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Autore: _Lalli    31/03/2015    2 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ciao
39. La Regina e l'Elfa nera

La creaturina sputacchiò e si scrollò con un movimento vagamente simile a quello di un cane bagnato. Poi i suoi occhietti si fissarono nei miei, teneri e sicuri. Erano di un colore bellissimo e intenso, che ricordava vagamente quello dell'ambra, ma un poco più chiaro.
Incantata e sopraffatta dallo stupore, allungai automaticamente la mano sinistra nella sua direzione e il draghetto abbassò il capo, permettendomi di posarla sulla sua testa.
Una scarica elettrica mi percorse tutta, provocandomi dolore e profonda gioia allo stesso tempo.
Annaspai un poco e i miei occhi caddero sul mio palmo, dove un ovale argentato risplendeva brillante nella luce soffusa della sera.
Era accaduto tutto così in fretta che mi ritrovai a fissare le sue squame verdi con un'espressione che doveva incarnare la più pura stupidità.
I resti dell'uovo giacevano a terra e la creatura che aveva celato si muoveva incerta accanto al mio ginocchio.
L'uovo si era schiuso.
Io, cavaliere di drago.
Vidi la piccola coda del drago falciare l'erba e mi resi improvvisamente conto che mia figlia era adagiata a terra lì accanto. Proiettai il mio allarme all'esterno, con un grido mentale talmente potente che il draghetto schizzò via di qualche iarda e si accucciò a terra, spaventato a morte.
Mi accucciai vicino alla mia piccola e gettai un'occhiata guardinga al drago. Non aveva avuto intenzione di attaccarla per nutrirsi, vero?
Allungai un tentacolo mentale e percepii il suo spavento e la sua incertezza. Sembrava si stesse pentendo di avermi scelto come sua compagna, dopo la violenza con cui l'avevo respinto.
Il mondo gli era nuovo e si sentiva indifeso e affamato, ma mai e poi mai avrebbe osato attaccare mia figlia, dal momento che ormai sapeva quanto la sua vita significasse per me.
Era un cucciolo. E aveva paura del mondo e della vita quanta ne aveva avuta la mia creatura prima che io la stringessi al petto per la prima volta.
Gli trasmisi pensieri rassicuranti e, intenerita, lo raccolsi tra le braccia, accarezzandolo come avrei fatto con un gatto. Emise un mugolio che effettivamente ricordava delle fusa, i suoi muscoli si sciolsero e il suo spavento si dissipò, subito sostituito da una gioia vivace.

Due settimane dopo arrivai ad Ellesméra di notte, come una ladra.
La mia piccolina aveva più di un mese, aveva perso da tempo il laccio che l'aveva tenuta legata a me ed era cresciuta. A quel punto i suoi occhietti erano bene aperti, però mantenevano ancora i colori diversi. Erano un poco grottesche le sue iridi così colorate, ma quando la vedevo seguire con gli occhi i tratti del mio viso, riconoscerli e poi rivolgermi un sorriso sdentato, sentivo sciogliersi dentro di me un nodo che troppo spesso si formava all'altezza dello stomaco.
Persino i capelli rossi si erano un poco infoltiti ed era ormai chiaro che sarebbero diventati dello stesso colore di quelli di Durza, così come la sua pelle.
La bimba gorgogliava in mia presenza, si attaccava volentieri al mio seno e piangeva un'infinità di volte al giorno. Era la mia salvezza e io la adoravo e la amavo come non avevo mai amato niente e nessuno.
Anche il draghetto era già cresciuto dopo quelle poche settimane di vita. Ero stata costretta a cacciare un cervo per dargli della carne di cui nutrirsi ma confidavo che prima o poi sarebbe stato in grado di procurarsi il cibo da solo.
Era di un verde brillante, che si sarebbe facilmente confuso con il colore della foresta in primavera e i suoi occhi vivaci e insieme indomiti mantenevano il liquido colore ambrato. Aveva un carattere particolare, timido e giocherellone insieme e i pensieri che mi trasmetteva erano sempre di gioia e di stupore. Nonostante fosse nato dopo mia figlia, era già parecchi passi davanti a lei nello sviluppo.
Inutile dire che non lo lasciavo avvicinarsi a lei, non troppo perlomeno. Ero un po' troppo apprensiva nei confronti del mio sangue, ma mi proponevo di migliorare quella mia chiusura in futuro.
La notte che arrivai nella mia città natale, il cucciolo -che era un maschio- aveva già il suo nome: Fírnen.
Avevo passato un'intera mattinata a cullare la mia bambina tra le braccia e a sfilare una lista infinita di nomi, tutti quelli che mi venivano in mente tra quelli che avevo sentito da quando ero venuta al mondo. Aveva rifiutato Fäolin, Glenwing ed Evandar, per mio lieve disappunto, accettando infine il nome appartenuto ad un mio vecchio precettore. Era colui che mi aveva dato approfondite lezioni sulla storia dei draghi e dei loro cavalieri, quando ero ancora una bambina. Avevo saputo da Däthedr che aveva perso la vita a Gil'ead, ma, nonostante avessi un gradevole ricordo di lui, non avrei mai sospettato che il mio drago potesse affezionarsi al suo nome al punto da decidere di adottarlo come suo.
Non mi fermai in città quella notte. Invitai il mio cavallo a compiere un ultimo sforzo e lui mi assecondò docilmente. Doveva essere la seconda ora del mattino quando giunsi alla rupe di Tel'naeír e aprii la porta del capanno di legno di Oromis.
Inspirai l'odore di legno e resina, mischiato a quello di abbandono, poi raggiunsi il giaciglio che era stato del saggio dolente e mi coprii con le coperte che mi avevano accompagnata nel mio viaggio, stringendo mia figlia tra la braccia e sentendo Fírnen accoccolarsi ai miei piedi.
A un anno dalla mia cattura e dalla morte di Glenwing e Fäolin, sognai l'ultimo sguardo che mi aveva lanciato Durza, subito prima di morire. Al mio risveglio, avevo gli zigomi bagnati di lacrime
            Quando il mattino seguente Däthedr si presentò alla rupe e mi vide, con una bimba in braccio e un draghetto sulle spalle, al povero elfo per poco non venne un accidente.
Decisi di partire dal racconto della schiusa di Fírnen, perché nonostante tutto era la storia più facile da raccontare, poi passai a mia figlia. Restai sul vago: mi limitai a dire che era una mezz'elfa, che aveva sangue umano nelle vene e che mi stavo occupando di lei. Avevo modificato il suo aspetto e la sua pelle era ambrata e i suoi occhi azzurri.
Come quelli di Alba.
E fu proprio lei l'argomento successivo che sottoposi al mio amico, prima che potesse insistere ulteriormente sulle origini della bambina. Gli parlai dell'elfa che mia madre aveva esiliato e gli dissi di averla incontrata ad Ilirea pochi giorni prima della mia partenza dalla capitale degli uomini. Riferii che chiedeva di essere reintegrata nella nostra società e che era pentita di ciò che aveva fatto.
Däthedr mi ascoltò con molta attenzione e mi promise di proporre la questione al Consiglio il più presto possibile. Era ovvio che ricordava l'esistenza di Alba e che la questione era rimasta pesante sul suo cuore per tutti quei decenni.
Confidavo che nel giro di una settimana Alba avrebbe avuto il permesso di entrare nuovamente nella Du Weldenvarden, con probabili e dovuti limiti e precauzioni del caso.
Ma per il momento faticavo a capire chi, tra Fírnen e mia figlia, sconvolgesse di più il reggente degli elfi.
            Quello stesso pomeriggio avvenne la cerimonia di addio a Islanzadi.
Lasciai Fírnen al capanno di Oromis perché non attirasse troppi sguardi curiosi, ma già la presenza della mia piccola, adagiata sulla mia schiena nello zaino che mi aveva regalato Alba, era un ottimo elemento di distrazione. Un neonato non passava certamente inosservato ad Ellesméra, specialmente se sulle spalle dell'ambasciatrice, notoriamente non accompagnata e ancora più notoriamente impegnata nella battaglia contro Galbatorix fino a poche settimane prima.
Ringraziai mentalmente l'abituale discrezione del mio popolo e l'affetto profondo che in qualche modo li aveva legati alla loro defunta regina, che in quel momento occupava pienamente i loro pensieri.
La cerimonia durò parecchie ore, ma io mi allontanai ben prima. Era stata scavata una buca rotonda non troppo lontano dall'acacia che era stata piantata per Evandar, ai tempi della battaglia di Ilirea, e lì fu deposto il corpo senza vita di mia madre, ancora perfettamente conservato grazie alla magia di Däthedr.
Mi chinai su di lei e, portando le dita alle labbra, pronunciai parole d'addio, a voce sufficiente alta perché tutto il nutrito gruppo di elfi intorno a me potesse sentire.
Questa è mia figlia, madre. Aggiunsi nei miei pensieri. Nelle sue vene scorre il sangue di Evandar e del suo assassino e sono sicura che l'avresti amata con tutto il cuore. E sono cavaliere, adesso. Mi prenderò cura della nostra gente, come hai sempre fatto tu.
Ero la parente più stretta di Islanzadi, così fui io a scegliere che albero fare sorgere sui suoi resti, dopo che Däthedr ebbe annullato l'incantesimo che li preservava.
Così un salice piangente affiancò l'acacia e i rami dei due alberi si sfiorarono in una eterna carezza, la cui vista mi fece lacrimare nostalgicamente gli occhi.
Non pronunciai alcun discorso e non cantai alcuna canzone in memoria di mia madre. Non ero riuscita a dare voce al mio dolore e in fondo non mi sentivo degna di cantare la sua scomparsa, quando avevo goduto così poco della sua presenza, quando ancora viveva.
Lasciai ad altri il compito. Däthedr recitò una poesia che mi strinse il cuore dal dolore e anche la breve canzone di Rhunön -cantata con la sua voce roca- colpì duramente la mia coscienza ferita.
Poi la mia bambina si mise a piangere sonoramente nel bel mezzo dei dolci suoni della cerimonia e io mi allontanai cullandola gentilmente, per non disturbare ulteriormente la celebrazione.
Ascoltai il resto da lontano, dondolando pigramente le gambe dall'alto ramo di un albero e chiedendomi se per caso non dovessi dare a mia figlia il nome che un tempo era appartenuto a mia madre.
Mi risposi immediatamente: era meglio di no, o a quel punto sarebbe stato ovvio che era una creatura mia.
Alla fine tornai alla pacifica solitudine della Rupe di Tel'naeír e lasciai che la gaia coscienza di Fírnen mi circondasse come in un abbraccio.
Ero un'elfa adulta che trovava consolazione solo nella presenza di due cuccioli. L'idea mi faceva sorridere.

Cinque giorni dopo Däthedr si inerpicò fino alla Rupe per informarmi che il Consiglio avrebbe accettato il rientro di Aiedail solo se qualcuno si fosse preso il compito di tenerla d'occhio, almeno per qualche mese.
«Ho detto loro che sei già abbastanza occupata a crescere il tuo drago e a prenderti cura di una neonata, ma dato che sei stata tu a sostenere la sua causa hanno insistito perché sia tu a controllarla. Potrebbe farlo qualunque membro del Consiglio ma per le prossime settimane saremo impegnati per trovare il nuovo candidato al trono nodoso e non credo che riusciremo a permetterci distrazioni. Te la senti, almeno per un po'? In caso contrario potrei trovare qualcun altro che si assuma la responsabilità..»
«Non è di alcun disturbo» lo interruppi. «Potrà restare qui con me».
«E a tal proposito vorrei chiederti quanto a lungo hai intenzione di mantenere il tuo isolamento. Gli elfi hanno perso molto in questi ultimi scontri, ma nessuno ha perso tanto quanto te, e lo capisco perfettamente. Tuttavia la solitudine potrebbe finire per danneggiarti».
«Non devi preoccuparti per me, Däthedr. Ormai il ruolo di ambasciatore è passato a Vanir e io non devo più traghettare l'uovo verde, dato che ormai è schiuso. Mi piacerebbe restare qui e prendermi cura di Fírnen per un po', tutto qui. I fatti di Ilirea mi hanno sfinita e ho bisogno di un po' di riposo».
L'elfo parve sul punto di dirmi qualcosa, ma poi cambiò palesemente soggetto. «Se non sono troppo indiscreto vorrei chiederti cosa farai con la bambina che tieni con te».
«Ho promesso a qualcuno che l'avrei cresciuta con tutto il mio impegno e ho intenzione di mantenere la mia promessa». Certo che l'avevo promesso. A me stessa, e anche a lei.
Däthedr decise di non insistere, ma indugiò qualche istante sul volto paffuto della piccola. «Mi piacerebbe moltissimo avere un figlio» sospirò. «Ti lascio al tuo meritato riposo, Arya Dröttningu».
In quell'occasione l'errore fu palese e il mio amico si affrettò a fare un gesto di scuse, che ricacciai con un lieve sorriso che voleva essere noncurante.
«Manderò un messaggio ad Aiedail» lo informai.
E lo feci. La barchetta lasciò le mie mani non più di mezz'ora dopo e Alba giunse ad Ellesméra in due settimane. Non potei fare a meno di notare che, vista la rapidità con cui era arrivata, doveva essersi da tempo messa in viaggio in direzione della Du Weldenvarden.
Gilderien il Saggio era già stato informato del suo arrivo e le concesse facilmente il passo. E finalmente vidi Alba nella sua vera forma, anche se lei sembrava essere un po' a disagio nei panni di un'elfa. La sua altezza era invariata e rimaneva un poco più bassa di me, ma i capelli erano più chiari, del biondo lucente della mia razza e celavano malamente grandi orecchie a punta. Il più grande cambiamento era tuttavia nei tratti del volto: gli occhi rotondi erano obliqui, e il viso un tempo pieno più scavato e allungato.
Non ricevette propriamente una festosa accoglienza. I membri del Consiglio vollero riceverla immediatamente e la costrinsero a giurare nella nostra lingua che non avrebbe più tentato di compiere le nefandezze del passato.
Feci una smorfia nell'udire quell'ultimatum. Non disapprovavo totalmente la loro previdenza, ma se mi avessero avvisata in anticipo, avrei potuto comunicarlo alla diretta interessata prima che facesse il suo ingresso nella capitale.
Alba non disse nulla, ma la sua espressione era tormentata. «Non proverò mai più a resuscitare Solus» disse serenamente, e persino uno stupido avrebbe capito quanto le stava costando pronunciare quelle parole.
Non appena le mostrai il capanno di Oromis mi disse immediatamente che non avrebbe dormito in quella -parole sue- “topaia” e così le offrii la piccola dimora dove mi ero rifugiata per qualche tempo dopo la rottura con mia madre.
«Hai delle orribili occhiaie violette» mi disse, al posto di ringraziarmi. E, un po' per vendetta, un po' perché prima o poi avrei dovuto avvisarla della sua presenza, indussi Fírnen a saltarle alle spalle, spaventandola a morte.
Volle sapere da dove avessi pescato un drago e il racconto la lasciò a bocca spalancata. Ma poi si affrettò a dirmi che in fondo c'era da aspettarselo, vista la mia infelice abitudine di buttarmi a capofitto in azioni suicide pur di salvare gli altri.
«Il tuo drago ha pessimo gusto in fatto di persone, ma sarai un buon cavaliere».
E sapevo che detto da lei era un grande complimento.
Alba ebbe a sua volta la sua vendetta non appena venne a sapere che mia figlia non aveva ancora un nome. Inizialmente cominciò a chiamarla con il nome di Islanzadi, ma smise non appena la supplicai -in lacrime- di non farlo. A quel punto le affibbiò il nome che era appartenuto a lei: Aiedail, minacciando di continuare ad usarlo fino a che non mi fossi data una mossa a trovare qualcosa di meglio.
Sentendola rivolgersi continuamente alla piccola con quel nome, finii per farlo anche io, a più riprese, accettando infine quella soluzione temporanea.
«È provvisorio!» specificai, con l'intento di cancellare il ghigno sfottente dalle labbra di lei.
Passarono così una decina di giorni. Io vivevo nel capanno, giocavo con Fírnen e bevevo la sua allegria come fosse Faelnirv, crescevo la mia bambina e ricevevo regolari visite da Alba.
Le brutte fantasie della mia mente si erano un poco placate. Facevo ancora sogni orribili di morte e di morti, ma erano meno nitidi. Qualche volta vedevo ancora macchie di sangue nei posti più impensabili, ma mi bastava strizzare gli occhi per dissipare la visione.
Venne la neve e in pochi giorni ricoprì Ellesméra di uno spesso strato candido. Fírnen esitò a lungo prima di osare uscire dal capanno, ma alla fine lo fece e un pugno di muti dopo si stava rotolando spensieratamente in quel candore, trasmettendomi ondate di gioia così profonda che scoppiai a ridere. Reggendo la mia piccola tra le braccia, uscii a mia volta, non prima di averle coperto la testolina con un cappuccio di lana.
I fiocchi di neve volteggiavano lenti nei suoi occhi spalancati. Agitò le braccia e aprì e chiuse debolmente le piccole mani, cercando di afferrarli e sbuffando stupita quando questi si scioglievano a contatto con la sua pelle.
La solitudine, l'aria fresca dell'inverno, la prima neve di Fírnen e di mia figlia.. Sentivo calare su di me una pace pacata che probabilmente non avevo mai sentito in tutta la mia vita.

Poi un giorno arrivò Däthedr, accompagnato dagli altri anziani, e l'idillio si ruppe.
Con molte premesse e molti giri di parole, mi fece capire che la scelta degli anziani del Consiglio per il nuovo regnante era caduta su di me.
«Non voglio» dissi subito, più seccamente di quanto avessi intenzione.
Non volevo diventare la sovrana degli elfi. Era un ruolo che mi avrebbe assorbita completamente per decenni e decenni e per di più sentivo che non mi sarei mai trovata a mio agio in un simile status. Un po' come aveva detto Athala, preferivo lasciare il compito ad altri più capaci e decisamente più entusiasti di me.
Ma Däthedr e gli altri non si lasciarono abbattere dalle mie parole.
Tornarono ogni giorno per una settimana, riempiendomi la testa di suppliche e incoraggiamenti.
Finalmente capivo perché Däthedr mi era sembrato tanto preoccupato per il mio isolamento: mia madre aveva lasciato indicato me come suo successore. E il Consiglio non aveva trovato nulla in contrario alla mia candidatura.
Era vero che la mia casata era al potere da parecchi secoli, ma era anche vero che si erano sempre dimostrati buoni regnanti, motivo per cui altre casate potenti e antiche avevano facilmente rinunciato alle loro pretese sul trono nodoso.
Però non si trattava solo della sgradita eredità lasciatami da mia madre. A quanto pareva ero la candidata perfetta sotto molti punti di vista: la mia gente mi conosceva, conosceva il mio nome, conosceva le mie gesta e la mia fedeltà agli elfi, sapeva che ero sempre stata disposta a donare tutta me stessa per la causa che stavo servendo. La mia fedeltà era incisa ad inchiostro violetto nella mia carne.
Inoltre avevo viaggiato molto e avevo intessuto rapporti, anche personali, con le maggiori potenze di Alagaësia; ero amica del grande Eragon Ammazzatiranni, di Nasuada, conoscevo Orik e Orrin; Oromis era stato mio maestro e io stessa ero diventata cavaliere di drago.
Senza che me ne rendessi conto, ero diventata degna di rispetto e ammirazione tra gli elfi.
E non volevo. Non volevo assolutamente.
Ma la mia era una battaglia persa in partenza. Non ero il tipo di persona che lascia cadere le proprie responsabilità. E sapevo che, vista la mia nuova condizione, quella di diventare regina era ormai una responsabilità.
Altri avrebbero potuto raccoglierla per me, anche se probabilmente avrei passato anni e anni a mordermi le labbra, logorata dai sensi di colpa e dalla sensazione di non essere stata abbastanza.
Quello che il Consiglio degli anziani mi stava offrendo era una sorta di ricatto al quale non potevo non cedere.
Dopo una settimana di insistenze, accettai, legando per sempre il mio destino a quello della Du Weldenvarden e dei suoi abitanti. O almeno così credevo.
            L'incoronazione avvenne due giorni dopo e fu organizzata con una tale fretta che fui certa che tutti temessero una mia improvvisa fuga.
Quel mattino mi costrinsi ad affidare mia figlia e Fírnen ad Alba e mi recai al palazzo di
Tialdarí, dove ogni parete e suppellettile sussurrava qualcosa che io avrei certamente preferito non ascoltare. Parlavano di solitudine, di spensieratezza, di dura consapevolezza, di rabbia, di amicizia, di perdita..
La presenza di Islanzadi, o meglio la sua assenza, aleggiava nelle sale come aria velenosa, pronta a soffocarmi nella morsa dei ricordi e del dolore. Gli occhi neri di mia madre parevano fissarmi severi dal Fairth in cui era rappresentata a braccetto di mio padre Evandar.
Non scelsi nulla di troppo elaborato per la cerimonia. Mia madre era stata un modello di grazia ed eleganza per tutti e io non avevo intenzione di soffiarle il primato, anche perché non ne sarei mai stata capace. Così indossai un abito verde con ricami arancioni e dorati, mi feci aiutare per acconciare i capelli e unsi le ciglia per renderle più lucide. L'elfa che mi aveva aiutata nei preparativi mi dissuase dal portare Ren con me, e per i minuti che seguirono mi sentii completamente indifesa.
In piedi davanti al trono nodoso, ricevetti da Däthedr una semplice fascia dorata, che tenni tra le mani mentre gli anziani sfilavano davanti a me, uno ad uno, mormorando la formula di rito e sfiorando il monile con le dita.
«Il tuo popolo ti ha scelta come sua protettrice» dissero con voci solenni e melodiose.
E mentre mi passavano davanti sentivo il battito del mio cuore accelerare e raggiungere ritmi talmente selvaggi, che sicuramente lo avrebbe sentito re Orrin da Aberon.
All'improvviso non ero più tanto sicura di quello che stavo facendo. Potevo aiutare moltissimo gli altri, ed era mia dovere farlo, ma quanto di me stessa avrei dovuto sacrificare in quel ruolo?
Anche quello di ambasciatrice era stato un incarico serio e impegnativo per me, ma in fondo aveva sempre assecondato una parte fondante della mia natura: la mia curiosità, la mia sete di avventure e di scoperte, il mio desiderio di viaggiare e di libertà.
Poco di quello sarebbe rimasto mio se fossi diventata sovrana degli elfi. L'unico vantaggio che mi si presentava era che avrei potuto continuare ad agire sugli eventi di Alagaësia dall'alto di una carica ben più autorevole. E avrei potuto influenzare quegli eventi molto più profondamente che in passato.
Quando tutti ebbero parlato e toccato la corona, me la posai lentamente sulla fronte.
Non potevo tirarmi indietro. Sarebbe stata una vigliaccata. Diventavo regina per lo stesso motivo per cui avevo combattuto ad Uru'baen: avevo la presunzione di essere migliore di altri in quella situazione ed ero certa che con il mio intervento avrei potuto contribuire a migliorare il mondo in cui mia figlia sarebbe cresciuta e vissuta.
«E io scelgo il mio popolo» completai, dopo qualche istante di troppo di esitazione.
Lo stesso popolo che per un mese non aveva fatto altro che cantare piante sui cadaveri o disperdere ceneri, con dolci e strazianti lamenti di dolore.
Io avevo perso moltissimo, ad Ilirea, ma era il mio popolo ad aver perso una guida.
E da quel momento in poi io avrei dovuto soffrire per ciascuno di loro e per nessuno, non credere in niente perché ciascuno potesse credere a ciò che preferisse, fidarmi solo di me stessa ma fare ciò che consigliavano gli altri, avere un'identità forte ma dimenticarla nella massa.
Era un compito terribile e gravoso. Ma mia madre lo aveva retto. Lo aveva retto per più di un secolo, un lungo secolo difficile e travagliato. Non potevo essere da meno.

Nonostante mi fossi formalmente impegnata ad essere la nuova sovrana degli elfi, non assunsi immediatamente l'incarico. Chiesi a Däthedr di continuare a sostituirmi in qualità di reggente per qualche altro mese e di non dire nulla a Vanir, per concedermi di trascorrere tutto il tempo possibile con Fírnen e mia figlia.
Volevo occuparmi di loro fino a quando non sarebbero stati quasi totalmente indipendenti da me, almeno per quanto riguardava il cibo.
Per Fírnen fu una questione di pochi mesi. Era abile nella caccia quanto lo era Saphira, ma sembrava ricavarne meno piacere della dragonessa. Mancava della sua ferocia e della sua maestosità, mantenendosi invece più mite e riflessivo.
Forse poteva essere interpretato come un segno di debolezza da parte sua, ma per me Fírnen si rivelò il perfetto compagno di mente e cuore. Era capace di darmi serenità e voglia di vivere ad ogni tocco della sua coscienza e l'euforia che mi incendiò le vene quando finalmente riuscimmo a fare il primo volo con la sella che avevo fabbricato era pari solo a quella che avevo provato nel bel mezzo delle battaglie ormai lontane.
Con la sua crescita fisica si accompagnò ben presto anche una crescita cognitiva e pochi mesi dopo la sua nascita riuscivo già ad avere un fitto scambio di pensieri e opinioni con lui, che rese la mia solitudine meno estrema e per questo più piacevole.
Con la mia bambina aveva intessuto un rapporto particolare: sentivo che si scambiavano qualche pensiero semplice, di tanto in tanto, e ben presto mi ritrovai a dover mettere il mio drago al corrente di tutto ciò che inizialmente avevo cercato di celargli. Così gli mostrai i miei ricordi di Durza e discussi con lui dei rischi che correva la piccola, se si fosse saputo chi fosse il padre. Fírnen si lasciò sfuggire una nota di disapprovazione quando seppe che mi ero unita ad uno spettro, ma poi non mi giudicò e approvò tutte le mie scelte per il futuro della sua creatura, assicurandomi che non avrebbe mai divulgato ad altri i miei segreti.
Mia figlia cresceva invece a ritmi più lenti. Cominciò a reagire più prontamente ai movimenti e, se mi nascondevo il volto tra le mani, per poi svelarlo un attimo dopo, scoppiava a ridere. Amavo alla follia la sua risata sdentata.
Cominciò anche a cercare di afferrare e portare alla bocca tutto ciò che la circondava e, quando Alba le portò una rudimentale bambola di stoffa, la riempì in pochi minuti di saliva. Alba non parve turbata, non lo era mai quando si trattava della figlia di Durza.
L'elfa trascorreva lunghe ore in meditazione sotto le radici dell'albero di Menoa, ma era tutt'altro che serena. Sembrava evitare la compagnia e aveva addirittura riacquistato i lineamenti da umana, poche settimane dopo il suo arrivo; insomma sembrava sentirsi decisamente fuori posto. Fui più volte tentata di chiederle cosa la turbasse, ma sapevo che non mi avrebbe mai risposto.
Mi limitai quindi ad accettare la sua regolare visita alla settimana e a fare commenti blandi sul freddo, le stelle e le previsioni per la primavera.
Alba non aveva commentato la mia scelta di accettare la corona. Si era limitata stendere sul volto un sorriso saccente e a offrirsi di tenere mia figlia per la cerimonia e il banchetto che era seguito.
            Oltre a crescere i miei cuccioli, mi ritagliai anche qualche istante per me e in una delle lunghe riflessioni notturne, tra un sonno agitato e un altro, riuscii a definire nuovamente il mio essere, indovinando il mio vero nome.
Chiesi a Rhunön se per caso potesse forgiarmi una spada da cavaliere con lo stesso metodo che aveva usato con Eragon, ma l'elfa-fabbro mi disse che non aveva più riserve di acciaioluce, né sapeva dove trovarle.
Così finii per presentarmi a Lord Fiolr della casa di Valtharos, per chiedergli di modificare e avere in consegna la sua lama a tempo indeterminato. L'elfo era restio, ma alla fine acconsentì, pregandomi di curarla come una figlia.
Sorridendo tra me e me per il paragone, promisi che ne avrei avuto la massima cura e gli lasciai Ren come pegno della mia parola. Speravo con tutto il cuore di non dover mai macchiare Támerlein di sangue, ma chiesi delle modifiche a Rhunön per renderla adatta al mio stile di combattimento.
Mentre attendevo le tre ore che l'elfa aveva promesso di impiegare per la sistemazione della spada, mi diressi quasi distrattamente al palazzo di Tialdarí, dove vagai senza meta nelle stanze di mia madre -ormai mie- e nella camera dove avevo vissuto un'eternità prima.
Trovai i miei averi perfettamente in ordine. Sfiorai il dorso dei libri scaffalatati e le mie unghie corte rasparono sulla copertina ruvida del
Domya adr Wyrda, scatenando un brivido di fastidio lungo la spina dorsale.
Estrassi il libro dallo scaffale e lo sfogliai, perdendomi in pensieri su Heslant il monaco, Athala, Augyra, Arcaena, Inarë e Angela la Venerabile. Quando tornai al capanno di Oromis, portai il libro con me e quella notte -e quelle seguenti- regalai qualche ora al sonno per sfogliarlo pigramente.
Trova infine ciò che cercavo. In un capitolo sulle credenze popolari degli uomini, diviso in sottocapitoli per le varie zone di Alagaësia, trovai un breve trafiletto sugli Inarë:
La leggenda degli Inarë ha l'incredibile caratteristica di non avere una terra d'origine, ma di essere comune a tutte, motivo per cui la riporto al termine di questo capitolo.
Secondo le antiche credenze dei nostri avi, il mondo era principalmente governato da forze buone e forze malvagie. Il punto d'incontro di queste due realtà era dato da un creatura dal potere e dalle conoscenze senza limiti, antica come la vita stessa e
come essa immortale. Questo custode non aveva né sesso né aspetto prestabilito, ma poteva assumere qualsiasi forma desiderasse al fine di agire più liberamente su quanto lo circondava. Il suo compito era infatti quello di vigilare sugli equilibri e di mantenerli intatti, impedire la più totale distruzione del genere umano e delle altre razze di Alagaësia.
I suoi poteri erano vari come i suoi volti, ma per la sua abilità nell'agire sul tempo e sullo spazio, egli fu anche chiamato il Viaggiatore solitario. Viaggiatore, perché non era mai sazio di muoversi, scoprire e impedire catastrofi. Solitario perché ultimo -e forse anche primo- della sua specie.
Questo essere poteva squarciare i veli del tempo e dello spazio e muoversi tra di essi come più gli piaceva. La spada poteva ferirlo e anche ucciderlo, ma egli sarebbe inevitabilmente rinato, forse con un altro volto, ma integro nella propria essenza.
Riporto questo singolare mito perché mi sembra incredibile che possa vantare un'origine comune a tutte le regioni del regno, caratteristica che appartiene a questo soltanto. Ovviamente si tratta di una superstizione di sciocchi villici analfabeti, ma conserva un fascino che non ho riscontrato in nessun'altra credenza.
A chi non piacerebbe sapere che c'è un essere onnipotente che viene da altri mondi e da altre epoche, pronto a vegliare su di noi come solo un dio potrebbe?

Richiusi il libro, sentendo le mani intorpidite a causa della presa troppo forte che avevo applicato sulle pagine.
«Potrebbe trattarsi effettivamente di una superstizione» osservò Fírnen, con la sua voce profonda come il mare.
Gli mostrai alcuni lampi dei miei ricordi su Angela.
«Ammetterai che però sembra incastrarsi tutto alla perfezione».
Non mi contraddisse e nei giorni che seguirono cercai di togliermi dalla testa Angela e le supposizioni appena lette.

Quando arrivò il sesto mese di vita della mia piccolina, era ormai giunta la primavera e la lettera che Eragon mi aveva mandato con la magia cominciò a rovinarsi sotto le molteplici riletture che aveva subito.
Mia figlia aveva iniziato a mangiare anche cibi solidi e a bere del latte che non fosse quello fornito dal mio seno. Ormai potevo permettermi di lasciarla anche per qualche settimana, senza temere per la sua nutrizione e la sua salute, dato che Alba mi aveva assicurato che si sarebbe occupata di lei.
Era giunto il momento di prendere residenza fissa nel palazzo di Tialdarí, rendere ufficiale la presenza di Fírnen e presentare i miei omaggi ai sovrani delle altre razze di Alagaësia, oltre che informare Eragon di essere ormai parte del suo stesso ordine.
Partii un paio di settimane dopo essermi trasferita al palazzo di Tialdarí, dove mi ero spostata insieme ad Alba, che ufficialmente mi affiancava come mia cameriera personale.
Il congedo dalla mia bimba fu lungo e doloroso. Scrutai a lungo i suoi occhietti, che andavano definendosi in due colori completamente distinti. Il destro era verdino e sarebbe probabilmente diventato dello stesso tono dei miei, mentre il sinistro tendeva al color sangue, come quelli di Durza. Ed erano dello Spettro i capelli color fiamma e la pelle nivea.
Il nasino, invece, era sottile e tendeva leggermente all'insù, come quello di Islanzadi. Non avevo saputo definire le lievi macchie che erano comparse sulle guance della piccola e Alba era giunta in mio aiuto, informandomi che gli umani chiamavano quelle piccole macchie “lentiggini” e che probabilmente sarebbero aumentate con la sua crescita e con l'esposizione al sole, ma non erano segno di nessuna malattia.
Spinsi all'indietro i lisci capelli rossi della piccola e la baciai sulla fronte. Gorgogliò e spalancò la bocca in un sorriso, mettendo in mostra i primi dentini che le stavano forando le gengive.
«Abbi cura di lei» raccomandai ad Alba.
«Lo farò. Ma te torna presto» rispose lei, e mi parve un poco preoccupata.
«Non piange più come una volta. Adesso dorme parecchio la notte» dissi a mo' di scuse.
L'elfa sollevò le sopracciglia. «Non ho paura di una marmocchia».
«Andiamo?» intervenne Fírnen, impaziente.
Non aveva mai volato oltre i confini di Ellesméra e sopratutto non aveva mai incontrato un suo simile. L'idea di conoscere Saphira lo emozionava e le immagini di Alagaësia che aveva visto nei miei ricordi lo rendevano desideroso di esplorarla di persona.

L'incontro con Eragon avvenne pochi giorni dopo e fu più doloroso di quanto avessi creduto. Mi aspettavo di ritrovare lo stesso ragazzino entusiasta che avevo accompagnato ad Ellesméra un anno prima, dato che la tensione dello scontro con Galbatorix era ormai esaurita, invece mi ritrovai davanti un guerriero, un uomo responsabile pronto a sacrificare tutto se stesso per Alagaësia e per l'ordine a cui era a capo.
Il primo incontro tra Saphira e Fírnen, invece, fu folgorante per entrambi. Mentre la coscienza del mio drago grondava dubbi e timore, lo incoraggiai a lasciarsi andare, memore delle piacevoli occasioni in cui avevo diviso il letto con Durza lo Spettro.
Li guardai allontanarsi con un sorriso lieve sulle labbra, ragionando quanto fosse veloce il raggiungimento dell'età adulta nei draghi.
Alla loro partenza seguì uno scambio con Eragon. Quando il Fairth che mi rappresentava scivolò sotto i miei occhi, capii di avere sottovalutato i sentimenti che il Cavaliere provava per me. Forse fu per chiedergli perdono che decisi di rivelargli il mio vero nome, o forse per spiegargli la mia reticenza, non lo so. Mi fidavo ciecamente di lui, eppure gli avevo e gli stavo ancora nascondendo moltissimi segreti e sentivo il bisogno di condividere almeno una parte di tutto quello con lui.
Era un nome pieno di contraddizioni e chiaroscuri, il mio. Vi era la determinazione come principale ossatura del mio essere, accompagnata in parallelo da una fragilità che poteva apparire insignificante, ma che nasceva da una serie di crepe che costellavano il sentiero sul quale avevo camminato e che mi portava a continuarlo sul sottile baratro della follia.
C'era il vuoto di un'infanzia vissuta senza un padre; l'irrequietezza di chi non può restare a guardare con le mani in mano il mondo che si sgretola; c'era la rottura violenta con mia madre e la tristezza desolante di non essere mai riuscita a ricucire i rapporti; c'erano altri baratri, dovuti alle morti ravvicinate di Fäolin, Glenwing e Durza; c'era la paura, i nuovi amici e le nuove avventure; c'era la consolazione e la pace che avevo raggiunto nell'ultimo periodo e c'era l'incertezza per il mio futuro.
Eragon condivise con me il suo nome e io capii di lui molte cose che avevo sottovalutato e che lui stesso mi avrebbe dimostrato di lì a pochi minuti. Gli dissi di avere bisogno di tempo, gli confermai che provavo una certa simpatia per lui, ma che essa avrebbe impiegato anni prima di potersi trasformare in qualcosa di più profondo.
Ma il Cavaliere non aveva tempo.
Eragon e Saphira avevano deciso di lasciare Alagaësia, perché erano ormai troppo potenti. Eragon non mi spiegò le motivazioni della sua scelta nei dettagli, ma le intuii da me.
Aveva bisogno di un luogo dove proteggere gli Eldunarí e crescere i draghi al sicuro. Un posto del genere avrebbe potuto trovarsi in qualunque angolo di Alagaësia, ma avrebbe implicato pericolose interferenze dei draghi nell'equilibro della fauna del territorio. Un'altra scelta poteva essere Vroengard; ma liberare l'isola dagli effluvi nocivi e poi proteggersi dalle pericolose creature che si erano sviluppate sarebbe stato troppo dispendioso persino per gli Eldunarí e al momento era meglio mantenere le loro forze per proteggersi e proteggere i futuri cavalieri con i loro draghi.
Senza contare il peso politico che Eragon esercitava ormai su tutte le razze di Alagaesia. Era l'eroe delle nostre terre, l'Ammazzatiranni, colui che aveva mantenuto ogni promessa e esaudito le infinite aspettative che si avevano su di lui. Se avesse provato ad interferire nella politica degli uomini, Nasuada avrebbe dovuto ubbidirgli, o metà del suo popolo si sarebbe rivoltato contro id lei. E lo stesso valeva per il Surda e re Orrin.
Se Eragon avesse provato ad interferire nella politica dei nani e degli elfi, probabilmente pochi avrebbero seguito il Cavaliere, ma viste le sconfinate forze di cui disponeva, avrebbe potuto costringerci tutti a fare ciò che desiderava.
E come resistere alla tentazione di mettere a posto le cose quando esse sembrano andare per il verso sbagliato?
Era come chiedere ad un adulto di non rimproverare un bambino scorretto.
Capivo il timore di Eragon a tal proposito, ma mi sembrava talmente assurdo che lui e Saphira dovessero lasciare tutto perché ciascuno di noi fosse libero..
In quell'istante mi fu chiara la grandezza del giovane e lo sconforto per la sua vicina partenza mi punse acutamente il petto. Dopo tutti i morti e gli allontanamenti, avrei finito per perdere anche l'ultimo dei miei amici.

Prima di riprendere il viaggio fino ad Ilirea, Eragon mi rivelò il Nome dei Nomi. La sua era un decisione ponderata e disse che aveva voluto affidarmi quell'informazione affinché la impiegassi al meglio per il bene di Alagaësia. Il Nome mi mise per le mani un potere che non ero certa di poter capire fino in fondo, e ne ero un poco intimorita.
Nasuada costatò con sorpresa che il nuovo sovrano degli elfi ero effettivamente io. La regina non se lo aspettava e percepii un lieve cambiamento nel suo atteggiamento, che si fece meno aperto e più distaccato.
Certo, se all'amicizia si mischiava la politica, Nasuada era sempre pronta a tirare fuori gli artigli. Non ero più un'amica -quasi una confidente- ma la regnante di un popolo molto potente che sapeva fin troppo di lei e delle sue debolezze.
Fu organizzato un banchetto in mio onore e, mentre Fírnen si staccava dalla mia coscienza per condividere altri momenti con Saphira, io mi imbattei in Angela l'erborista, la quale mi chiese allegramente come mai fossi stata così stupida da accettare l'incarico di regnante.
«Perché è stato il mio popolo a chiedermelo» risposi guardinga, memore delle recenti letture sugli Inarë.
«E se ti chiedessero di buttarti giù da una rupe?»
«Lo farei, se potesse servire a qualcosa» dissi, asciutta, nascondendo a fatica il mio desiderio di andarmene.
L'erborista fece guizzare gli occhi nei miei, con un sorriso beffardo. «Mi hai scoperta, non è vero?»
Sentii le mie membra farsi di ghiaccio. Allarmata, cercai la coscienza di Fírnen, ma era troppo lontano per sentirmi.
«Non avere paura!» esclamò l'erborista, affabile. «Credo che tu possa conoscere questo piccolo segreto almeno per ora». Si strinse nelle spalle e sorrise. «Ma se lo riferirai ad altri allora dovrò uccidervi tutti, o cancellarvi la memoria.. Non so decidermi su quale sia il destino peggiore».
«Venerabile..» iniziai, ma lei marciò energicamente verso le stanze del palazzo, ignorandomi.
«Verrò presto a trovarti ad Ellesméra, Arya Dröttning. Nel frattempo salutami Aiedail». Mi strizzò l'occhio da sopra la spalla sinistra. «Tutte e due».
Annuii, il gelo ancora nelle ossa.
            Quella stessa notte sentii anche il contatto delle cento menti degli Eldunarí.
«Ti ringraziamo per il tuo contributo, Älfa» disse Umaroth con dolcezza. «So che alcuni dei nostri provvedimenti possono apparirti fin troppo spietati, ma siamo certi che con il tempo riuscirai a valutare le nostre azioni con più raziocinio e capirai che ciò che abbiamo fatto era per il bene di tutti».
«Lo capisco»
ammisi controvoglia. Ed era la verità.
La mancanza di Durza era ancora acuta in me, ma sapevo che chiunque si fosse preso il disturbo di giudicarlo avrebbe finito per condannarlo a morte.
Avevo sempre approvato quel genere di sentenza, quando ero ancora giovane e inesperta, perché ai miei occhi chiunque osasse spezzare impunemente vite umane e non umane doveva pagare con la stessa moneta.
Poi io ero diventata un'assassina e il provvedimento aveva cominciato ad apparirmi vuoto e privo di significato. Con la morte di Durza mi faceva semplicemente orrore. Lo Spettro doveva pagare per i suoi crimini, era giusto così, ma la morte era una soluzione troppo irreversibile e troppo crudele.
Forse, se fosse vissuto, Durza si sarebbe riscattato, avrebbe aiutato tante persone quante ne aveva uccise e alla fine avrebbe in qualche modo addolcito il carico di morti che portava sulle spalle.
Finché io fossi stata regina, nessuno sarebbe mai stato condannato a morire. Mai. Avevo la fortuna di governare un popolo dall'indole mite e ragionevole.
Però Durza non era stato sottoposto alla mia giustizia e capivo che per molti la sua morte poteva dare soddisfazione, anche se mi straziava il cuore.
«Avrei una domanda per voi» dissi, cambiando discorso.
«Chiedi pure, cucciola d'elfo».
«Nasuada mi ha parlato di un uomo che delirava, dopo la battaglia delle Pianure Ardenti..»
«Sì, si è trattato di un nostro sbaglio. Come ben sai abbiamo cercato di seguire gli eventi esplorando le menti degli abitanti di Alagaësia e in quel caso alcuni di noi si erano inseriti nella mente di un uomo, per seguire meglio le dinamiche della battaglia. Un colpo ha ucciso tutti coloro che gli erano intorno, ma il più giovane dei nostri, travolto dal suo panico e dal suo orrore, ha sostenuto la vita del vecchio, attingendo alle nostre energie. Purtroppo qualche cosa di troppo è filtrato in quel contatto e siamo stati costretti a fare addormentare l'uomo per sempre, perché non rivelasse tutto al momento sbagliato».
Trasmisi un pensiero di assenso. Se ripensavo all'intera vicenda, capivo che non potevano essere stati che loro a trasmettere simili capacità e informazioni al vecchio.
Era un altro mistero risolto.
Mi congedai dagli Eldunarí e mi ritirai per la notte.
Sognai di tornare ad Ellesméra, solo per scoprire che mia figlia era stata inghiottita dalle radici dell'albero di Menoa, diventando in tutto e per tutto simile a Linnea.
Mi svegliai in preda al terrore e non riuscii a riprendere sonno. A nulla valsero i pensieri consolatori di Fírnen.
«Era solo un brutto sogno, Arya. Torna a dormire».
Per non turbarlo eccessivamente, tenni per me la mia inquietudine, isolandola dai suoi pensieri.
Ma i giorni seguenti furono un eterno tormento per me e non mi diedi pace fino a che io e Fírnen non tornammo ad Ellesméra, accompagnati dall'ingombrante peso di Roran, Katrina e la loro figlioletta Ismira, di pochi mesi più piccola della mia.
Impiegammo quasi un paio di settimane perché prima dovetti presentarmi ad Orik nei panni di regnante, ma per mia fortuna il sovrano dei nani non mi trattenne per più di due giorni. Il tempo necessario per organizzare un banchetto in mio onore e rinnovare la sua dichiarazione di amicizia nei confronti degli elfi. Gli chiesi anche di poter legare il mio specchio incantato al suo, per poter comunicare più rapidamente con lui ed egli acconsentì con entusiasmo.
Svolsi il mio compito con pacatezza, ma dentro di me scalpitavo dal desiderio di tornare immediatamente a casa dalla mia piccola. E la continua vista di Ismira non mi aiutava a placare le mie ansie e i miei timori.
Durante il viaggio mi ritrovai mio malgrado a conversare con Roran e Katrina. Entrambi mi conoscevano come l'amica di Eragon e l'elfa che aveva aiutato Elain a partorire Speranza. Furono gentili con me, ma Roran era palesemente inquieto per il semplice fatto che io ero intessuta di magia. Katrina sembrava più rilassata sotto questo punto di vista e, saputo che avevo una conoscenza piuttosto profonda della vita, mi chiese anche dei consigli su come prendersi cura della sua bambina.
Quando riabbracciai la mia, ad Ellesméra, sentii un macigno immenso sciogliersi dal mio petto e non mi abbandonai in sciocche farneticazioni solo perché Alba era davanti a me e mi stava scrutando con attenzione.
Eppure mi ritrovai ad abbandonare nuovamente mia figlia, quando Eragon mi disse che sarebbe partito il giorno seguente. Alloggiava ad Ellesméra da due settimane e in quel breve lasso di tempo aveva compiuto un incantesimo che avrebbe rivoluzionato per sempre i Cavalieri e il loro ordine.
Avrei potuto salutarlo e addurre come scusa i miei impegni di regnante, ma in realtà ci tenevo davvero a passare gli ultimi istanti della sua vita in Alagaësia con lui. Forse avrei potuto continuare a tenere regolari contatti con il Cavaliere, tramite gli specchi magici, ma non sarebbe mai stato lo stesso, ovviamente.
Impiegammo tre giorni per arrivare al lago di Ardwen e da lì vi furono altre due settimane di navigazione sulla Talíta prima di giungere a Hedarth, dove Orik e il suo seguito ci tesero una sorta di agguato. Ci trattenemmo un giorno intero a banchettare con loro, poi la notte del giorno stesso, venne il momento dell'addio.
Non sarei mai riuscita ad andarmene dopo la prima ansa del fiume, se Fírnen non fosse sceso a portarmi via con sé.
Mentre seguivo dall'alto il lento percorso della nave e il ruggito addolorato di Saphira e Fírnen mi riempivano le orecchie, sentii un dolore sordo stringersi sul mio cuore.
Eragon e Saphira avevano lasciato Alagaësia per sempre. Dopo tutto ciò che avevano fatto per quelle terre, le abbandonavano per proteggerle ancora una volta, da se stessi.
Era tutto così ingiusto.
La desolante sensazione di perdita e solitudine che Fírnen mi trasmise rese ancor più pesante la mia pena.
Sarei stata felice se il tempo si fosse fermato, dopo, ma come al solito il suo scorrere mi costrinse a tornare prontamente alla realtà. Tornai a prendere Roran e lo trasportai ad Ellesméra con me, lasciando la mia scorta elfica indietro.
Dopo tutte quelle emozioni, mi sentivo sola e svuotata. Se non ci fosse stato Fírnen a condividerle con me e a sostenermi, non sarei mai riuscita a reagire con tanta energia alla partenza di Eragon e Saphira.
Roran stesso era molto triste per la perdita del cugino, che era stato come un fratello per lui, e non riacquistò il sorriso fino a che le braccia dell'amata non si avvolsero intorno alle sue spalle larghe.
Trovai a mia volta consolazione nel rivedere mia figlia sana e salva, intenta a compiere i suoi primi tentativi di gattonare per le stanze del mio palazzo.
A quel punto avrei dovuto chiedere a Fírnen di trasportare la famigliola fino alla Dorsale, ma l'idea di separarmi dal mio drago, anche solo per qualche giorno, mi gettava nel panico più totale. Da quando era nato, io e Fírnen avevamo trascorso ogni ora insieme, o al massimo a pochi minuti di distanza, e non ero sicura di volerlo lasciare andare e separarmi dal contatto mentale che rimaneva uno dei pochi baluardi della mia sanità mentale. Temevo per la sua sorte, e anche per la mia.
            In quella situazione, la chiamata di Nasuada, giunse al momento perfetto.
La regina degli uomini, mi disse che l'ex governatore di Gil'ead aveva raccolto intorno a sé un gruppo di uomini ancora fedeli a Galbatorix, che non accettavano il governo dei Varden. Non era il primo problema del genere che si presentava, ma era la prima volta che Nasuada si rivolgeva a me e parve terribilmente in imbarazzo.
«Non voglio darti l'idea di volerti sfruttare, Arya, ma ora che Eragon è lontano io non riesco ad intervenire tempestivamente in Alagaësia e..»
«Me ne occupo io» la rassicurai. «Ucciderò o catturerò i loro capi e lascerò a te il compito di disperdere le loro armate. È sufficiente?»
«Sarebbe un aiuto molto importante. Hai nuovamente la mia sconfinata gratitudine».
Dissi a Roran e Katrina che non avevo scelta e che avrei dovuto farli proseguire a cavallo. Roran grugnì, ma poi mi ringraziò per la mia gentilezza e lo stesso fece Katrina.
L'azione mi impegnò per non più di dieci giorni, ma mi portò ad un incontro incredibile.
Individuai immediatamente l'accampamento ribelle, nella tenuta un tempo appartenuta a Lord Barst, ma decisi di agire con una certa prudenza. Attesi la notte e mi avvidi che la sorveglianza era piuttosto scarsa, quindi mi intrufolai tra le tende, spostandomi fino a quelle più grandi. Fírnen mi attendeva a poche iarde di distanza, pronto ad intervenire se avessi subito un attacco fisico o mentale.
Quello che compii quella notte fu un piccolo massacro. Cinque erano le tende più grandi e cinque furono le mie vittime, colte tutte nel bel mezzo del sonno e uccise senza nemmeno svegliarle.
Quasi tutte. L'uomo nascosto nell'ultima tenda era sveglio e stava annotando qualcosa su un rotolo di pergamena. Faticai parecchio a riconoscere Hillr.
Gli occhi rotondi e sporgenti come quelli di un pesce erano rossi, incorniciati da rughe profonde che ricordavo molto più superficiali e la curva della bocca si era fatta più severa.
Gli andai alle spalle senza che lui si accorgesse di nulla. Sbirciai oltre la sua spalla e lessi alcune righe di quello che doveva essere un resoconto di ciò che stava facendo contro il governo di Nasuada.
Poi pronunciai alcune parole nell'antica lingua e vidi l'uomo portarsi una mano alla gola. A quel punto gli passai accanto e mi inginocchiai davanti a lui, portando gli occhi allo stesso livello dei suoi.
«Ti ricordi di me?» domandai flebilmente.
L'uomo sgranò ulteriormente gli occhi e per un attimo credetti che sarebbero usciti dalle cavità delle orbite. «Scrivi» gli dissi, indicando la pergamena. «E non provare a scappare, ti catturerei e ti ucciderei prima che tu possa avvertire qualcuno».
L'uomo provò ad urlare e a parlare, ma si arrese a riprendere in mano il calamaio quando si rese conto che la sua voce era fuori gioco.
“Credevo che fossi morta insieme al mio Signore” scrisse.
«No, non era ancora il momento giusto per me. Non dirmi che hai preso tu il suo posto al governo di Gil'ead».
Annuì.
«Quindi sei tu a guidare questa ribellione».
Annuì di nuovo.
«Perché?»
“Perché quella che si fa chiamare Regina ha preso il potere con l'aiuto di creature demoniache come te.” scarabocchiò con furia.
Trattenni la mia irritazione, e decisi di non rivelargli che Alba -sua vecchia alleata- era un'elfa ed era rimasta nella capitale degli elfi a prendersi cura della figlia di Durza al mio posto. No, sarebbe stata un'inutile crudeltà da parte mia.
«Durza mi ha detto tutto sul tuo passato» mormorai. «Mi dispiace per le tue perdite, ma la mia gente non è cattiva, è la tua ad essere troppo precipitosa nei suoi giudizi e nelle sue condanne». Feci una pausa e vidi i suoi occhi da pesce riempirsi di lacrime di terrore. «Se vuoi posso imprigionarti e lasciare che Nasuada ti giudichi. Sicuramente sarai condannato e impiccato pubblicamente. Se invece preferisci morire adesso, ti ucciderò in modo che tu non soffra».
L'uomo deglutì più volte, spaesato, poi raccolse la penna d'oca con mani tremanti.
“Uccidimi” vergò. “Ho paura della sofferenza” aggiunse dopo poco.
Sapevo cosa intendesse. Anche io avevo temuto ogni istante di vita, quando Durza mi aveva catturata. Avevo desiderato che tutto finisse il prima possibile, e allo stesso tempo che mi fossero concessi altri minuti e ore di vita.
«Deya» dissi.
E così finì Hillr il Siniscalco, figlio di Moira la strega.

Restai anche per i giorni seguenti, quando si presentarono gli uomini mandati da Nausada, mettendo infine a tacere la sollevazione. Ma la regina sembrava intenzionata a spremermi fino all'ultimo finché mi trovavo fuori dalla Du Weldenvarden e mi chiese se io e Fírnen potessimo indagare per lei a proposito di un eremita che doveva trovarsi tra l'Helgrind e le Pianure Ardenti, un certo Tenga.
Accettai senza battere ciglio, perché ero veramente curiosa di conoscere finalmente lo stravagante vecchietto, ma la mia missione si rivelò un fallimento, perché egli era sparito e non riuscii a rintracciarlo con la magia. Trovai però i cadaveri dei quattro maghi mandati in precedenza dalla sovrana degli uomini.
Nasuada -quando le feci rapporto con lo specchio incantato- mi informò con disappunto che anche Angela l'erborista era svanita, poi mi ringraziò del mio aiuto e mi augurò buon ritorno ad Ellesméra.
Non vedevo mia figlia da pochi giorni, eppure una parte di me era certa che non l'avrei ritrovata mai più.
Fírnen non voleva tornare nella Du Weldenvarden. Avrebbe voluto volare fino ai confini del mondo e tenere impegnato il corpo per mettere la mente a tacere e spegnere i pensieri su Saphira.
Tuttavia ebbe il suo bel daffare a sostenere la mia, di mente. Le vite a Gil'ead erano le prime che prendevo da dopo la battaglia di Uru'baen e risvegliarono tutti i miei disturbi sopiti.
Il cibo che masticavo sapeva di carogne, l'acqua di sangue e l'aria era soffocante.
Non riuscivo a dormire e nel caso mi svegliavo sudata fradicia, con la visione del piccolo corpo della mia bambina immobile e gelido nella morte.
Preoccupato per la mia condizione, Fírnen non si permise che poche soste, al fine di arrivare ad Ellesméra il prima possibile e permettermi finalmente di accertarmi della salute di mia figlia.
Era viva, ovviamente, e rise forte quando la presi in braccio.
Alba non condivideva la sua allegria, anzi aveva un'espressione livida come una tempesta.
«Principessina c'è qualcosa che non va» mi disse senza mezzi termini. «Riguarda l'albero di Menoa».
«Cos'è successo?»
«Speravo potessi dirmelo tu. È da mesi che passo molte ore sotto i suoi rami, cercando di parlare con l'elfa che nasconde, ma senza risultati. Invece pochi giorni fa Linnea mi ha risposto e ha detto.. Di avere rubato qualcosa ad Eragon il Cavaliere».
Mi venne in mente l'orribile sogno in cui avevo visto la mia piccola scomparire sotto l'albero e, istintivamente, la strinsi più forte.
«Cosa gli avrebbe rubato?»
«Stando a quanto mi ha detto lei, il ragazzo aveva un debito nei suoi confronti. E per ripagarsi gli ha portato via la possibilità di avere una discendenza».
Gemetti. «Perché?!»
Fece un cenno vago. «Vendetta nei confronti degli uomini? Non lo so. Non ha voluto rispondermi e dopo si è ritirata».
Riflettei, indignata. Con che diritto l'albero di Menoa aveva sottratto ad Eragon un dono tanto prezioso? Poi ricordai che il Cavaliere aveva promesso “qualsiasi cosa” in cambio dell'Acciaoluce. E Linnea doveva averlo preso alla lettera.
«Dobbiamo avvertirlo!» esclamò Fírnen, addolorato.
«No!» replicai, proiettando i miei pensieri anche alla mente di Alba. «Eragon dovrà scoprirlo da sé. È inutile dargli un dolore tanto grande fino a che non lo interesserà direttamente. Forse a quel punto riuscirà anche a.. guarirsi, ma fino ad allora credo che starà meglio a vivere nell'ignoranza».
«Per quello che m'importa» sbuffò Alba. «Sella il tuo lucertolone un po' troppo cresciuto, piuttosto, devi partire».
Sollevai un sopracciglio. «Partire? Torno adesso da un viaggio di giorni! Vorrei che mia figlia si ricordasse il mio volto, almeno».
«Oh, ma dovrai portarla con te» disse, con una smorfia che pareva di dolore.
A quel punto ero piuttosto confusa. «Non porterei mai mia figlia in missione con me, potrebbe farsi male».
«Non è propriamente una missione. Diciamo che c'è una persona che vuole parlare con te e probabilmente vorrà vedere tua figlia per assicurarsi che sia davvero tu».
«Hai detto a qualcuno..?!»
«No, lo sapeva già» mi interruppe.
«Perché sono scettica al riguardo?»
«Perché sei te, Principessina».
«O forse perché sei te».
Sorrise, ma a fatica. «Fidati di me, solo per questa volta».
«Dimmi chi devo incontrare o non andrò da nessuna parte».
«Invece andrai» fece con sicurezza. «Si tratta di un viaggio di pochi giorni e in ogni caso sarai al sicuro fino a che ci sarà Fírnen vicino a te».
«Perché non puoi dirmi cosa mi aspetta?»
«Non posso e basta» bisbigliò tristemente. «Posso solo dirti che questo incontro ti cambierà la vita, spero in meglio».
Realizzai che stavamo parlando nell'antica lingua e che quindi le sue parole non potevano essere menzognere, o almeno non del tutto.
«Potrebbe succedere qualcosa di male alla mia bambina?»
«No, non le farei mai del male e lo sai».
«Dove devo andare?»
Un nuovo sorriso increspò le labbra della mia interlocutrice e i suoi occhi si macchiarono di nostalgia.



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Saaalve! :D
Nuovamente in ritardello, scusate davvero!
Direi che sono successe un bel po' di cose in questo capitolo, ma quella che credo abbia più bisogno di spiegazioni è Angela. Parto da una premessa: ho sempre pensato che Paolini avesse caratterizzato la sua figura ispirandosi al protagonista di una serie tv: il Dottore di Doctor Who e i vari indizi disseminati nei quattro libri non hanno fatto altro che confermare la mia ipotesi. Per gli Whoviani non ci sarà bisogno di spiegazioni, ma per chi non ne ha un'idea potrebbe essere utile sapere qualcosa.
La serie Doctor Who tratta delle avventure di un alieno (in forma umana, ma con due cuori) che si fa chiamare Dottore, un Signore del tempo, un essere che viaggia nel tempo e nello spazio con una cabina blu chiamata TARDIS, intervenendo negli eventi e risparmiando spesso catastrofi. Angela mette effettivamente in mostra simili abilità a Dras-Leona, quando uccide le venti guardie e fa ad Eragon quel discorsetto sul tempo, senza contare la somiglianza di carattere con il Dottore e l'interesse per le avventure che ha in comune con lui.
Ma l'ultimo e definitivo indizio è alla fine di Inheritance, quando Eragon la vede lavorare un berretto blu e bianco (i due colori del TARDIS) ai ferri, con sopra scritto Raxacori.. La parola si interrompe qui, ma in diverse puntate di Doctor Who si fa riferimento ad un pianeta chiamato Raxacoricofallapatorius.
Ora, non ho precisamente definito Angela una Signora del tempo, ma il termine Inare (citato nella lettera di Jeod) potrebbe benissimo essere abbinato ad una razza che nessuno può spiegare, come Angela. Spero di essermi fatta capire, in caso contrario chiedetemi e approfondirò ;)
Piccola parentesi sul nome di Fírnen: mi pare che Paolini non dica mai da dove venga il suo nome, quindi l'ho inventato. Nel caso mi fossi sbagliata fatemelo notare, grazie! ^^
E in ultimo: ciò che l'albero di Menoa ha sottratto ad Eragon non è mai stato specificato nei libri. Eragon, al momento del patto con l'elfa-albero, dice solo di sentire una fitta al basso ventre e sappiamo bene che lei gli dice di andare senza chiedergli nient'altro alla fine di Inheritance . Avevo letto questa teoria su un forum e tra tutte mi era sembrata la più plausibile, anche se la più crudele. Anche in questo caso mi piacerebbe tanto sapere quali fossero le reali intenzioni di Paolini, sigh è.é
Ci vediamo domenica con il prossimo -e ULTIMO- capitolo! :')
Baci,
Lalli
  
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