Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Amaya Lee    02/04/2015    2 recensioni
[ Ereri | 5 passi - 5 capitoli | Modern AU | Levi è un adulto noioso ed Eren non lo è | Levi's POV ]
Avete mai cercato la Redenzione?
Certo che no. Mica è qualcosa che si cerca; un giorno alzi lo sguardo e la trovi lì, in un momento imprevedibile, quando proprio hai altro da fare, e non ti aspettavi di vedertela davanti, in tutta quella sua inaspettata eleganza.
Non è che la raggiungi, non è merito tuo.
Certe volte deve arrivare qualcuno a mettertela tra le mani, silenziosa e provvidenziale com'è, perché davvero non sai dove sbattere la testa. Forse, neanche ci credi; come non credi nelle fiabe. Forse nemmeno la vuoi.
Più o meno, mi duole raccontare, questo è ciò che successe a me.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Eren, Jaeger
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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NA: Benvenuti a questa fanfiction c: Sono qui per spiegare subito due cosine-ine-ine, poi vi lascio volentieri alla lettura. Questa sarà una mini-long, come esplicitato nell'Introduzione, per la precisione di 5 capitoli (5 passi, appunto). Il primo è abbastanza breve, ma questo perché non tratta di una scena molto lunga e mi serve giusto per proporre l'idea. Ne ho già pronti altri tre, perciò se ci sarà un riscontro positivo andrò abbastanza veloce. Quindi le opinioni sono naturalmente accolte al massimo, gente.
Comunque, anche se il genere "slice of life" è più che altro adatto al 4^, lo metto fin da subito. La fanfiction non tratta di una relazione tra maggiorenne e minorenne, contrariamente a come potrebbe sembrare nel 1^. C'è la remota possibilità che il rating venga alzato nei prossimi giorni, ma io vi avviso qui. Per ora l'ho messo giallo per il linguaggio e poco altro. L'avvertimento OOC è per sicurezza, ma si tratta di un Modern AU, perciò è ovvio.
Fatte queste inconcludenti precisazioni, Please Enjoy!


 












Trovare la Redenzione in 5 (non troppo) semplici passi.

 




 

1 – Essere umano.







 

Proprio ora, posso benissimo immaginare cosa la maggior parte di voi sta pensando; il primo passo per trovare la redenzione, se si ragiona in ordine logico, è ovviamente peccare.

Ed in parte avete ragione.

L'essere umani è una fase assolutamente fondamentale, ma non saprei definire entro dei limiti i precisi e inderogabili tratti di questa condizione. Essere umani è una caratteristica che ognuno può dimostrare e maneggiare quanto più si sviluppano determinate abilità e si scelgono determinati percorsi.
Sull'enciclopedia la fanno piuttosto semplice. Vi consiglio di cercare la definizione di “essere umano” lì.

Per arrivare a comprendere la storia che ho da raccontare, basti sapere questo; il peccato è colpa, la colpa è imperfezione, e l'imperfezione è ineluttabilmente umana.

Siamo creature cinicamente coscienziose e fragili, ed una parte di merito va alla capacità di cogliere l'occasione.

Non sempre vogliamo, non sempre ci comoda.

Commettiamo errori. Sbagliamo. Ce ne rendiamo conto; o almeno mi piace pensarlo.

Peccare non ha nulla a che vedere con l'essere buoni o cattivi, quindi non preoccupatevi di questo.

Essere umani, forse, è solamente un perpetuo oscillare. Ed ecco il motivo per cui è fondamentale, e per cui la redenzione è, nella sua stabile essenza, quell'eterno momento di incredulità, sollievo, intimo conforto, un attimo dopo aver creduto di “essere finiti.”



 

 

Incontrai l'occasione (l'origine, la sola-e-unica-scintilla, l'apice – in molti sensi –; troppe indefinibili cose, credetemi, semplicemente troppe) del cambiamento della mia vita quando ancora frequentava la scuola.
Io avevo terminato l'università da un paio d'anni e, nella sostanziale assenza di alternative, con in mano una laurea in economia fresca di stampa, terminavo il mio apprendistato presso lo studio di un commercialista mediamente conosciuto.
Perciò lavoravo da mattina a sera, guadagnando quel che bastava per l'affitto dell'appartamento e per il vitto, ma con un buon contratto praticamente in tasca.

Avevo una vita che definireste, da individui pretenziosi e fiduciosi quali siete nel futuro, “noiosa”. La parola, dietro le quinte, ha un sapore triste.

Lui studiava al liceo. Una passione per il caffè nero e uno spontaneo disinteresse per le discoteche.

Era annoiato – quasi nauseato – quando lo vidi spingere bruscamente la maniglia della porta vitrea ed entrare nel bar, con la felpa di maculato verde militare completamente inzuppata e i capelli grondanti di pioggia; si trascinò dietro il tempestivo freddo della notte, la gretta secchezza di sapori della grande città, l'infida oscurità delle strade, il ciclone di emozioni e turbamenti della sua età.

Seduto in solitudine al tavolo più lontano, nei miei vestiti asciutti, sotto le accecanti ed economiche lampade al neon del soffitto, dovetti constatare che fosse attraente. Anche, anzi, soprattutto messo in quel modo.

C'è un ché di bello nelle cose incasinate, che volete che vi dica.

Intuii che il ragazzo provenisse dal club poco lontano, i cui bassi pressanti potevano essere uditi soltanto varcando l'uscita del bar. Adocchiai il suo volto, e vi lessi senza ombra di dubbio malumore, irritazione, frustrazione – Oh, non fu mai avvezzo a criptare le proprie emozioni –; sbronza triste? Chi poteva dirlo.

Il nostro incontro avvenne molto velocemente, tanto che quasi non mi accorsi delle dinamiche esatte, e mi duole dire che fu uno dei peggiori luoghi comuni che la sorte, in un tiro mancino, mi potesse sferrare.

Mi alzai per pagare, lasciando ordinatamente e con cura la tazza, il piattino e il cucchiaio da tè, il tovagliolo ripiegato, insieme al contenitore dello zucchero sul ripiano pulito – che vagamente rievocavano la formazione schematica delle pedine precedente ad una partita di scacchi –, certo che nel giro di un minuto la cameriera sarebbe passata a raccoglierli. Abbandonare un tavolo nell'ordine assoluto consisteva in una mia futile ossessione; quelle insolite piccolezze che non si riconosce in nessun altro, e che se le ha, le tiene ben celate.

Il ragazzo era accanto a me, di fronte alla cassa. Trafficava con il portafogli, e i soldi nell'angusto taschino scivolavano alle sue dita gocciolanti facendolo innervosire.
A un certo punto sbatté rumorosamente una banconota da un dollaro sulla superficie di plastica, scrollandosi di dosso un groviglio di sensazioni negative. Udii una gorgogliante imprecazione; poi afferrò il bicchiere fumante, colmo di caffè fino a metà, un po' troppo agitatamente.
Si voltò senza controllare i movimenti che faceva, ed io ricacciai indietro una bestemmia che mi avrebbe con tutta probabilità dannato irrevocabilmente all'inferno quando una buona parte di bevanda venne rovesciata maldestramente sulla manica della mia giacca.

Lui mi scoccò un'occhiata sbalordita e, in tutta onestà, lo declassai immediatamente da “penoso” a “idiota”. Inchiodandolo con lo sguardo, ebbe la stessa reazione di chiunque.

I suoi occhi, per qualche secondo, furono indecisi se concentrarsi sulla macchia di caffè sul mio indumento o sul mio volto, ma optò poi per rivolgersi alla cassiera.

«Cazzo. Me ne fai un altro?» disse col suo barbarico accento europeo.

Senza emettere un singolo respiro, misi il mio conto sul bancone e uscii dal locale con un'umore classificabile senza dubbio come il peggiore della settimana. Il che era tutto dire.

 

 


 
  
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