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Autore: Nymeria90    01/04/2015    1 recensioni
Tutti conosciamo la storia del comandante Shepard, ma della persona che era prima di diventare il paladino della galassia e dell’umanità sappiamo ben poco. La mia storia si propone di ricostruire le origini di Shepard prima che diventasse comandante, dalla nascita fino al suo arrivo sulla Normandy SR1.
“ La notte calò sul pianeta Akuze. Una notte senza stelle, illuminata solo dalla flebile luce di una piccola luna, lontana e stanca. Nel silenzio assoluto di un pianeta senza vita giacevano i corpi di chi, quella vita, aveva tentato di portarcela.
Cinquanta uomini e donne erano arrivati sul pianeta alla ricerca di gloria e conquista, di loro non rimanevano che i corpi spezzati sparsi per il deserto.
[...]. Erano morti tutti. Tranne uno.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Take me to church


Stazione Gagarin, 2178
 
L’acqua calda della doccia le scivolava sui muscoli tesi della sua schiena, dando un temporaneo sollievo alle sue spalle irrigidite e al collo dolorosamente contratto. Alzò la temperatura dell’acqua, per nulla infastidita dal calore bruciante che le arrossava la pelle. Chiuse gli occhi mentre si strofinava vigorosamente le braccia e il busto, immaginando che a toccarla fossero mani diverse della sue. Un lieve sorriso le affiorò sulle labbra mentre ricordava il modo in cui le dita di Alex scorrevano sulla sua pelle, la voracità dei sui baci, la meravigliosa sensazione di quel corpo giovane premuto contro il suo.
Aprì gli occhi e chiuse l’acqua con un gesto brusco, sperando di poter fermare similmente anche il flusso dei ricordi; ma se l’acqua smise di scorrere i ricordi non lo fecero.
Le immagini di Alex continuarono ad accompagnarla mentre usciva dalla doccia e si avvolgeva in un asciugamano spiegazzato, i piedi appoggiati sul freddo pavimento di marmo di un bagno qualunque in un appartamento qualunque. Si appoggiò al piano del lavandino, alzando gli occhi sull’immagine sfocata che lo specchio appannato le restituiva di se stessa.
Osservò la figura indistinta che la fissava dalla superficie lucida di fronte a sé; a malapena riusciva a distinguere i contorni del viso, il pallido disegno delle labbra, l’ombra in cui erano sprofondati gli occhi. Era così che ricordava il volto di Alex: null’altro che un riflesso sfumato che, a poco più di sei mesi dalla sua morte, già sbiadiva nella sua mente.
Se le avessero chiesto di dipingere i suoi tratti non avrebbe saputo riportarli alla mente. L’unica cosa che ricordava erano i suoi occhi, azzurri come il cielo della sua Terra. Quegli occhi azzurri, il cui sguardo le rimaneva incollato sulla pelle ovunque andasse … eppure, nonostante tutte le volte che vi si era perduta dentro, era uno solo lo sguardo che riusciva a ricordare: quello di un uomo che fa il suo ingresso nel mondo dei morti.
Da quando si era risvegliata dal coma, durato tre settimane, non aveva fatto altro che spingere il suo corpo allo stremo, non concedendosi nessuna pausa, nessun riposo, sfuggendo ai pensieri nello stesso modo in cui, su Akuze, era sfuggita ai divoratori.
Crollare sfinita sul letto era l’unica cosa che le faceva dimenticare i volti morti dei suoi amici e il volto dell’uomo che le aveva insegnato a vivere.
Prese il primo oggetto che trovò a portata di mano e lo scagliò contro lo specchio che s’infranse con la stessa facilità con cui il corpo di Shepard si era infranto sulle rocce di Akuze. Sussultò quando si accorse che il suo gesto non aveva distrutto quel riflesso che le provocava solo incubi ma lo aveva moltiplicato e ora la circondava, beffardo, quasi a ricordarle tutte le vite che erano state pagate affinché lei potesse tenersi la sua.
Uscì dal bagno quasi di corsa, sbattendosi la porta alle spalle e ritrovandosi nel nudo appartamento che le avevano dato per il suo breve soggiorno sulla stazione Gagarin.
Era felice che quel posto le fosse sconosciuto, che non ci fossero ricordi annidati nelle preti di quell’appartamento; sapeva che non avrebbe più rimesso piede su Benning o sulla stazione Arcturus per molto, molto tempo.
In quei luoghi, per lei, c’era solo l’illusione di ciò che avrebbe potuto essere e non aveva permesso che si realizzasse. Tormentò l’anello che portava al collo, appeso alla stessa catenina che sorreggeva quella medaglietta da soldato che non le era mai appartenuta e mai sarebbe stata sua.
La specialista Sasha Red era una persona che non conosceva, una persona che odiava: la stessa persona che aveva voluto lasciarsi alle spalle un passato che non voleva essere dimenticato e aveva comprato il futuro col sangue delle uniche persone cui aveva mai voluto bene.
Troppo tardi capiva l’errore della sua ambizione: lei era quello che era e nessun nome, nessun titolo, nessuna corazza o medaglia poteva cambiarlo.
Alex l’aveva amata per quello che era stata e l’aveva odiata per ciò che aveva voluto essere. Ma ora era tardi: non poteva essere più nulla di ciò che era stata, nulla di ciò che aveva desiderato diventare.
Era una superstite ed un soldato.
Era tutto ciò che sarebbe stata.
Si portò davanti allo specchio di fronte al letto, lasciò cadere l’asciugamano, guardando per la prima volta quel corpo segnato dalla morte.
Nuove cicatrici si era aggiunte alle vecchie, trasformando il suo corpo in una vecchia pergamena su cui era scritta una storia che aveva troppe cose da raccontare e nessuna voglia di farsi leggere. Appoggiò le dita sulla spalla, poi sul fianco, dove albergavano i segni di un tradimento che faticava quasi a ricordare.
Chi era Diòs? Perché le aveva sparato?
Il nome di Raul Castillo non le evocava più alcun desiderio di vendetta e i visi di Kobe e Louise sfumavano nell’oscurità … quella vita, la vita passata per le strade di una città tanto antica da essersi smarrita, le sembrava quella di qualcun altro. Era la vita di una persona morta.
Prese la divisa appoggiata sul letto e l’indossò con gesti misurati e sicuri. Nascose coi colori blu e oro dell’Alleanza la tragica storia raccontata dal suo corpo. La persona che era stata, le cose che aveva fatto, coloro che aveva amato e che aveva odiato … tutto ciò non aveva più importanza.
L’unica cosa importante erano l’aria nei suoi polmoni, il sangue nelle sue vene, la luce nei suoi occhi, il cuore che palpitava nel petto … i ricordi, le lacrime, le risate erano lussi riservati ai vivi.
Ma lei non era viva, era solo una ladra che aveva rubato un po’ di tempo ai morti.
Abbottonò con metodo la sua giacca, lisciò accuratamente i pantaloni, infine raccolse i capelli in una crocchia serrata, appena dietro la testa, facendo attenzione che nemmeno una ciocca sfuggisse al suo controllo.
Era un soldato con una sola missione: restituire il tempo rubato.
E lo avrebbe fatto mettendosi al servizio della galassia, votando la sua vita alla salvaguardia di quella degli altri.
Controllò che le scarpe fossero lucide, come esigeva il protocollo non scritto dell’Alleanza, e si ricordò di quell’uomo seduto al bar, quell’uomo di cui non sapeva alcuna verità, tranne la più importante: chiunque fosse, qualunque cosa avesse fatto in passato, alla fine le aveva salvato la vita.
Non importava altro, solo ora se ne rendeva conto.
Non importava che fosse o meno suo padre, che fosse un martire o un terrorista, alla fine della sua vita aveva fatto il suo dovere di uomo e di soldato.
Fare il proprio dovere: era tutto ciò che le restava.
Uscì dall’appartamento, imboccando il corridoio di quell’edificio simile a mille altri che l’Alleanza aveva sparso per la galassia. Le era familiare ma anche meravigliosamente estraneo. Non c’erano i suoi amici tra i soldati impettiti che incrociavano la sua strada e la salutavano portandosi una mano alla fronte; non c’era l’uomo che amava sotto quelle divise che nascondevano le storie di chi le indossava.
Raggiunse la sala conferenze e si fermò nel piccolo atrio che precedeva la porta chiusa; alla reception sedeva un giovane ufficiale che stava invano tentando di tranquillizzare una donna in uniforme che inveiva contro di lui.
Assistette col malcelata indifferenza alla scenata che stava facendo quella donna dai tratti aristocratici e l’aria di chi sa vendere dura la pelle.
Guardandola, capì che era un ottimo soldato, non era necessario conoscere il suo punteggio attitudinale per capirlo, anche se era proprio quello di cui la donna si stava lamentando: essere assegnata ad incarichi di serie B malgrado le sue comprovate capacità.
Era nell’ardore con cui difendeva la sua posizione, nell’ostinazione con cui reagiva ad ogni attacco, nell’intelligenza delle sue risposte che si intuivano le sue straordinarie abilità.
Era un ottimo soldato, si ripeté Sasha, fissando le mani affusolate e il viso ostinato, ma non le piaceva.
C’era qualcosa in quei lineamenti altezzosi, nella piega dura della bocca, nel tono arrogante della sua voce, che la faceva infuriare.
Quella donna urlava, sbraitava, batteva i pugni sul petto ma non risolveva niente. Continuava ostinata per la sua strada, travolgendo tutti o tutto coi suoi paraocchi mascherati da ideali, senza accorgersi che tutto il suo dimenarsi era solo un’inutile sfoggio di forza.
Si chiese se, coi suoi superiori, era altrettanto arrogante che coi suoi sottoposti.
Non ebbe modo di scoprirlo perché il ragazzo alla reception interruppe brevemente l’arringa della donna rivolgendosi a Sasha per dirle che poteva entrare.
Sasha si piazzò davanti alla porta e, mentre i dispositivi di sicurezza la scannerizzavano, poté sentire le ultime proteste della donna.
- Non ho intenzione di ammuffire su Eden Prime finché sarò diventata tanto vecchia da non poter più reggere una pistola!-
Non sentì la replica del giovane ufficiale perché la porta si aprì e tutti i suoi pensieri si concentrarono sulle tre persone sedute di fronte a lei: le uniche persone, in tutto l’universo, che potevano darle l’unica cosa che avrebbe dato senso alla sua sopravvivenza.
Il rumore della porta che si chiudeva accompagnò i suoi passi mentre si portava al centro della grande sala, dominata dal grande palco e dalla scrivania dietro cui sedevano le eminenze grigie dell’Alleanza.
Non provava né soggezione, né ansia mentre si fermava al centro della sala, contemplando quei volti uguali a tutti gli altri.
Quegli uomini detenevano un potere tale da smuovere tutti gli eserciti della Terra, ma sotto i titoli, le medaglie e le uniformi c’erano solo sacche di carne piene di sangue e tenute insieme dalle ossa. Erano uomini uguali a tutti gli altri.
Guardandoli si rese conto che non erano pronti ad affrontare i pericolosi misteri che la galassia sapientemente celava ai suoi abitanti.
L’arroganza aveva ucciso tutti gli uomini e le donne scesi su Akuze. L’umanità si era convinta di aver trovato tutte le risposte a tutte le domande: lo leggeva sui visi appagati di quei tre ufficiali che avevano tra le mani la sorte di un pianeta intero.
Non ebbe bisogno di chiedersi che cos’avrebbero fatto di fronte all’ignoto, lo aveva già visto accadere, su Akuze. L’Alleanza non era pronta ad affrontare l’inconoscibile, non sapevano come comportarsi di fronte a qualcosa che non riuscivano a capire. E lei era parte di quell’inconoscibile.
Coloro che comandavano l’Alleanza avevano paura di lei. Lo leggeva nell’espressione tesa di quei visi distinti, nelle mani che stringevano nervosamente i datapad, negli occhi che sfuggivano i suoi.
Come molti nell’universo anche loro, dopo l’iniziale meraviglia per la sua sopravvivenza, iniziavano a chiedersi come ci fosse riuscita: codardia? Tradimento? Sfacciata fortuna?
Sasha era un’incognita che nessuno riusciva a risolvere. Una bomba senza il codice per dissinescarla. 
Se fosse stato per loro quegli uomini l'avrebbero chiusa in qualche clinica psichiatrica, dimenticandosi di lei e del fallimento di cui era stata testimone. Ma ciò che era accaduto su Akuze non poteva essere nascosto e lei, unica sopravvissuta di quell'esercito di uomini apparentemente invincibili, era diventata tristemente famosa.
Era l’unica sopravvissuta e tutti, nella galassia, si aspettavano che venisse celebrata per questo.
Non che ci fosse qualcosa da celebrare, su questo erano tutti concordi; ma l'ipocrisia del mondo in cui vivevano imponeva a quegli uomini di onorarla per essere sopravvissuta a tutti gli altri. Non era ciò che voleva lei, né ciò che volevano gli uomini seduti in quella stanza, ma, ancora una volta, la volontà dei singoli sfumava di fronte alle esigenze della collettività.
Per superare il trauma di Akuze l'umanità aveva bisogno di un eroe, di un faro cui appigliarsi, e lei era il solo simbolo che l'Alleanza aveva a portata di mano. E così invece di rinchiuderla in una cella imbottitata e buttare via la chiave, le davano una medaglia e forse anche un titolo altisonante.
- Venga avanti, specialista Red.- la invitò l’uomo seduto al centro, un qualche generale o maggiore di cui aveva già scordato il nome.
Fece un passo avanti, impettita, le mani strette dietro la schiena, sperando di sentire per l’ultima volta quel nome che non le apparteneva.
- Lei è la sola sopravvissuta dello spaventoso attacco che ha colpito cinquanta marines dell’Alleanza, sul pianeta Akuze.- esordì l’uomo, come se avesse avuto bisogno che qualcuno le ricordasse ciò che riviveva ogni volta che permetteva alla sua mente di vagare tra i ricordi – Per questo motivo l’Alleanza si sente in dovere d’insignirla della Stella Terrestre e di promuoverla al grado di comandante.-
Con aria solenne un soldato in alta divisa venne ad appuntarle al petto quella medaglia che non aveva fatto nulla per meritare; i tre ufficiali dell’Alleanza la guardavano con aria assorta, dall’alto dei loro scranni, forse chiedendosi, come lei, che merito ci fosse nel sopravvivere a tutta la propria squadra.
- Inoltre.- proseguì l’ufficiale dall’espressione arcigna seduto a destra – Le comunichiamo che ha raggiunto i requisiti necessari per essere ammessa al programma N7. Tra un mese potrà cominciare il suo addestramento su Titano.-
Eccolo il premio tanto ambito, pensò mentre alzava la mano e toccava per la prima volta quella medaglia che non aveva nessun diritto di portare. Strinse il metallo gelido finché non sentì le punte acuminate penetrarle nel palmo. Quella medaglia era tutto ciò che restava della sua squadra.
- Ha qualche richiesta da avanzare?- domandò il terzo ufficiale fissandola con occhi scuri che le ricordavano quelli di Castillo, l’uomo che era stato suo modello ed esempio per tutta la sua infanzia; lo stesso che l’aveva tradita vendendo tutte le persone a lei care come schiave.
Prima che la tradisse aveva sognato di diventare come lui, cinica e spietata, dopo aveva giurato di ucciderlo nei modi più atroci che conosceva; ma alla fine non si era dimostrata migliore di lui: aveva calpestato tutto e tutti pur di essere lì in quel momento, con una medaglia appuntata al petto e lo sguardo fisso negli occhi di un uomo che la guardava senza vederla.
Voi non sapete niente! Avrebbe voluto urlare contro quei tre ufficiali inamidati.
La guardavano, la giudicavano, la misuravano, senza sapere nulla.
Un tempo era stata come loro, capace di vedere solo quello che voleva vedere, ma questa volta, per la prima volta, Sasha aveva capito tutto.
Il suo ruolo nell’universo era finalmente chiaro e limpido come il cielo delle cocenti estati di Grecia.
Aveva una missione e l’avrebbe portata a termine a costo della sua vita, ma non di quella degli altri.
Aveva capito, ora, ciò che era importante e ciò che non lo era.
- Sono un’orfana nata sulla Terra, signore, l’unica cosa che avevo prima di arruolarmi nell’Alleanza era il mio nome: Sasha. All’ufficio di reclutamento un uomo pensò che sarebbe stato molto divertente, per via dei miei capelli, trasformarmi in Sasha Red. Non provo nessun rispetto per quel nome, signore, ed ogni volta che lo sento pronunciare non fa altro che ricordarmi l’umiliazione provata quel giorno. Ho una sola richiesta: non voglio più essere Sasha Red. -
- E come desidera essere chiamata, comandante?-
- Con l’unico nome per cui provo il più grande rispetto e la più totale ammirazione.- dovette fermarsi un attimo, per inghiottire il nodo che le era salito alla gola: quante vite sarebbero state risparmiate se lei non fosse stata così ottusa da non accorgersi di avere a portata di mano la sola cosa che le importava davvero?
- Ci dica quel nome, comandante.- la incalzò l’uomo con gli occhi di Raul Castillo.
Alzò i suoi, piantandoli con insolenza in quelli dell’altro – Shepard. Io sarò il comandante Shepard o niente.-
I tre uomini si scambiarono una rapida occhiata, confabulando a bassa voce tra loro, non sembravano sorpresi: probabilmente Hannah doveva già aver anticipato la sua richiesta, dando la sua autorizzazione. O, perlomeno, questo era ciò che sperava.
Infine l’ufficiale seduto al centro tornò a rivolgersi a lei – E sia: la sua richiesta è stata accettata. – si alzò, subito seguito dagli altri due -Benvenuta nel programma N7, comandante Shepard.-  proclamò, con voce stentorea, portandosi la mano alla fronte nel rigido saluto dei militari.
Sasha non disse niente, si limitò a stringere più forte la medaglia che portava appuntata al petto, allentando la presa solo quando sentì il sangue appiccicarle il palmo della mano. Raddrizzò le spalle e uscì dalla stanza, senza dire una parola né ricambiare il saluto. Era il comandante Shepard, adesso, e poteva permettersi anche questo.
 
 



 
Nota
 
Credo che ormai sia chiaro chi è il comandante Shepard di questa storia. A questo punto credo di dovervi qualche spiegazione, anche se già in precedenza avevo accennato qualcosa.
Nella mia personale filosofia di Mass Effect (che so essere condivisa da qualcuno di voi) non esiste un solo comandante Shepard. Quando si inizia il gioco si possono scegliere tre origini e io sono convinta che scegliendone una le altre due non vengano automaticamente eliminate. Ogni potenziale comandante coesiste con gli altri, ha una sua storia, un suo percorso che si sviluppa in parallelo con quello degli altri. Ma nell’universo di Mass Effect c’è posto per uno solo di loro. Lungo la strada di ogni Shepard accade una piccola variabile che muta le sorti di ognuno di essi e alla fine uno solo sopravvivere (o perlomeno questo è ciò di cui sono convinta io).
Alexander è Shepard, l’unica differenza tra questo Alex e il protagonista delle mie precedenti storie è che qui lui non sopravvive ad Akuze, ma se fosse sopravvissuto sarebbe diventato il comandante Shepard di cui alcuni di voi hanno letto nelle mie precedenti storie.
Ma anche Sasha è Shepard, su questo non c’è alcun dubbio.
Nel corso di questa storia, inoltre, si è intravisto (e quando dico “intravisto” intendo proprio intravisto) un terzo potenziale Shepard, ma lascio a voi capire chi sia.
Siamo quasi alla conclusione di questa storia che dire epica sarebbe un eufemismo, dovrebbero mancare un paio di capitoli, tre al massimo e voglio approfittarne per ringraziare Stefania (mia fedele compagna di cella imbottita) senza la quale difficilmente sarei arrivata a questo punto.
Un abbraccio a tutti quelli che sono arrivati fin qui.
Alla prossima! 
  
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