La
creaturina sputacchiò e si scrollò con un
movimento vagamente
simile a quello di un cane bagnato. Poi i suoi occhietti si fissarono
nei miei, teneri e sicuri. Erano di un colore bellissimo e intenso,
che ricordava vagamente quello dell'ambra, ma un poco più
chiaro.
Incantata e sopraffatta dallo stupore, allungai
automaticamente la mano sinistra nella sua direzione e il draghetto
abbassò il capo, permettendomi di posarla sulla sua testa.
Una
scarica elettrica mi percorse tutta, provocandomi dolore e profonda
gioia allo stesso tempo.
Annaspai un poco e i miei occhi caddero
sul mio palmo, dove un ovale argentato risplendeva brillante nella
luce soffusa della sera.
Era accaduto tutto così in fretta che mi
ritrovai a fissare le sue squame verdi con un'espressione che doveva
incarnare la più pura stupidità.
I resti dell'uovo giacevano a
terra e la creatura che aveva celato si muoveva incerta accanto al
mio ginocchio.
L'uovo si era schiuso.
Io, cavaliere di
drago.
Vidi la piccola coda del drago falciare l'erba e mi resi
improvvisamente conto che mia figlia era adagiata a terra lì
accanto. Proiettai il mio allarme all'esterno, con un grido mentale
talmente potente che il draghetto schizzò via di qualche
iarda e si
accucciò a terra, spaventato a morte.
Mi accucciai vicino alla
mia piccola e gettai un'occhiata guardinga al drago. Non aveva avuto
intenzione di attaccarla per nutrirsi, vero?
Allungai un tentacolo
mentale e percepii il suo spavento e la sua incertezza. Sembrava si
stesse pentendo di avermi scelto come sua compagna, dopo la violenza
con cui l'avevo respinto.
Il mondo gli era nuovo e si sentiva
indifeso e affamato, ma mai e poi mai avrebbe osato attaccare mia
figlia, dal momento che ormai sapeva quanto la sua vita significasse
per me.
Era un cucciolo. E aveva paura del mondo e della vita
quanta ne aveva avuta la mia creatura prima che io la stringessi al
petto per la prima volta.
Gli trasmisi pensieri rassicuranti e,
intenerita, lo raccolsi tra le braccia, accarezzandolo come avrei
fatto con un gatto. Emise un mugolio che effettivamente ricordava
delle fusa, i suoi muscoli si sciolsero e il suo spavento si
dissipò,
subito sostituito da una gioia vivace.
Due settimane dopo
arrivai ad Ellesméra di notte, come una ladra.
La mia piccolina
aveva più di un mese, aveva perso da tempo il laccio che
l'aveva
tenuta legata a me ed era cresciuta. A quel punto i suoi occhietti
erano bene aperti, però mantenevano ancora i colori diversi.
Erano
un poco grottesche le sue iridi così colorate, ma quando la
vedevo
seguire con gli occhi i tratti del mio viso, riconoscerli e poi
rivolgermi un sorriso sdentato, sentivo sciogliersi dentro di me un
nodo che troppo spesso si formava all'altezza dello stomaco.
Persino
i capelli rossi si erano un poco infoltiti ed era ormai chiaro che
sarebbero diventati dello stesso colore di quelli di Durza,
così
come la sua pelle.
La bimba gorgogliava in mia presenza, si
attaccava volentieri al mio seno e piangeva un'infinità di
volte al
giorno. Era la mia salvezza e io la adoravo e la amavo come non avevo
mai amato niente e nessuno.
Anche il draghetto era già cresciuto
dopo quelle poche settimane di vita. Ero stata costretta a cacciare
un cervo per dargli della carne di cui nutrirsi ma confidavo che
prima o poi sarebbe stato in grado di procurarsi il cibo da solo.
Era
di un verde brillante, che si sarebbe facilmente confuso con il
colore della foresta in primavera e i suoi occhi vivaci e insieme
indomiti mantenevano il liquido colore ambrato. Aveva un carattere
particolare, timido e giocherellone insieme e i pensieri che mi
trasmetteva erano sempre di gioia e di stupore. Nonostante fosse nato
dopo mia figlia, era già parecchi passi davanti a lei nello
sviluppo.
Inutile dire che non lo lasciavo avvicinarsi a lei, non
troppo perlomeno. Ero un po' troppo apprensiva nei confronti del mio
sangue, ma mi proponevo di migliorare quella mia chiusura in
futuro.
La notte che arrivai nella mia città natale, il cucciolo
-che era un maschio- aveva già il suo nome:
Fírnen.
Avevo
passato un'intera mattinata a cullare la mia bambina tra le braccia e
a sfilare una lista infinita di nomi, tutti quelli che mi venivano in
mente tra quelli che avevo sentito da quando ero venuta al mondo.
Aveva rifiutato Fäolin, Glenwing ed Evandar, per mio lieve
disappunto, accettando infine il nome appartenuto ad un mio vecchio
precettore. Era colui che mi aveva dato approfondite lezioni sulla
storia dei draghi e dei loro cavalieri, quando ero ancora una
bambina. Avevo saputo da Däthedr che aveva perso la vita a
Gil'ead,
ma, nonostante avessi un gradevole ricordo di lui, non avrei mai
sospettato che il mio drago potesse affezionarsi al suo nome al punto
da decidere di adottarlo come suo.
Non mi fermai in città quella
notte. Invitai il mio cavallo a compiere un ultimo sforzo e lui mi
assecondò docilmente. Doveva essere la seconda ora del
mattino
quando giunsi alla rupe di Tel'naeír e aprii la porta del
capanno di
legno di Oromis.
Inspirai l'odore di legno e resina, mischiato a
quello di abbandono, poi raggiunsi il giaciglio che era stato del
saggio dolente e mi coprii con le coperte che mi avevano accompagnata
nel mio viaggio, stringendo mia figlia tra la braccia e sentendo
Fírnen accoccolarsi ai miei piedi.
A un anno dalla mia cattura e
dalla morte di Glenwing e Fäolin, sognai l'ultimo sguardo che
mi
aveva lanciato Durza, subito prima di morire. Al mio risveglio, avevo
gli zigomi bagnati di lacrime
Quando il mattino seguente
Däthedr
si presentò alla rupe e mi vide, con una bimba in braccio e
un
draghetto sulle spalle, al povero elfo per poco non venne un
accidente.
Decisi di partire dal racconto della schiusa di Fírnen,
perché nonostante tutto era la storia più facile
da raccontare, poi
passai a mia figlia. Restai sul vago: mi limitai a dire che era una
mezz'elfa, che aveva sangue umano nelle vene e che mi stavo occupando
di lei. Avevo modificato il suo aspetto e la sua pelle era ambrata e
i suoi occhi azzurri.
Come quelli di Alba.
E fu proprio lei
l'argomento successivo che sottoposi al mio amico, prima che potesse
insistere ulteriormente sulle origini della bambina. Gli parlai
dell'elfa che mia madre aveva esiliato e gli dissi di averla
incontrata ad Ilirea pochi giorni prima della mia partenza dalla
capitale degli uomini. Riferii che chiedeva di essere reintegrata
nella nostra società e che era pentita di ciò che
aveva
fatto.
Däthedr mi ascoltò con molta attenzione e mi
promise di
proporre la questione al Consiglio il più presto possibile.
Era
ovvio che ricordava l'esistenza di Alba e che la questione era
rimasta pesante sul suo cuore per tutti quei decenni.
Confidavo
che nel giro di una settimana Alba avrebbe avuto il permesso di
entrare nuovamente nella Du Weldenvarden, con probabili e dovuti
limiti e precauzioni del caso.
Ma per il momento faticavo a capire
chi, tra Fírnen e mia figlia, sconvolgesse di più
il reggente degli
elfi.
Quello stesso pomeriggio avvenne la
cerimonia di addio a
Islanzadi.
Lasciai Fírnen al capanno di Oromis perché non
attirasse troppi sguardi curiosi, ma già la presenza della
mia
piccola, adagiata sulla mia schiena nello zaino che mi aveva regalato
Alba, era un ottimo elemento di distrazione. Un neonato non passava
certamente inosservato ad Ellesméra, specialmente se sulle
spalle
dell'ambasciatrice, notoriamente non accompagnata e ancora
più
notoriamente impegnata nella battaglia contro Galbatorix fino a poche
settimane prima.
Ringraziai mentalmente l'abituale discrezione del
mio popolo e l'affetto profondo che in qualche modo li aveva legati
alla loro defunta regina, che in quel momento occupava pienamente i
loro pensieri.
La cerimonia durò parecchie ore, ma io mi
allontanai ben prima. Era stata scavata una buca rotonda non troppo
lontano dall'acacia che era stata piantata per Evandar, ai tempi
della battaglia di Ilirea, e lì fu deposto il corpo senza
vita di
mia madre, ancora perfettamente conservato grazie alla magia di
Däthedr.
Mi chinai su di lei e, portando le dita alle labbra,
pronunciai parole d'addio, a voce sufficiente alta perché
tutto il
nutrito gruppo di elfi intorno a me potesse sentire.
Questa
è mia figlia, madre.
Aggiunsi nei miei pensieri. Nelle
sue vene scorre il sangue di Evandar e del suo assassino e sono
sicura che l'avresti amata con tutto il cuore. E sono cavaliere,
adesso. Mi prenderò cura della nostra gente, come hai sempre
fatto
tu.
Ero
la parente più stretta di Islanzadi, così fui io
a scegliere che
albero fare sorgere sui suoi resti, dopo che Däthedr ebbe
annullato
l'incantesimo che li preservava.
Così un salice piangente
affiancò l'acacia e i rami dei due alberi si sfiorarono in
una
eterna carezza, la cui vista mi fece lacrimare nostalgicamente gli
occhi.
Non pronunciai alcun discorso e non cantai alcuna canzone
in memoria di mia madre. Non ero riuscita a dare voce al mio dolore e
in fondo non mi sentivo degna di cantare la sua scomparsa, quando
avevo goduto così poco della sua presenza, quando ancora
viveva.
Lasciai ad altri il compito. Däthedr recitò una
poesia
che mi strinse il cuore dal dolore e anche la breve canzone di
Rhunön
-cantata con la sua voce roca- colpì duramente la mia
coscienza
ferita.
Poi la mia bambina si mise a piangere sonoramente nel bel
mezzo dei dolci suoni della cerimonia e io mi allontanai cullandola
gentilmente, per non disturbare ulteriormente la
celebrazione.
Ascoltai il resto da lontano, dondolando pigramente
le gambe dall'alto ramo di un albero e chiedendomi se per caso non
dovessi dare a mia figlia il nome che un tempo era appartenuto a mia
madre.
Mi risposi immediatamente: era meglio di no, o a quel punto
sarebbe stato ovvio che era una creatura mia.
Alla fine tornai
alla pacifica solitudine della Rupe di Tel'naeír e lasciai
che la
gaia coscienza di Fírnen mi circondasse come in un abbraccio.
Ero
un'elfa adulta che trovava consolazione solo nella presenza di due
cuccioli. L'idea mi faceva sorridere.
Cinque giorni dopo
Däthedr si inerpicò fino alla Rupe per informarmi
che il Consiglio
avrebbe accettato il rientro di Aiedail solo se qualcuno si fosse
preso il compito di tenerla d'occhio, almeno per qualche mese.
«Ho
detto loro che sei già abbastanza occupata a crescere il tuo
drago e
a prenderti cura di una neonata, ma dato che sei stata tu a sostenere
la sua causa hanno insistito perché sia tu a controllarla.
Potrebbe
farlo qualunque membro del Consiglio ma per le prossime settimane
saremo impegnati per trovare il nuovo candidato al trono nodoso e non
credo che riusciremo a permetterci distrazioni. Te la senti, almeno
per un po'? In caso contrario potrei trovare qualcun altro che si
assuma la responsabilità..»
«Non è di alcun disturbo» lo
interruppi. «Potrà restare qui con me».
«E a tal proposito
vorrei chiederti quanto a lungo hai intenzione di mantenere il tuo
isolamento. Gli elfi hanno perso molto in questi ultimi scontri, ma
nessuno ha perso tanto quanto te, e lo capisco perfettamente.
Tuttavia la solitudine potrebbe finire per danneggiarti».
«Non
devi preoccuparti per me, Däthedr. Ormai il ruolo di
ambasciatore è
passato a Vanir e io non devo più traghettare l'uovo verde,
dato che
ormai è schiuso. Mi piacerebbe restare qui e prendermi cura
di
Fírnen per un po', tutto qui. I fatti di Ilirea mi hanno
sfinita e
ho bisogno di un po' di riposo».
L'elfo parve sul punto di dirmi
qualcosa, ma poi cambiò palesemente soggetto. «Se
non sono troppo
indiscreto vorrei chiederti cosa farai con la bambina che tieni con
te».
«Ho promesso a qualcuno che l'avrei cresciuta con tutto il
mio impegno e ho intenzione di mantenere la mia promessa».
Certo che
l'avevo promesso. A me stessa, e anche a lei.
Däthedr decise di
non insistere, ma indugiò qualche istante sul volto paffuto
della
piccola. «Mi piacerebbe moltissimo avere un figlio»
sospirò. «Ti
lascio al tuo meritato riposo, Arya Dröttningu».
In
quell'occasione l'errore fu palese e il mio amico si
affrettò a fare
un gesto di scuse, che ricacciai con un lieve sorriso che voleva
essere noncurante.
«Manderò un messaggio ad Aiedail» lo
informai.
E lo feci. La barchetta lasciò le mie mani non
più di
mezz'ora dopo e Alba giunse ad Ellesméra in due settimane.
Non potei
fare a meno di notare che, vista la rapidità con cui era
arrivata,
doveva essersi da tempo messa in viaggio in direzione della Du
Weldenvarden.
Gilderien il Saggio era già stato informato del suo
arrivo e le concesse facilmente il passo. E finalmente vidi Alba
nella sua vera forma, anche se lei sembrava essere un po' a disagio
nei panni di un'elfa. La sua altezza era invariata e rimaneva un poco
più bassa di me, ma i capelli erano più chiari,
del biondo lucente
della mia razza e celavano malamente grandi orecchie a punta. Il
più
grande cambiamento era tuttavia nei tratti del volto: gli occhi
rotondi erano obliqui, e il viso un tempo pieno più scavato
e
allungato.
Non ricevette propriamente una festosa accoglienza. I
membri del Consiglio vollero riceverla immediatamente e la
costrinsero a giurare nella nostra lingua che non avrebbe
più
tentato di compiere le nefandezze del passato.
Feci una smorfia
nell'udire quell'ultimatum. Non disapprovavo totalmente la loro
previdenza, ma se mi avessero avvisata in anticipo, avrei potuto
comunicarlo alla diretta interessata prima che facesse il suo
ingresso nella capitale.
Alba non disse nulla, ma la sua
espressione era tormentata. «Non proverò mai
più a resuscitare
Solus» disse serenamente, e persino uno stupido avrebbe
capito
quanto le stava costando pronunciare quelle parole.
Non appena le
mostrai il capanno di Oromis mi disse immediatamente che non avrebbe
dormito in quella -parole sue- “topaia” e
così le offrii la
piccola dimora dove mi ero rifugiata per qualche tempo dopo la
rottura con mia madre.
«Hai delle orribili occhiaie violette» mi
disse, al posto di ringraziarmi. E, un po' per vendetta, un po'
perché prima o poi avrei dovuto avvisarla della sua
presenza,
indussi Fírnen a saltarle alle spalle, spaventandola a morte.
Volle
sapere da dove avessi pescato un drago e il racconto la
lasciò a
bocca spalancata. Ma poi si affrettò a dirmi che in fondo
c'era da
aspettarselo, vista la mia infelice abitudine di buttarmi a capofitto
in azioni suicide pur di salvare gli altri.
«Il tuo drago ha
pessimo gusto in fatto di persone, ma sarai un buon
cavaliere».
E
sapevo che detto da lei era un grande complimento.
Alba ebbe a sua
volta la sua vendetta non appena venne a sapere che mia figlia non
aveva ancora un nome. Inizialmente cominciò a chiamarla con
il nome
di Islanzadi, ma smise non appena la supplicai -in lacrime- di non
farlo. A quel punto le affibbiò il nome che era appartenuto
a lei:
Aiedail, minacciando di continuare ad usarlo fino a che non mi fossi
data una mossa a trovare qualcosa di meglio.
Sentendola rivolgersi
continuamente alla piccola con quel nome, finii per farlo anche io, a
più riprese, accettando infine quella soluzione temporanea.
«È
provvisorio!» specificai, con l'intento di cancellare il
ghigno
sfottente dalle labbra di lei.
Passarono così una decina di
giorni. Io vivevo nel capanno, giocavo con Fírnen e bevevo
la sua
allegria come fosse Faelnirv, crescevo la mia bambina e ricevevo
regolari visite da Alba.
Le brutte fantasie della mia mente si
erano un poco placate. Facevo ancora sogni orribili di morte e di
morti, ma erano meno nitidi. Qualche volta vedevo ancora macchie di
sangue nei posti più impensabili, ma mi bastava strizzare
gli occhi
per dissipare la visione.
Venne la neve e in pochi giorni ricoprì
Ellesméra di uno spesso strato candido. Fírnen
esitò a lungo prima
di osare uscire dal capanno, ma alla fine lo fece e un pugno di muti
dopo si stava rotolando spensieratamente in quel candore,
trasmettendomi ondate di gioia così profonda che scoppiai a
ridere.
Reggendo la mia piccola tra le braccia, uscii a mia volta, non prima
di averle coperto la testolina con un cappuccio di lana.
I fiocchi
di neve volteggiavano lenti nei suoi occhi spalancati. Agitò
le
braccia e aprì e chiuse debolmente le piccole mani, cercando
di
afferrarli e sbuffando stupita quando questi si scioglievano a
contatto con la sua pelle.
La solitudine, l'aria fresca
dell'inverno, la prima neve di Fírnen e di mia figlia..
Sentivo
calare su di me una pace pacata che probabilmente non avevo mai
sentito in tutta la mia vita.
Poi un giorno arrivò Däthedr,
accompagnato dagli altri anziani, e l'idillio si ruppe.
Con molte
premesse e molti giri di parole, mi fece capire che la scelta degli
anziani del Consiglio per il nuovo regnante era caduta su di me.
«Non
voglio» dissi subito, più seccamente di quanto
avessi
intenzione.
Non volevo diventare la sovrana degli elfi. Era un
ruolo che mi avrebbe assorbita completamente per decenni e decenni e
per di più sentivo che non mi sarei mai trovata a mio agio
in un
simile status. Un po' come aveva detto Athala, preferivo lasciare il
compito ad altri più capaci e decisamente più
entusiasti di me.
Ma
Däthedr e gli altri non si lasciarono abbattere dalle mie
parole.
Tornarono ogni giorno per una settimana, riempiendomi la
testa di suppliche e incoraggiamenti.
Finalmente capivo perché
Däthedr mi era sembrato tanto preoccupato per il mio
isolamento: mia
madre aveva lasciato indicato me come suo successore. E il Consiglio
non aveva trovato nulla in contrario alla mia candidatura.
Era
vero che la mia casata era al potere da parecchi secoli, ma era anche
vero che si erano sempre dimostrati buoni regnanti, motivo per cui
altre casate potenti e antiche avevano facilmente rinunciato alle
loro pretese sul trono nodoso.
Però non si trattava solo della
sgradita eredità lasciatami da mia madre. A quanto pareva
ero la
candidata perfetta sotto molti punti di vista: la mia gente mi
conosceva, conosceva il mio nome, conosceva le mie gesta e la mia
fedeltà agli elfi, sapeva che ero sempre stata disposta a
donare
tutta me stessa per la causa che stavo servendo. La mia
fedeltà era
incisa ad inchiostro violetto nella mia carne.
Inoltre avevo
viaggiato molto e avevo intessuto rapporti, anche personali, con le
maggiori potenze di Alagaësia; ero amica del grande Eragon
Ammazzatiranni, di Nasuada, conoscevo Orik e Orrin; Oromis era stato
mio maestro e io stessa ero diventata cavaliere di drago.
Senza
che me ne rendessi conto, ero diventata degna di rispetto e
ammirazione tra gli elfi.
E non volevo. Non volevo
assolutamente.
Ma la mia era una battaglia persa in partenza. Non
ero il tipo di persona che lascia cadere le proprie
responsabilità.
E sapevo che, vista la mia nuova condizione, quella di diventare
regina era ormai una responsabilità.
Altri avrebbero potuto
raccoglierla per me, anche se probabilmente avrei passato anni e anni
a mordermi le labbra, logorata dai sensi di colpa e dalla sensazione
di non essere stata abbastanza.
Quello che il Consiglio degli
anziani mi stava offrendo era una sorta di ricatto al quale non
potevo non cedere.
Dopo una settimana di insistenze, accettai,
legando per sempre il mio destino a quello della Du Weldenvarden e
dei suoi abitanti. O almeno così credevo.
L'incoronazione
avvenne due giorni dopo e fu organizzata con una tale fretta che fui
certa che tutti temessero una mia improvvisa fuga.
Quel mattino mi
costrinsi ad affidare mia figlia e Fírnen ad Alba e mi recai
al
palazzo di Tialdarí,
dove ogni parete e suppellettile sussurrava qualcosa che io avrei
certamente preferito non ascoltare. Parlavano di solitudine, di
spensieratezza, di dura consapevolezza, di rabbia, di amicizia, di
perdita..
La presenza di Islanzadi, o meglio la sua assenza,
aleggiava nelle sale come aria velenosa, pronta a soffocarmi nella
morsa dei ricordi e del dolore. Gli occhi neri di mia madre parevano
fissarmi severi dal Fairth in cui era rappresentata a braccetto di
mio padre Evandar.
Non scelsi nulla di troppo elaborato per la
cerimonia. Mia madre era stata un modello di grazia ed eleganza per
tutti e io non avevo intenzione di soffiarle il primato, anche
perché
non ne sarei mai stata capace. Così indossai un abito verde
con
ricami arancioni e dorati, mi feci aiutare per acconciare i capelli e
unsi le ciglia per renderle più lucide. L'elfa che mi aveva
aiutata
nei preparativi mi dissuase dal portare Ren con me, e per i minuti
che seguirono mi sentii completamente indifesa.
In piedi davanti
al trono nodoso, ricevetti da Däthedr una semplice fascia
dorata,
che tenni tra le mani mentre gli anziani sfilavano davanti a me, uno
ad uno, mormorando la formula di rito e sfiorando il monile con le
dita.
«Il tuo popolo ti ha scelta come sua protettrice»
dissero
con voci solenni e melodiose.
E mentre mi passavano davanti
sentivo il battito del mio cuore accelerare e raggiungere ritmi
talmente selvaggi, che sicuramente lo avrebbe sentito re Orrin da
Aberon.
All'improvviso non ero più tanto sicura di quello che
stavo facendo. Potevo aiutare moltissimo gli altri, ed era mia dovere
farlo, ma quanto di me stessa avrei dovuto sacrificare in quel
ruolo?
Anche quello di ambasciatrice era stato un incarico serio e
impegnativo per me, ma in fondo aveva sempre assecondato una parte
fondante della mia natura: la mia curiosità, la mia sete di
avventure e di scoperte, il mio desiderio di viaggiare e di
libertà.
Poco di quello sarebbe rimasto mio se fossi diventata
sovrana degli elfi. L'unico vantaggio che mi si presentava era che
avrei potuto continuare ad agire sugli eventi di Alagaësia
dall'alto
di una carica ben più autorevole. E avrei potuto influenzare
quegli
eventi molto più profondamente che in passato.
Quando tutti
ebbero parlato e toccato la corona, me la posai lentamente sulla
fronte.
Non potevo tirarmi indietro. Sarebbe stata una
vigliaccata. Diventavo regina per lo stesso motivo per cui avevo
combattuto ad Uru'baen: avevo la presunzione di essere migliore di
altri in quella situazione ed ero certa che con il mio intervento
avrei potuto contribuire a migliorare il mondo in cui mia figlia
sarebbe cresciuta e vissuta.
«E io scelgo il mio popolo»
completai, dopo qualche istante di troppo di esitazione.
Lo stesso
popolo che per un mese non aveva fatto altro che cantare piante sui
cadaveri o disperdere ceneri, con dolci e strazianti lamenti di
dolore.
Io avevo perso moltissimo, ad Ilirea, ma era il mio popolo
ad aver perso una guida.
E da quel momento in poi io avrei dovuto
soffrire per ciascuno di loro e per nessuno, non credere in niente
perché ciascuno potesse credere a ciò che
preferisse, fidarmi solo
di me stessa ma fare ciò che consigliavano gli altri, avere
un'identità forte ma dimenticarla nella massa.
Era un compito
terribile e gravoso. Ma mia madre lo aveva retto. Lo aveva retto per
più di un secolo, un lungo secolo difficile e travagliato.
Non
potevo essere da meno.
Nonostante mi fossi formalmente
impegnata ad essere la nuova sovrana degli elfi, non assunsi
immediatamente l'incarico. Chiesi a Däthedr di continuare a
sostituirmi in qualità di reggente per qualche altro mese e
di non
dire nulla a Vanir, per concedermi di trascorrere tutto il tempo
possibile con Fírnen e mia figlia.
Volevo occuparmi di loro fino
a quando non sarebbero stati quasi totalmente indipendenti da me,
almeno per quanto riguardava il cibo.
Per Fírnen fu una questione
di pochi mesi. Era abile nella caccia quanto lo era Saphira, ma
sembrava ricavarne meno piacere della dragonessa. Mancava della sua
ferocia e della sua maestosità, mantenendosi invece
più mite e
riflessivo.
Forse poteva essere interpretato come un segno di
debolezza da parte sua, ma per me Fírnen si
rivelò il perfetto
compagno di mente e cuore. Era capace di darmi serenità e
voglia di
vivere ad ogni tocco della sua coscienza e l'euforia che mi
incendiò
le vene quando finalmente riuscimmo a fare il primo volo con la sella
che avevo fabbricato era pari solo a quella che avevo provato nel bel
mezzo delle battaglie ormai lontane.
Con la sua crescita fisica si
accompagnò ben presto anche una crescita cognitiva e pochi
mesi dopo
la sua nascita riuscivo già ad avere un fitto scambio di
pensieri e
opinioni con lui, che rese la mia solitudine meno estrema e per
questo più piacevole.
Con la mia bambina aveva intessuto un
rapporto particolare: sentivo che si scambiavano qualche pensiero
semplice, di tanto in tanto, e ben presto mi ritrovai a dover mettere
il mio drago al corrente di tutto ciò che inizialmente avevo
cercato
di celargli. Così gli mostrai i miei ricordi di Durza e
discussi con
lui dei rischi che correva la piccola, se si fosse saputo chi fosse
il padre. Fírnen si lasciò sfuggire una nota di
disapprovazione
quando seppe che mi ero unita ad uno spettro, ma poi non mi
giudicò
e approvò tutte le mie scelte per il futuro della sua
creatura,
assicurandomi che non avrebbe mai divulgato ad altri i miei
segreti.
Mia figlia cresceva invece a ritmi più lenti.
Cominciò
a reagire più prontamente ai movimenti e, se mi nascondevo
il volto
tra le mani, per poi svelarlo un attimo dopo, scoppiava a ridere.
Amavo alla follia la sua risata sdentata.
Cominciò anche a
cercare di afferrare e portare alla bocca tutto ciò che la
circondava e, quando Alba le portò una rudimentale bambola
di
stoffa, la riempì in pochi minuti di saliva. Alba non parve
turbata,
non lo era mai quando si trattava della figlia di Durza.
L'elfa
trascorreva lunghe ore in meditazione sotto le radici dell'albero di
Menoa, ma era tutt'altro che serena. Sembrava evitare la compagnia e
aveva addirittura riacquistato i lineamenti da umana, poche settimane
dopo il suo arrivo; insomma sembrava sentirsi decisamente fuori
posto. Fui più volte tentata di chiederle cosa la turbasse,
ma
sapevo che non mi avrebbe mai risposto.
Mi limitai quindi ad
accettare la sua regolare visita alla settimana e a fare commenti
blandi sul freddo, le stelle e le previsioni per la primavera.
Alba
non aveva commentato la mia scelta di accettare la corona. Si era
limitata stendere sul volto un sorriso saccente e a offrirsi di
tenere mia figlia per la cerimonia e il banchetto che era
seguito.
Oltre a crescere i miei cuccioli, mi
ritagliai anche
qualche istante per me e in una delle lunghe riflessioni notturne,
tra un sonno agitato e un altro, riuscii a definire nuovamente il mio
essere, indovinando il mio vero nome.
Chiesi a Rhunön se per caso
potesse forgiarmi una spada da cavaliere con lo stesso metodo che
aveva usato con Eragon, ma l'elfa-fabbro mi disse che non aveva
più
riserve di acciaioluce, né sapeva dove trovarle.
Così finii per
presentarmi a Lord Fiolr della casa di Valtharos, per chiedergli di
modificare e avere in consegna la sua lama a tempo indeterminato.
L'elfo era restio, ma alla fine acconsentì, pregandomi di
curarla
come una figlia.
Sorridendo tra me e me per il paragone, promisi
che ne avrei avuto la massima cura e gli lasciai Ren come pegno della
mia parola. Speravo con tutto il cuore di non dover mai macchiare
Támerlein di sangue, ma chiesi delle modifiche a
Rhunön per
renderla adatta al mio stile di combattimento.
Mentre attendevo le
tre ore che l'elfa aveva promesso di impiegare per la sistemazione
della spada, mi diressi quasi distrattamente al palazzo di
Tialdarí,
dove vagai senza meta nelle stanze di mia madre -ormai mie- e nella
camera dove avevo vissuto un'eternità prima.
Trovai i miei averi
perfettamente in ordine. Sfiorai il dorso dei libri scaffalatati e le
mie unghie corte rasparono sulla copertina ruvida del Domya
adr Wyrda, scatenando
un brivido di fastidio lungo la spina dorsale.
Estrassi il libro
dallo scaffale e lo sfogliai, perdendomi in pensieri su Heslant il
monaco, Athala, Augyra, Arcaena, Inarë e Angela la Venerabile.
Quando tornai al capanno di Oromis, portai il libro con me e quella
notte -e quelle seguenti- regalai qualche ora al sonno per sfogliarlo
pigramente.
Trova infine ciò che cercavo. In un capitolo sulle
credenze popolari degli uomini, diviso in sottocapitoli per le varie
zone di Alagaësia, trovai un breve trafiletto sugli
Inarë:
La
leggenda degli Inarë ha l'incredibile caratteristica di non
avere
una terra d'origine, ma di essere comune a tutte, motivo per cui la
riporto al termine di questo capitolo.
Secondo le antiche
credenze dei nostri avi, il mondo era principalmente governato da
forze buone e forze malvagie. Il punto d'incontro di queste due
realtà era dato da un creatura dal potere e dalle conoscenze
senza
limiti, antica come la vita stessa e
come essa immortale. Questo
custode non aveva né sesso né aspetto
prestabilito, ma poteva
assumere qualsiasi forma desiderasse al fine di agire più
liberamente su quanto lo circondava. Il suo compito era infatti
quello di vigilare sugli equilibri e di mantenerli intatti, impedire
la più totale distruzione del genere umano e delle altre
razze di
Alagaësia.
I suoi poteri erano vari come i suoi volti, ma per la
sua abilità nell'agire sul tempo e sullo spazio, egli fu
anche
chiamato il Viaggiatore solitario. Viaggiatore, perché non
era mai
sazio di muoversi, scoprire e impedire catastrofi. Solitario
perché
ultimo -e forse anche primo- della sua specie.
Questo essere
poteva squarciare i veli del tempo e dello spazio e muoversi tra di
essi come più gli piaceva. La spada poteva ferirlo e anche
ucciderlo, ma egli sarebbe inevitabilmente rinato, forse con un altro
volto, ma integro nella propria essenza.
Riporto questo singolare
mito perché mi sembra incredibile che possa vantare
un'origine
comune a tutte le regioni del regno, caratteristica che appartiene a
questo soltanto. Ovviamente si tratta di una superstizione di
sciocchi villici analfabeti, ma conserva un fascino che non ho
riscontrato in nessun'altra credenza.
A chi non piacerebbe sapere
che c'è un essere onnipotente che viene da altri mondi e da
altre
epoche, pronto a vegliare su di noi come solo un dio
potrebbe?
Richiusi
il libro, sentendo le mani intorpidite a causa della presa troppo
forte che avevo applicato sulle pagine.
«Potrebbe
trattarsi effettivamente di una superstizione»
osservò Fírnen, con la sua voce profonda come il
mare.
Gli
mostrai alcuni lampi dei miei ricordi su Angela. «Ammetterai
che però sembra incastrarsi tutto alla perfezione».
Non
mi contraddisse e nei giorni che seguirono cercai di togliermi dalla
testa Angela e le supposizioni appena lette.
Quando arrivò il
sesto mese di vita della mia piccolina, era ormai giunta la primavera
e la lettera che Eragon mi aveva mandato con la magia
cominciò a
rovinarsi sotto le molteplici riletture che aveva subito.
Mia
figlia aveva iniziato a mangiare anche cibi solidi e a bere del latte
che non fosse quello fornito dal mio seno. Ormai potevo permettermi
di lasciarla anche per qualche settimana, senza temere per la sua
nutrizione e la sua salute, dato che Alba mi aveva assicurato che si
sarebbe occupata di lei.
Era giunto il momento di prendere
residenza fissa nel palazzo di Tialdarí, rendere ufficiale
la
presenza di Fírnen e presentare i miei omaggi ai sovrani
delle altre
razze di Alagaësia, oltre che informare Eragon di essere ormai
parte
del suo stesso ordine.
Partii un paio di settimane dopo essermi
trasferita al palazzo di Tialdarí, dove mi ero spostata
insieme ad
Alba, che ufficialmente mi affiancava come mia cameriera
personale.
Il congedo dalla mia bimba fu lungo e doloroso. Scrutai
a lungo i suoi occhietti, che andavano definendosi in due colori
completamente distinti. Il destro era verdino e sarebbe probabilmente
diventato dello stesso tono dei miei, mentre il sinistro tendeva al
color sangue, come quelli di Durza. Ed erano dello Spettro i capelli
color fiamma e la pelle nivea.
Il nasino, invece, era sottile e
tendeva leggermente all'insù, come quello di Islanzadi. Non
avevo
saputo definire le lievi macchie che erano comparse sulle guance
della piccola e Alba era giunta in mio aiuto, informandomi che gli
umani chiamavano quelle piccole macchie
“lentiggini” e che
probabilmente sarebbero aumentate con la sua crescita e con
l'esposizione al sole, ma non erano segno di nessuna malattia.
Spinsi
all'indietro i lisci capelli rossi della piccola e la baciai sulla
fronte. Gorgogliò e spalancò la bocca in un
sorriso, mettendo in
mostra i primi dentini che le stavano forando le gengive.
«Abbi
cura di lei» raccomandai ad Alba.
«Lo farò. Ma te torna presto»
rispose lei, e mi parve un poco preoccupata.
«Non piange più
come una volta. Adesso dorme parecchio la notte» dissi a mo'
di
scuse.
L'elfa sollevò le sopracciglia. «Non ho paura di
una
marmocchia».
«Andiamo?»
intervenne Fírnen, impaziente.
Non aveva mai volato oltre i
confini di Ellesméra e sopratutto non aveva mai incontrato
un suo
simile. L'idea di conoscere Saphira lo emozionava e le immagini di
Alagaësia che aveva visto nei miei ricordi lo rendevano
desideroso
di esplorarla di persona.
L'incontro con Eragon avvenne pochi
giorni dopo e fu più doloroso di quanto avessi creduto. Mi
aspettavo
di ritrovare lo stesso ragazzino entusiasta che avevo accompagnato ad
Ellesméra un anno prima, dato che la tensione dello scontro
con
Galbatorix era ormai esaurita, invece mi ritrovai davanti un
guerriero, un uomo responsabile pronto a sacrificare tutto se stesso
per Alagaësia e per l'ordine a cui era a capo.
Il primo incontro
tra Saphira e Fírnen, invece, fu folgorante per entrambi.
Mentre la
coscienza del mio drago grondava dubbi e timore, lo incoraggiai a
lasciarsi andare, memore delle piacevoli occasioni in cui avevo
diviso il letto con Durza lo Spettro.
Li guardai allontanarsi con
un sorriso lieve sulle labbra, ragionando quanto fosse veloce il
raggiungimento dell'età adulta nei draghi.
Alla loro partenza
seguì uno scambio con Eragon. Quando il Fairth che mi
rappresentava
scivolò sotto i miei occhi, capii di avere sottovalutato i
sentimenti che il Cavaliere provava per me. Forse fu per chiedergli
perdono che decisi di rivelargli il mio vero nome, o forse per
spiegargli la mia reticenza, non lo so. Mi fidavo ciecamente di lui,
eppure gli avevo e gli stavo ancora nascondendo moltissimi segreti e
sentivo il bisogno di condividere almeno una parte di tutto quello
con lui.
Era un nome pieno di contraddizioni e chiaroscuri, il
mio. Vi era la determinazione come principale ossatura del mio
essere, accompagnata in parallelo da una fragilità che
poteva
apparire insignificante, ma che nasceva da una serie di crepe che
costellavano il sentiero sul quale avevo camminato e che mi portava a
continuarlo sul sottile baratro della follia.
C'era il vuoto di
un'infanzia vissuta senza un padre; l'irrequietezza di chi non
può
restare a guardare con le mani in mano il mondo che si sgretola;
c'era la rottura violenta con mia madre e la tristezza desolante di
non essere mai riuscita a ricucire i rapporti; c'erano altri baratri,
dovuti alle morti ravvicinate di Fäolin, Glenwing e Durza;
c'era la
paura, i nuovi amici e le nuove avventure; c'era la consolazione e la
pace che avevo raggiunto nell'ultimo periodo e c'era l'incertezza per
il mio futuro.
Eragon condivise con me il suo nome e io capii di
lui molte cose che avevo sottovalutato e che lui stesso mi avrebbe
dimostrato di lì a pochi minuti. Gli dissi di avere bisogno
di
tempo, gli confermai che provavo una certa simpatia per lui, ma che
essa avrebbe impiegato anni prima di potersi trasformare in qualcosa
di più profondo.
Ma il Cavaliere non aveva tempo.
Eragon e
Saphira avevano deciso di lasciare Alagaësia,
perché erano ormai
troppo potenti. Eragon non mi spiegò le motivazioni della
sua scelta
nei dettagli, ma le intuii da me.
Aveva bisogno di un luogo dove
proteggere gli Eldunarí e crescere i draghi al sicuro. Un
posto del
genere avrebbe potuto trovarsi in qualunque angolo di
Alagaësia, ma
avrebbe implicato pericolose interferenze dei draghi nell'equilibro
della fauna del territorio. Un'altra scelta poteva essere Vroengard;
ma liberare l'isola dagli effluvi nocivi e poi proteggersi dalle
pericolose creature che si erano sviluppate sarebbe stato troppo
dispendioso persino per gli Eldunarí e al momento era meglio
mantenere le loro forze per proteggersi e proteggere i futuri
cavalieri con i loro draghi.
Senza contare il peso politico che
Eragon esercitava ormai su tutte le razze di Alagaesia. Era l'eroe
delle nostre terre, l'Ammazzatiranni, colui che aveva mantenuto ogni
promessa e esaudito le infinite aspettative che si avevano su di lui.
Se avesse provato ad interferire nella politica degli uomini, Nasuada
avrebbe dovuto ubbidirgli, o metà del suo popolo si sarebbe
rivoltato contro id lei. E lo stesso valeva per il Surda e re
Orrin.
Se Eragon avesse provato ad interferire nella politica dei
nani e degli elfi, probabilmente pochi avrebbero seguito il
Cavaliere, ma viste le sconfinate forze di cui disponeva, avrebbe
potuto costringerci tutti a fare ciò che desiderava.
E come
resistere alla tentazione di mettere a posto le cose quando esse
sembrano andare per il verso sbagliato?
Era come chiedere ad un
adulto di non rimproverare un bambino scorretto.
Capivo il timore
di Eragon a tal proposito, ma mi sembrava talmente assurdo che lui e
Saphira dovessero lasciare tutto perché ciascuno di noi
fosse
libero..
In quell'istante mi fu chiara la grandezza del giovane e
lo sconforto per la sua vicina partenza mi punse acutamente il petto.
Dopo tutti i morti e gli allontanamenti, avrei finito per perdere
anche l'ultimo dei miei amici.
Prima di riprendere il viaggio
fino ad Ilirea, Eragon mi rivelò il Nome dei Nomi. La sua
era un
decisione ponderata e disse che aveva voluto affidarmi
quell'informazione affinché la impiegassi al meglio per il
bene di
Alagaësia. Il Nome mi mise per le mani un potere che non ero
certa
di poter capire fino in fondo, e ne ero un poco intimorita.
Nasuada
costatò con sorpresa che il nuovo sovrano degli elfi ero
effettivamente io. La regina non se lo aspettava e percepii un lieve
cambiamento nel suo atteggiamento, che si fece meno aperto e
più
distaccato.
Certo, se all'amicizia si mischiava la politica,
Nasuada era sempre pronta a tirare fuori gli artigli. Non ero
più
un'amica -quasi una confidente- ma la regnante di un popolo molto
potente che sapeva fin troppo di lei e delle sue debolezze.
Fu
organizzato un banchetto in mio onore e, mentre Fírnen si
staccava
dalla mia coscienza per condividere altri momenti con Saphira, io mi
imbattei in Angela l'erborista, la quale mi chiese allegramente come
mai fossi stata così stupida da accettare l'incarico di
regnante.
«Perché è stato il mio popolo a
chiedermelo» risposi
guardinga, memore delle recenti letture sugli Inarë.
«E se ti
chiedessero di buttarti giù da una rupe?»
«Lo farei, se potesse
servire a qualcosa» dissi, asciutta, nascondendo a fatica il
mio
desiderio di andarmene.
L'erborista fece guizzare gli occhi nei
miei, con un sorriso beffardo. «Mi hai scoperta, non
è
vero?»
Sentii le mie membra farsi di ghiaccio. Allarmata, cercai
la coscienza di Fírnen, ma era troppo lontano per sentirmi.
«Non
avere paura!» esclamò l'erborista, affabile.
«Credo che tu possa
conoscere questo piccolo segreto almeno per ora». Si strinse
nelle
spalle e sorrise. «Ma se lo riferirai ad altri allora
dovrò
uccidervi tutti, o cancellarvi la memoria.. Non so decidermi su quale
sia il destino peggiore».
«Venerabile..» iniziai, ma lei marciò
energicamente verso le stanze del palazzo, ignorandomi.
«Verrò
presto a trovarti ad Ellesméra, Arya Dröttning. Nel
frattempo
salutami Aiedail». Mi strizzò l'occhio da sopra la
spalla sinistra.
«Tutte e due».
Annuii, il gelo ancora nelle ossa.
Quella
stessa notte sentii anche il contatto delle cento menti degli
Eldunarí.
«Ti
ringraziamo per il tuo contributo, Älfa»
disse Umaroth con dolcezza. «So
che alcuni dei nostri provvedimenti possono apparirti fin troppo
spietati, ma siamo certi che con il tempo riuscirai a valutare le
nostre azioni con più raziocinio e capirai che
ciò che abbiamo
fatto era per il bene di tutti».
«Lo capisco»
ammisi controvoglia. Ed era la verità.
La mancanza di Durza era
ancora acuta in me, ma sapevo che chiunque si fosse preso il disturbo
di giudicarlo avrebbe finito per condannarlo a morte.
Avevo sempre
approvato quel genere di sentenza, quando ero ancora giovane e
inesperta, perché ai miei occhi chiunque osasse spezzare
impunemente
vite umane e non umane doveva pagare con la stessa moneta.
Poi io
ero diventata un'assassina e il provvedimento aveva cominciato ad
apparirmi vuoto e privo di significato. Con la morte di Durza mi
faceva semplicemente orrore. Lo Spettro doveva pagare per i suoi
crimini, era giusto così, ma la morte era una soluzione
troppo
irreversibile e troppo crudele.
Forse, se fosse vissuto, Durza si
sarebbe riscattato, avrebbe aiutato tante persone quante ne aveva
uccise e alla fine avrebbe in qualche modo addolcito il carico di
morti che portava sulle spalle.
Finché io fossi stata regina,
nessuno sarebbe mai stato condannato a morire. Mai. Avevo la fortuna
di governare un popolo dall'indole mite e ragionevole.
Però Durza
non era stato sottoposto alla mia giustizia e capivo che per molti la
sua morte poteva dare soddisfazione, anche se mi straziava il
cuore.
«Avrei
una domanda per voi»
dissi, cambiando discorso.
«Chiedi
pure, cucciola d'elfo».
«Nasuada mi ha parlato di un uomo che
delirava, dopo la battaglia delle Pianure Ardenti..»
«Sì, si è
trattato di un nostro sbaglio. Come ben sai abbiamo cercato di
seguire gli eventi esplorando le menti degli abitanti di
Alagaësia e
in quel caso alcuni di noi si erano inseriti nella mente di un uomo,
per seguire meglio le dinamiche della battaglia. Un colpo ha ucciso
tutti coloro che gli erano intorno, ma il più giovane dei
nostri,
travolto dal suo panico e dal suo orrore, ha sostenuto la vita del
vecchio, attingendo alle nostre energie. Purtroppo qualche cosa di
troppo è filtrato in quel contatto e siamo stati costretti a
fare
addormentare l'uomo per sempre, perché non rivelasse tutto
al
momento sbagliato».
Trasmisi
un pensiero di assenso. Se ripensavo all'intera vicenda, capivo che
non potevano essere stati che loro a trasmettere simili
capacità e
informazioni al vecchio.
Era un altro mistero risolto.
Mi
congedai dagli Eldunarí e mi ritirai per la notte.
Sognai di
tornare ad Ellesméra, solo per scoprire che mia figlia era
stata
inghiottita dalle radici dell'albero di Menoa, diventando in tutto e
per tutto simile a Linnea.
Mi svegliai in preda al terrore e non
riuscii a riprendere sonno. A nulla valsero i pensieri consolatori di
Fírnen.
«Era
solo un brutto sogno, Arya. Torna a dormire».
Per
non turbarlo eccessivamente, tenni per me la mia inquietudine,
isolandola dai suoi pensieri.
Ma i giorni seguenti furono un
eterno tormento per me e non mi diedi pace fino a che io e
Fírnen
non tornammo ad Ellesméra, accompagnati dall'ingombrante
peso di
Roran, Katrina e la loro figlioletta Ismira, di pochi mesi
più
piccola della mia.
Impiegammo quasi un paio di settimane perché
prima dovetti presentarmi ad Orik nei panni di regnante, ma per mia
fortuna il sovrano dei nani non mi trattenne per più di due
giorni.
Il tempo necessario per organizzare un banchetto in mio onore e
rinnovare la sua dichiarazione di amicizia nei confronti degli elfi.
Gli chiesi anche di poter legare il mio specchio incantato al suo,
per poter comunicare più rapidamente con lui ed egli
acconsentì con
entusiasmo.
Svolsi il mio compito con pacatezza, ma dentro di me
scalpitavo dal desiderio di tornare immediatamente a casa dalla mia
piccola. E la continua vista di Ismira non mi aiutava a placare le
mie ansie e i miei timori.
Durante il viaggio mi ritrovai mio
malgrado a conversare con Roran e Katrina. Entrambi mi conoscevano
come l'amica di Eragon e l'elfa che aveva aiutato Elain a partorire
Speranza. Furono gentili con me, ma Roran era palesemente inquieto
per il semplice fatto che io ero intessuta di magia. Katrina sembrava
più rilassata sotto questo punto di vista e, saputo che
avevo una
conoscenza piuttosto profonda della vita, mi chiese anche dei
consigli su come prendersi cura della sua bambina.
Quando
riabbracciai la mia, ad Ellesméra, sentii un macigno immenso
sciogliersi dal mio petto e non mi abbandonai in sciocche
farneticazioni solo perché Alba era davanti a me e mi stava
scrutando con attenzione.
Eppure mi ritrovai ad abbandonare
nuovamente mia figlia, quando Eragon mi disse che sarebbe partito il
giorno seguente. Alloggiava ad Ellesméra da due settimane e
in quel
breve lasso di tempo aveva compiuto un incantesimo che avrebbe
rivoluzionato per sempre i Cavalieri e il loro ordine.
Avrei
potuto salutarlo e addurre come scusa i miei impegni di regnante, ma
in realtà ci tenevo davvero a passare gli ultimi istanti
della sua
vita in Alagaësia con lui. Forse avrei potuto continuare a
tenere
regolari contatti con il Cavaliere, tramite gli specchi magici, ma
non sarebbe mai stato lo stesso, ovviamente.
Impiegammo tre giorni
per arrivare al lago di Ardwen e da lì vi furono altre due
settimane di navigazione sulla Talíta prima di giungere a
Hedarth,
dove Orik e il suo seguito ci tesero una sorta di agguato. Ci
trattenemmo un giorno intero a banchettare con loro, poi la notte del
giorno stesso, venne il momento dell'addio.
Non sarei mai riuscita
ad andarmene dopo la prima ansa del fiume, se Fírnen non
fosse sceso
a portarmi via con sé.
Mentre seguivo dall'alto il lento percorso
della nave e il ruggito addolorato di Saphira e Fírnen mi
riempivano
le orecchie, sentii un dolore sordo stringersi sul mio cuore.
Eragon
e Saphira avevano lasciato Alagaësia per sempre. Dopo tutto
ciò che
avevano fatto per quelle terre, le abbandonavano per proteggerle
ancora una volta, da se stessi.
Era tutto così ingiusto.
La
desolante sensazione di perdita e solitudine che Fírnen mi
trasmise
rese ancor più pesante la mia pena.
Sarei stata felice se il
tempo si fosse fermato, dopo, ma come al solito il suo scorrere mi
costrinse a tornare prontamente alla realtà. Tornai a
prendere Roran
e lo trasportai ad Ellesméra con me, lasciando la mia scorta
elfica
indietro.
Dopo tutte quelle emozioni, mi sentivo sola e svuotata.
Se non ci fosse stato Fírnen a condividerle con me e a
sostenermi,
non sarei mai riuscita a reagire con tanta energia alla partenza di
Eragon e Saphira.
Roran stesso era molto triste per la perdita del
cugino, che era stato come un fratello per lui, e non
riacquistò il
sorriso fino a che le braccia dell'amata non si avvolsero intorno
alle sue spalle larghe.
Trovai a mia volta consolazione nel
rivedere mia figlia sana e salva, intenta a compiere i suoi primi
tentativi di gattonare per le stanze del mio palazzo.
A quel punto
avrei dovuto chiedere a Fírnen di trasportare la famigliola
fino
alla Dorsale, ma l'idea di separarmi dal mio drago, anche solo per
qualche giorno, mi gettava nel panico più totale. Da quando
era
nato, io e Fírnen avevamo trascorso ogni ora insieme, o al
massimo a
pochi minuti di distanza, e non ero sicura di volerlo lasciare andare
e separarmi dal contatto mentale che rimaneva uno dei pochi baluardi
della mia sanità mentale. Temevo per la sua sorte, e anche
per la
mia.
In quella situazione, la chiamata di
Nasuada, giunse al
momento perfetto.
La regina degli uomini, mi disse che l'ex
governatore di Gil'ead aveva raccolto intorno a sé un gruppo
di
uomini ancora fedeli a Galbatorix, che non accettavano il governo dei
Varden. Non era il primo problema del genere che si presentava, ma
era la prima volta che Nasuada si rivolgeva a me e parve
terribilmente in imbarazzo.
«Non voglio darti l'idea di volerti
sfruttare, Arya, ma ora che Eragon è lontano io non riesco
ad
intervenire tempestivamente in Alagaësia e..»
«Me ne occupo io»
la rassicurai. «Ucciderò o catturerò i
loro capi e lascerò a te
il compito di disperdere le loro armate. È
sufficiente?»
«Sarebbe
un aiuto molto importante. Hai nuovamente la mia sconfinata
gratitudine».
Dissi a Roran e Katrina che non avevo scelta e che
avrei dovuto farli proseguire a cavallo. Roran grugnì, ma
poi mi
ringraziò per la mia gentilezza e lo stesso fece Katrina.
L'azione
mi impegnò per non più di dieci giorni, ma mi
portò ad un incontro
incredibile.
Individuai immediatamente l'accampamento ribelle,
nella tenuta un tempo appartenuta a Lord Barst, ma decisi di agire
con una certa prudenza. Attesi la notte e mi avvidi che la
sorveglianza era piuttosto scarsa, quindi mi intrufolai tra le tende,
spostandomi fino a quelle più grandi. Fírnen mi
attendeva a poche
iarde di distanza, pronto ad intervenire se avessi subito un attacco
fisico o mentale.
Quello che compii quella notte fu un piccolo
massacro. Cinque erano le tende più grandi e cinque furono
le mie
vittime, colte tutte nel bel mezzo del sonno e uccise senza nemmeno
svegliarle.
Quasi tutte. L'uomo nascosto nell'ultima tenda era
sveglio e stava annotando qualcosa su un rotolo di pergamena. Faticai
parecchio a riconoscere Hillr.
Gli occhi rotondi e sporgenti come
quelli di un pesce erano rossi, incorniciati da rughe profonde che
ricordavo molto più superficiali e la curva della bocca si
era fatta
più severa.
Gli andai alle spalle senza che lui si accorgesse di
nulla. Sbirciai oltre la sua spalla e lessi alcune righe di quello
che doveva essere un resoconto di ciò che stava facendo
contro il
governo di Nasuada.
Poi pronunciai alcune parole nell'antica
lingua e vidi l'uomo portarsi una mano alla gola. A quel punto gli
passai accanto e mi inginocchiai davanti a lui, portando gli occhi
allo stesso livello dei suoi.
«Ti ricordi di me?» domandai
flebilmente.
L'uomo sgranò ulteriormente gli occhi e per un
attimo credetti che sarebbero usciti dalle cavità delle
orbite.
«Scrivi» gli dissi, indicando la pergamena.
«E non provare a
scappare, ti catturerei e ti ucciderei prima che tu possa avvertire
qualcuno».
L'uomo provò ad urlare e a parlare, ma si arrese a
riprendere in mano il calamaio quando si rese conto che la sua voce
era fuori gioco.
“Credevo che fossi morta insieme al mio
Signore” scrisse.
«No, non era ancora il momento giusto per me.
Non dirmi che hai preso tu il suo posto al governo di
Gil'ead».
Annuì.
«Quindi sei tu a guidare questa
ribellione».
Annuì di nuovo.
«Perché?»
“Perché
quella che si fa chiamare Regina ha preso il potere con l'aiuto di
creature demoniache come te.” scarabocchiò con
furia.
Trattenni
la mia irritazione, e decisi di non rivelargli che Alba -sua vecchia
alleata- era un'elfa ed era rimasta nella capitale degli elfi a
prendersi cura della figlia di Durza al mio posto. No, sarebbe stata
un'inutile crudeltà da parte mia.
«Durza mi ha detto tutto sul
tuo passato» mormorai. «Mi dispiace per le tue
perdite, ma la mia
gente non è cattiva, è la tua ad essere troppo
precipitosa nei suoi
giudizi e nelle sue condanne». Feci una pausa e vidi i suoi
occhi da
pesce riempirsi di lacrime di terrore. «Se vuoi posso
imprigionarti
e lasciare che Nasuada ti giudichi. Sicuramente sarai condannato e
impiccato pubblicamente. Se invece preferisci morire adesso, ti
ucciderò in modo che tu non soffra».
L'uomo deglutì più volte,
spaesato, poi raccolse la penna d'oca con mani tremanti.
“Uccidimi”
vergò. “Ho paura della sofferenza”
aggiunse dopo poco.
Sapevo
cosa intendesse. Anche io avevo temuto ogni istante di vita, quando
Durza mi aveva catturata. Avevo desiderato che tutto finisse il prima
possibile, e allo stesso tempo che mi fossero concessi altri minuti e
ore di vita.
«Deya» dissi.
E così finì Hillr il Siniscalco,
figlio di Moira la strega.
Restai anche per i giorni seguenti,
quando si presentarono gli uomini mandati da Nausada, mettendo infine
a tacere la sollevazione. Ma la regina sembrava intenzionata a
spremermi fino all'ultimo finché mi trovavo fuori dalla Du
Weldenvarden e mi chiese se io e Fírnen potessimo indagare
per lei a
proposito di un eremita che doveva trovarsi tra l'Helgrind e le
Pianure Ardenti, un certo Tenga.
Accettai senza battere ciglio,
perché ero veramente curiosa di conoscere finalmente lo
stravagante
vecchietto, ma la mia missione si rivelò un fallimento,
perché egli
era sparito e non riuscii a rintracciarlo con la magia. Trovai
però
i cadaveri dei quattro maghi mandati in precedenza dalla sovrana
degli uomini.
Nasuada -quando le feci rapporto con lo specchio
incantato- mi informò con disappunto che anche Angela
l'erborista
era svanita, poi mi ringraziò del mio aiuto e mi
augurò buon
ritorno ad Ellesméra.
Non vedevo mia figlia da pochi giorni,
eppure una parte di me era certa che non l'avrei ritrovata mai
più.
Fírnen non voleva tornare nella Du Weldenvarden. Avrebbe
voluto volare fino ai confini del mondo e tenere impegnato il corpo
per mettere la mente a tacere e spegnere i pensieri su
Saphira.
Tuttavia ebbe il suo bel daffare a sostenere la mia, di
mente. Le vite a Gil'ead erano le prime che prendevo da dopo la
battaglia di Uru'baen e risvegliarono tutti i miei disturbi
sopiti.
Il cibo che masticavo sapeva di carogne, l'acqua di sangue
e l'aria era soffocante.
Non riuscivo a dormire e nel caso mi
svegliavo sudata fradicia, con la visione del piccolo corpo della mia
bambina immobile e gelido nella morte.
Preoccupato per la mia
condizione, Fírnen non si permise che poche soste, al fine
di
arrivare ad Ellesméra il prima possibile e permettermi
finalmente di
accertarmi della salute di mia figlia.
Era viva, ovviamente, e
rise forte quando la presi in braccio.
Alba non condivideva la sua
allegria, anzi aveva un'espressione livida come una
tempesta.
«Principessina c'è qualcosa che non va»
mi disse
senza mezzi termini. «Riguarda l'albero di Menoa».
«Cos'è
successo?»
«Speravo potessi dirmelo tu. È da mesi che passo
molte ore sotto i suoi rami, cercando di parlare con l'elfa che
nasconde, ma senza risultati. Invece pochi giorni fa Linnea mi ha
risposto e ha detto.. Di avere rubato qualcosa ad Eragon il
Cavaliere».
Mi venne in mente l'orribile sogno in cui avevo visto
la mia piccola scomparire sotto l'albero e, istintivamente, la
strinsi più forte.
«Cosa gli avrebbe rubato?»
«Stando a
quanto mi ha detto lei, il ragazzo aveva un debito nei suoi
confronti. E per ripagarsi gli ha portato via la possibilità
di
avere una discendenza».
Gemetti. «Perché?!»
Fece un cenno
vago. «Vendetta nei confronti degli uomini? Non lo so. Non ha
voluto
rispondermi e dopo si è ritirata».
Riflettei, indignata. Con che
diritto l'albero di Menoa aveva sottratto ad Eragon un dono tanto
prezioso? Poi ricordai che il Cavaliere aveva promesso
“qualsiasi
cosa” in cambio dell'Acciaoluce. E Linnea doveva averlo preso
alla
lettera.
«Dobbiamo
avvertirlo!»
esclamò Fírnen, addolorato.
«No!»
replicai, proiettando i miei pensieri anche alla mente di Alba.
«Eragon
dovrà
scoprirlo da sé. È inutile dargli un dolore tanto
grande fino a che
non lo interesserà direttamente. Forse a quel punto
riuscirà anche
a.. guarirsi, ma fino ad allora credo che starà meglio a
vivere
nell'ignoranza».
«Per
quello che m'importa» sbuffò Alba.
«Sella il tuo lucertolone un
po' troppo cresciuto, piuttosto, devi partire».
Sollevai un
sopracciglio. «Partire? Torno adesso da un viaggio di giorni!
Vorrei
che mia figlia si ricordasse il mio volto, almeno».
«Oh, ma
dovrai portarla con te» disse, con una smorfia che pareva di
dolore.
A quel punto ero piuttosto confusa. «Non porterei mai mia
figlia in missione con me, potrebbe farsi male».
«Non è
propriamente una missione. Diciamo che c'è una persona che
vuole
parlare con te e probabilmente vorrà vedere tua figlia per
assicurarsi che sia davvero tu».
«Hai detto a qualcuno..?!»
«No,
lo sapeva già» mi interruppe.
«Perché sono scettica al
riguardo?»
«Perché sei te, Principessina».
«O forse perché
sei te».
Sorrise, ma a fatica. «Fidati di me, solo per questa
volta».
«Dimmi chi devo incontrare o non andrò da nessuna
parte».
«Invece andrai» fece con sicurezza. «Si
tratta di un
viaggio di pochi giorni e in ogni caso sarai al sicuro fino a che ci
sarà Fírnen vicino a te».
«Perché non puoi dirmi cosa mi
aspetta?»
«Non posso e basta» bisbigliò
tristemente. «Posso
solo dirti che questo incontro ti cambierà la vita, spero in
meglio».
Realizzai che stavamo parlando nell'antica lingua e che
quindi le sue parole non potevano essere menzognere, o almeno non del
tutto.
«Potrebbe succedere qualcosa di male alla mia
bambina?»
«No, non le farei mai del male e lo sai».
«Dove
devo andare?»
Un nuovo sorriso increspò le labbra della mia
interlocutrice e i suoi occhi si macchiarono di nostalgia.
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Saaalve! :D
Nuovamente in ritardello, scusate davvero!
Direi che sono successe un bel po' di cose in questo capitolo, ma quella che credo abbia più bisogno di spiegazioni è Angela. Parto da una premessa: ho sempre pensato che Paolini avesse caratterizzato la sua figura ispirandosi al protagonista di una serie tv: il Dottore di Doctor Who e i vari indizi disseminati nei quattro libri non hanno fatto altro che confermare la mia ipotesi. Per gli Whoviani non ci sarà bisogno di spiegazioni, ma per chi non ne ha un'idea potrebbe essere utile sapere qualcosa.
La serie Doctor Who tratta delle avventure di un alieno (in forma umana, ma con due cuori) che si fa chiamare Dottore, un Signore del tempo, un essere che viaggia nel tempo e nello spazio con una cabina blu chiamata TARDIS, intervenendo negli eventi e risparmiando spesso catastrofi. Angela mette effettivamente in mostra simili abilità a Dras-Leona, quando uccide le venti guardie e fa ad Eragon quel discorsetto sul tempo, senza contare la somiglianza di carattere con il Dottore e l'interesse per le avventure che ha in comune con lui.
Ma l'ultimo e definitivo indizio è alla fine di Inheritance, quando Eragon la vede lavorare un berretto blu e bianco (i due colori del TARDIS) ai ferri, con sopra scritto Raxacori.. La parola si interrompe qui, ma in diverse puntate di Doctor Who si fa riferimento ad un pianeta chiamato Raxacoricofallapatorius.
Ora, non ho precisamente definito Angela una Signora del tempo, ma il termine Inare (citato nella lettera di Jeod) potrebbe benissimo essere abbinato ad una razza che nessuno può spiegare, come Angela. Spero di essermi fatta capire, in caso contrario chiedetemi e approfondirò ;)
Piccola parentesi sul nome di Fírnen: mi pare che Paolini non dica mai da dove venga il suo nome, quindi l'ho inventato. Nel caso mi fossi sbagliata fatemelo notare, grazie! ^^
E in ultimo: ciò che l'albero di Menoa ha sottratto ad Eragon non è mai stato specificato nei libri. Eragon, al momento del patto con l'elfa-albero, dice solo di sentire una fitta al basso ventre e sappiamo bene che lei gli dice di andare senza chiedergli nient'altro alla fine di Inheritance . Avevo letto questa teoria su un forum e tra tutte mi era sembrata la più plausibile, anche se la più crudele. Anche in questo caso mi piacerebbe tanto sapere quali fossero le reali intenzioni di Paolini, sigh è.é
Ci vediamo domenica con il prossimo -e ULTIMO- capitolo! :')
Baci,
Lalli