Nota: personaggi e vicende della storia sono puramente casuali e frutto della mente dell'autore (cioè me), ogni riferimentoa storie e persone esistenti è puramente casuale.
Racconto sotto copyright
© 2008 ~ Passarella Riccardo
Fra
poche ore parte l’aereo che ti porterà via per
sempre. Come trascorro queste
ultime ore? Chi vedo? Che messaggio lascio ai miei compagni di scuola?
Che cosa
porto con me (libri, quaderni, fotografie, ricordi, bagagli culturale)
Fin
da piccolo, i miei genitori hanno sempre cercato di sensibilizzarmi al
Mondo e
alla sua tecnologia. Anche in modi abbastanza ambigui: hanno preso come
esempio
molte credenze di culti antichi - perché pur volendo aprirmi
gli occhi allo
sviluppo che ci circonda, non si staccavano da quello che è
l’antichità, da cui
si può imparare molto -, come ad esempio la barca che porta
i faraoni nell’aldilà,
e li hanno trasformati. Infatti, mi raccontavano spesso che quando
qualcuno
muore un aereo viene a prenderlo per portarlo dove loro spero si
trovino ora.
Anche per me è sempre stato difficile da immaginare, ma
l’idea mi faceva, e mi
fa tuttora, sorridere. Non avrei mai pensato di passare
quell’invisibile dogana
così presto, tuttavia sono pronto, dalla vita ho ottenuto
quello che volevo,
sono davvero pronto, anche se la malinconia è ormai una
parte di me.
Attorno a
questo letto privo di armonia, privo di calore, si trovano i pochi
parenti che
mi restano. L’incidente di tre anni fa ha privato noi tutti
di persone indispensabili;
a quanto pare Nemesi è intervenuta stabilizzare il tutto,
benché a quei tempi
fossi solo un bimbo di sette anni, nessuno le sfugge. A ogni danno di
Hybris, Nemesi
pone riparo. Non sapevo che in quel modo avessi aperto la bocchetta del
gas, e
chi poteva immaginare che, mentre mi trovavo tra i poderi dei nonni con
loro e
la sorella della mamma, il resto della famiglia si sarebbe ritrovato
proprio lì
e che papà, che pensavo avesse smesso di fumare, avrebbe
acceso una sigaretta
scatenando l’esplosione? Il Fato ogni tanto sceglie di farci
subire torture
orrende, ma non dobbiamo demordere perché forse ci
attenderà qualcosa di bello,
un giorno, ovviamente io non sono tra le persone che ne beneficeranno.
La nonna
si era avvicinata a me qualche secondo fa, mi accarezza la fronte e
recita una
preghiera, credendo che Dio le risparmi la perdita dell’unico
nipote. Con le
poche forze che mi restano, sposto la mia mano verso la sua,
spostandola. In
questo modo le faccio comprendere che non voglio che qualcuno sia in
pena per
me. Lei è sempre stata molto caritatevole. Ha sempre donato
agli altri per
sentirsi in pace con se stessa. Ogni volta che qualcuno da lei
conosciuto fosse
malato, ha passato il tempo ad accudirlo, quasi intromettendosi. Vedo
sulla sua
espressione il più profondo dolore che abbia scorto in
questi dieci anni,
piange lacrime che si perdono in quel baratro, senza poter arrivare a
noi. Le
sussurro di non preoccuparsi, che non lascerò che tutto
sfugga così, ma in
realtà sono consapevole di quanto sia falso questo, quanto
farà aumentare la
sofferenza. L’oncologo è entrato mentre ero
sovrappensiero, me ne accorgo solo
quando esce con la zia: una donna austera, con un’armatura
impenetrabile dai
sentimenti. Questo è quello che vuole far credere di essere,
in realtà cova
dentro una grande emotività, di cui si vergogna. Ricordo il
giorno del
funerale. Lei restò muta, immobile, fredda per
l’intera durata della cerimonia;
quando tornammo a casa per passare insieme ancora qualche momento, lei
disse do
non stare troppo bene e salì nella sua vecchia camera.
Un’ora dopo i nonni,
preoccupati, mi mandarono a vedere come stesse: la trovai in lacrime,
singhiozzante, come mai l’avevo vista. Mi avvicinai a lei,
con una mano
leggermente tesa innanzi. Lei si risollevò di scatto e si
avvicinò, mi strinse
il polso, mi diede una sonora sberla, che incassai senza rabbia o
tristezza, e
mi abbracciò. Mi strinse molto forte, poi mi fece di
intendere che dovessi
lasciarla sola. Adesso parla col medico, che le starà
sicuramente dicendo che
il tumore è troppo aggressivo, impossibile prolungare il mio
tempo; è per lei
una routine sentire queste parole, da qualche tempo. Il nonno, un uomo
attempato ma arzillo, mi osserva con tristezza, ma non osa avvicinarsi,
crede
che così facendo potrebbe ammalarsi anche lui. Non possiede
molta scienza, ha
una mentalità “medievale”, infatti, sta
guardando la nonnina con stupore: come
può stare così vicina a qualcuno che sta per
morire per mano di un morbo
incurabile? Non se lo sa spiegare. Per un certo verso è
l’opposto della moglie,
ma possiede un cuore d’oro, è molto dedito al
lavoro, infatti possiede molte
terre proprio per questo motivo, ne va molto fiero, e
nell’ambiente in cui vive
questo tipo di ricchezza è quello vero. Io sono fiero di
aver potuto ereditare
da lui molte tradizioni di famiglia, tramandate dai suoi antenati. Ad
esempio,
tra queste troviamo l’usanza di sgozzare un maialino per ogni
equinozio e
condividerlo con i vicini che più ci hanno aiutati, al fine
di augurare loro un
buon profitto. Sovente mi raccontava che quest’uso derivava
dal suo trisavolo
che una volta, nel periodo di inizio primavera, uccise un maialino e lo
offrì
alle persone che lo avevano sostenuto in quel periodo. Successe poi che
costoro
ebbero fortuna e gli fecero dei piccoli doni. È molto
importante per noi, e se
non disponiamo proprio di quell’animale, ci arrangiamo con
qualcos’altro. Non
ha sempre avuto successo, tuttavia è un momento di unione
tra noi e chi ci
augura buona sorte. Che
cosa sta facendo
ora? Sta prendendo coraggio, abbattendo i muri che delimitano
ciò in cui crede,
si sta avvicinando a me estraendo qualcosa dalla tasca: è un
libricino,
rilegato minuziosamente a mano, con raffinate finiture. È un
cimelio che si
tramanda di padre in figlio, quando il più vecchio tra i due
sta per morire. Lo
starà donando a me perché con me si termina la
nostra genealogia, poiché non
restano loro altri figli oltre la zia, che è per giunta
sterile. Questo è un
atto molto importante, la fine di una famiglia. Mi sento ora
responsabile più
che mai per ciò che ho fatto e le sue conseguenze. Non ho
solo posto
conclusione alla vita di molte persone, ma anche a una dinastia. Il mio
avo dà
il via a una sorta di cerimonia che recita: - A te, figlio del mio
sangue, che
sei stato incaricato di vegliare sulla discendenza, dalla mia morte
alla tua,
affido il libro dei miei padri, che ci accompagna da due secoli, che
pur
contenendo la sola intensità di un bianco che mai
sarà colmato, significa vita
e continuità. Abbine cura - . Dopo avermelo ceduto, si siede
su di una sedia
sita di fianco al letto. Osservo il libro con attenzione, le pagine
ingiallite
lasciano intendere la sua età, la copertina color cremisi
esprime la sua
importanza. Quell’opera che non ha mai parlato fu
commissionata da un
capostipite della casata, il quale si era arricchito e decise di farlo
creare
apposta per una ragione, che tuttavia si è persa nei tempi.
Peccato. La nonna è
andata in direzione del mio progenitore, quasi lo facesse per
mostrargli la sua
fierezza per quel che ha fatto.
La zia
rientra nella stanza accesa da un fuoco che dona
tranquillità: il fuoco della
speranza. Il dottore dietro di lei fa un passo avanti e comincia a
spiegare che
forse c’è un modo per permettermi di vivere ancora
di più, tuttavia è una
procedura sperimentale e nulla è sicuro. Nella mia testa
sento una sirena, e
poi una voce che avvisa un ritardo del volo. Il mio morale è
risollevato, ho
scampato momentaneamente il volere del Destino, anche se probabilmente
il Fato
lo aveva già predetto… Mi chiedono se voglia
tentare, non posso che rispondere
di sì, senza pensarci nemmeno. Il medico dice che se i miei
tutori, i nonni,
sono d’accordo, possiamo iniziare immediatamente. Aspettare
diminuirebbe le
poche chance che già abbiamo. Il consenso è dato.
L’oncologo esce dalla stanza
comunicandoci il suo ritorno previsto entro qualche minuto. Aspettiamo
tutti
ansiosi nella stanza. I miei parenti sembrano esultare più
di me; non posso
deluderli, non devo, non ne ho il permesso. Sono sicuro di riuscire a
resistere
un po’ più di quanto non fosse previsto, voglio
farlo e lo farò. Nemmeno le
tremende fatalità potrebbero mettersi contro di me. I minuti
scorrono carichi
di tensione e attesa, finché lo strutturato rientra nella
camera con
un’infermiera e chiede a tutti di uscire. La ragazza che lo
segue ha portato un
carrello, sul quale sono depositate una siringa ed una bottiglia di
vetro
marrone. Sono inoltre posate delle sacche contenenti dei liquidi, le
hanno
preparate per non perdere tempo. L’uomo mi dice che questa
terapia inizia con
un ciclo di antibiotici somministrati in piccole quantità
per endovena, in più
due volte al giorno mi verrà fatta un’iniezione,
che mi manderà in corpo dei
nuovi farmaci per la chemioterapia a base di… a base di che
cosa? Quella parola
mi dice qualcosa, ma non mi resta fissa in mente. È molto
complessa e le mie
orecchie non vogliono percepirla. Mi sento un po’ confuso
perché mi ricorda
qualcosa, qualcosa di importante, ma che cosa? Questo vuoto di memoria,
quest’incapacità di percepire le spiegazioni mi
confondono, sarà colpa dell’ansia.
Mi chiedono se sono pronto, annuisco.
Il
medico ha finito di preparare la siringa e adesso
l’ago sta entrando in una vena del braccio. La mia sicurezza
vacilla, tutti mi
osservano da un finestrone, l’infermiera sorride, il medico
si concentra e
spinge il contenuto dello strumento che ha in mano dentro di me; sento
entrare
in me il liquido, nello stesso momento collego tutto o quasi. La parola
che non
percepivo e che tuttora non riesco a percepire riporta il ricordo
dentro di me,
Affiora velocissimo, intanto sento lentamente il farmaco uscire
dall’ago. Sento
un silenzio assordante, poi tutto riprende a scorrere, nel momento in
cui la
mia vena viene liberata dal corpo estraneo. Lancio un grido, i miei
occhi
perdono vivacità, il medico mi scuote le spalle, i nonni e
la zia si piombano
in camera. Il mio aereo è arrivato. Spero che la lettera che
ho scritto per
salutare tutti venga trovata. E con questo pensiero mi allaccio la
cintura,
pronto a partire.