla. Mahinete fece una faccia strana e per un momento il ragazzo pensò che gli avrebbe chiesto di ripetere la sua domanda.
«Sempre. Scommetto che anche il tizio-acido-come-un-limone ci pensa spesso.»
«No.»
«Menti. Penserai a Rebekah, immagino, a una possibile fidanzata.»
«Le ragazze mi fuggono, genio» ribatté Raika.
«Quindi staresti insinuando che non sono una ragazza?» gli chiese lei, puntandogli scherzosamente l’indice al petto. Il bruno la tirò a sé, facendole poggiare la testa sulla sua spalla. E dovette persino abbassarsi, data la bassezza della sua alleata.

«No.» Mahinete gli tirò uno schiaffo sulla gamba. «Sei una pecorella.» Poi sospirò, roteando gli occhi con un gesto teatrale. Le piaceva quella vicinanza, le piaceva sapere che, se avesse voluto, avrebbe potuto abbattere la distanza tra le loro labbra. Le piaceva sfiorare la pelle di Raika con il suo naso e sentire quanto fosse calda, ma anche fredda.
«Mio fratello dice che sono una principessa» mormorò infine.
«Non ha tutti i torti.»
Raika le scostò i capelli dalla faccia, accostando le ciocche bianche a quelle argentate, scolorite e quasi ghiacciate. E ripensò a quando l’aveva vista all’Intervista, a come Caesar le avesse detto che era stupenda nel suo completo bianco come la spuma del mare – che il Tributo del nove detestava, anche se quel paragone gli era sembrato adatto. Neth era un essere marino e gli esseri marini erano spuma, o almeno così gli era sembrato di ricordare.
Anche in quel momento, con le guance arrossate per il freddo e la treccia sfatta, il Tributo del nove pensò che era una principessa di quelle rinchiuse in un castello. Ma lui non era il principe.
Lui era il drago, quello che la sorvegliava e costringeva a rimanere nel suo castello fino a che il vero amore non sarebbe giunto. Quello che la guardava da lontano, ammirando la sua bellezza, ma sarebbe morto per mano di un fatuo bellimbusto dai capelli biondi. Sì, perché i principi azzurri erano biondi con gli occhi blu. Come il mare.
«Potrei essere il tuo principe» le sussurrò tra i capelli, per convincersi che andava bene così e il resto non contava.
«Lo sei già» rispose lei, sorridendo. Le sembrò quasi comico vedere quanto fosse arrossito e come avesse abbandonato quell’aria da duro che aveva sempre. Per la prima volta, aveva vinto lei nel loro gioco di sguardi. Era uno a zero… o forse era un pareggio, chi avrebbe potuto dirlo?
Però lo aveva battuto, ed era quello tutto ciò che contava.

 

Al suo risveglio, Raika scoprì che era stato un errore addormentarsi, che lo zaino di Mahinete era scomparso e lei con esso. Che avrebbe dovuto badare a lei meglio di come avesse fatto.
Glielo ricordò un colpo di cannone e il ragazzo capì che non era nemmeno capace di fare il drago.
  
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