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Autore: Non ti scordar di me    03/04/2015    8 recensioni
[Sequel Amore Proibito]
E dopo anni di lontananza, Elena e Damon Salvatore si rincontrano in un altro contesto e con altri sentimenti.
Elena è in bilico tra due mondi diversi: un mondo di sorrisi finti o un mondo di apatia. Lei non fa parte né di uno né dell’altro.
Damon ha trasformato il ‘proibito’ che provava per Elena in altro: in odio e sarcasmo mal celato.
Elena non ha rinunciato alla vita. Lei vuole salvarsi. Non vuole sentirsi un reietto della società.
Damon non ha più fiducia in nessuno. Lui non vuole salvarsi. Vuole trovare un metodo per chiudere tutto.
I due una volta che si rincontreranno cosa faranno? E soprattutto, i due lasceranno alle spalle il loro legame di sangue?
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Dalla storia:
«Se ora sei così sicura di te e combatti questa merda che hai intorno, è merito mio. Ti ho reso io forte, bimba.» Commentò stanco.
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«Un fiammifero.»
«Un fiammifero?» Chiesi.
«Un fiammifero che prova a battere le tenebre. Ecco cosa sei.» Disse Damon.
-
«Lei era un’oppressa. Lui era un sopravissuto.»
-
E i due come si comporteranno? Lasceranno che il loro ‘proibito’ vinca su quello che pensa la gente?
Non ti scordar di me.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert | Coppie: Damon/Elena
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
Capitoli:
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Capitolo dodici.
I’m useless.
 
«Dove stai andando?» Stavo per uscire da casa e mi fermai istantaneamente. Mi girai lentamente e incontrai gli occhi di Damon che mi squadravano incerti. Indossava dei semplici boxer neri e una maglietta bianca. Teneva tra le mani una tazza fumante di caffè e mi guardava con uno sguardo assonnato.
«Non è presto?» Erano le nove meno un quarto, mi rimanevano solo pochi minuti per prendere il pullman. Deglutii a disagio, squadrandolo attentamente. Damon in quel momento sembrava un tenero cucciolo indifeso, era strano vederlo così indifeso.
«No, faccio solo un giro. Sbrigare qualche cosuccia all’università…» Dissi prendendo dalla borsa un libro che non toglievo mai. Per fortuna sono una persona molto abitudinaria. Mi dissi, osservando i lineamenti del corvino piuttosto tesi. Neanche lui sapeva cosa dire, forse non si fidava neanche di quello che dicevo ma era evidente che non volesse pensarci più di tanto.
«Ritornerai entro due ore?» Mi chiese incerto squadrandomi dall’alto in basso. Cosa succedeva tra due ore? Feci mente locale, oggi era Martedì…Damon il martedì aveva…Aveva la seduta dallo psicologo – sedute a cui lo obbligavano a prenderne parte.
Mi portai una mano in faccia, nel caos generale mi ero completamente dimenticata di quelle sedute – dovevo come sempre ringraziare Luke che mi aveva fatto il grande favore di parlare con suo padre per riceverci.
«Me n’ero…» Non riuscii neanche a finire la frase, incontrai gli occhi del corvino e mi morsi la lingua. Fargli sapere che mi ero dimenticata di una cosa – veramente troppo – importante di lui equivaleva a dirgli che io mi ero dimenticata di lui.
E questo non l’avrebbe aiutato. Avevo paura che Damon fosse in una depressione avanzata, avevo persino pensato di dirlo a mamma però lui mi aveva assicurato che ne avrebbe parlato lui con la madre – se ovviamente non lo sapesse già -.
«Dimenticata?» Continuò lui la frase per me. Sospirai pesantemente e ci pensai più volte prima di dirgli qualcosa. Probabilmente quel silenzio lo avevo innervosito più del previsto. «Mi innervosisce questo fatto.» Grugnì precedendomi. Mi spiazzò con quell’affermazione così campata in aria.
«Solo perché sono inutile non voglio che tu smetta di dirmi quanto sia bastardo o quanto sia coglione.» Mi spiegò. Voleva che tutto rimanesse com’era, ma questo non era possibile. Non potevo – non avevo il coraggio – di dirgli delle cose del genere proprio in un momento così delicato.
Avevo paura che da un momento all’altro potesse scoppiare. Non sapevo esattamente cosa ci legasse, non capivo neanche perché volevo aiutarlo in quel modo. Dopotutto lui poteva perfettamente andare da solo da uno psicologo, no? Poteva prendere i tranquillanti che il medico gli aveva prescritto senza la mia supervisione, giusto?
Allora perché volevo essere al corrente di tutto?
«Tu non sei inutile.» Gli dissi deglutendo. Inizialmente non facevo caso a quante volte dicesse quella frase nell’arco di una giornata, ora invece sembrava che la ripetesse sempre…Non avevo mai notato il suo malessere, non avevo notato in più di quattro mesi che mio fratello fosse in piena crisi depressiva e io aggravavo solo il tutto.
«Non ho niente. Niente, se non guai su guai.» Replicò intensificando la presa sulla tazza che stringeva nella mano sinistra.
«Se fossi inutile, non staresti cercando di uscire vivo da questa situazione.» Gli dissi avvicinandomi cautamente a lui che osservava tutti i miei movimenti.
«Io non sto cercando di fare niente, Elena.» Il mio nome pronunciato dalla sua bocca in quel modo così cadenzato e sofferto mi fece rabbrividire.
«Come, prego?» Sussurrai tra l’incredulità e la rabbia. Avevamo una promessa, ci saremo spalleggiati a vicenda.
«Tu stai cercando di mantenermi qui. Con questa storia, stai cercando inutilmente di mantenermi in questa vita maledetta.» Ogni parola uscì dalla sua bocca con fatica, mi sentii tremendamente in colpa e avvertii anche un senso di ansia improvvisa.
Ero arrivata in tempo. Forse se mi fossi resa conto di questa sua depressione più in là, non ci sarebbe stato altro da fare.
«Sei terribilmente egoista.» Mi accusò, poggiando la tazza che teneva in mano sulla mensola dietro di lui. Sospirai pesantemente e irrigidii tutti i muscoli del mio corpo.
«Egoista? Sarei io quella egoista? Sei tu che vuoi gettare all’aria la tua vita. Sai quante persone vorrebbero qualche giorno in più e non sono riusciti ad averli? Sai quanta gente avrebbe voluto solo qualche minuto in più per ricordare ad una persona tutto l’amore che provava?» Gli chiesi infervorata.
Non sopportavo quei discorsi, non riuscivo a concepirli. Non riuscivo a capire perché certa gente – come mio fratello – volesse smettere di combattere contro qualcosa che aveva le possibilità di vincere.
«Sei egoista perché mi stai trattenendo qui. E lo fai, non te ne sei resa neanche conto. Mi stai dando la tua vita nelle mie mani, con la certezza che non farò una delle mie solite stronzate. E mentre tu cerchi di salvare la mia vita, io custodisco la tua.» Sputò stringendomi le spalle e fissandomi con i suoi occhi lapislazzulo. Non sapeva quanto aveva ragione.
Affidargli qualcosa – anche se si trattava della mia vita – mi era sembrata la cosa migliore per una persona depressa, volevo che trovasse un incentivo per vivere, che coltivasse nuovamente la voglia di vivere.
«Ti serve un motivo per restare. E io lo sto cercando.» Mentii sperando che abboccasse. Ma Damon è troppo bravo, troppo bravo per cadere nei miei tranelli.
«No, Elena. Tu il motivo per farmi restare l’hai già trovato e lo stai già sfruttando.» Fu un colpo al cuore in piena regola.
Parlavo regolarmente con il padre di Luke per tenermi un po’ aggiornata su Damon e sulla sua depressione, ogni volta che parlavo con lui sentivo sempre un peso in più sul cuore. Mi descriveva Damon come un automa privo di forze e voglia di vivere pari a zero. L’unica cosa che mi aveva consigliato era quello di trovargli un motivo valido per non permettergli di fare un passo troppo azzardato.
Farlo rimanere per me mi è sembrata l’idea peggiore e migliore che mi sia venuta in mente fin’ora.
La Migliore perché avevo notato che dargli quel movente e continuare a stimolarlo, lo facevano animare. A volte lo intravedevo sorridere, intravedevo i suoi occhi poco più accesi e la sua solita malinconia sembrava scorrere via.
La Peggiore perché mi stavo comportando in modo tremendamente egoistico, ero egoista e non solo nei confronti di Damon ma nei confronti di tutti.
Nei confronti di mia madre, ignara della situazione che avvolgeva suo figlio. Nei confronti di Stefan, che imperterrito continuava la sua nuova vita a Londra – aveva persino trovato un lavoro part-time. Nei confronti di mio padre, non gli avevo rivolto una sola parola su quest’argomento e ogni volta che mi chiedeva di Damon io lo ignoravo e lo depistavo.
Ed ero egoista, anche, verso me stessa. Mi stavo privando da sola della mia vita. Chi – CHI – affiderebbe la propria vita in mano di una persona in uno stato di depressione molto più che avanzato?
«Ti sto dando un’opportunità per ritornare a vivere. Non so da cosa sia causata questa depressione, so solo che mio fratello sta diventando un vegetale senza emozioni.» Gli dissi stizzita.
Rivolsi un’occhiata veloce all’orologio, era in un enorme ritardo. Ritardo giustificato. Mi rincuorai, scrollando le spalle. Quello che dovevo fare, poteva aspettare ancora qualche minuto.
«E lasciami vivere così. Ti costa tanto, Elena?» La sua voce era incredibilmente roca. Lo osservai in silenzio: i raggi deboli del sole che filtravano dalle tende gli illuminavano il profilo e la sua espressione burbera meno spaventosa.
«Sì, mi costa tanto.» Diedi una risposta secca e vidi il suo viso cambiare. Mi sentii sollevata vedendo che finalmente un’emozione a dipingergli il volto: era sorpreso.
«Per te è così strano che qualcuno tenga a te, Damon?» Mi ritrovai a chiedergli inclinando la testa. Damon non poteva seriamente sminuirsi in quel modo, non poteva e basta. Era bello, veramente bello, lo sapeva e ne era più che consapevole. Come mai ora aveva questa insicurezze infondate?
«Vai, Elena.» Mi indicò la porta con una mano. Deglutii e assottigliai gli occhi. Ne avremo riparlato e ne riparleremo anche con nostra madre e nostro fratello.
Mi sistemai meglio la borsa in spalla e sospirai dandogli le spalle. Feci qualche passo, mi fermai non appena avvertii la mano di Damon stringermi delicatamente – con una presa incredibilmente debole – l’avambraccio.
Si avvicinò a me e incerta iniziai  a balbettare diverse frasi insensate fin quando non ritrovai il mio solito contegno. «Cosa stai facendo?» Gli chiesi con un fil di voce.
I suoi occhi cerulei si alzarono verso il mio volto e lo studiarono lentamente, si morse il labbro incerto e poi prese coraggio per parlare.
«Voglio baciarti, non posso?» In quel momento, mi resi conto quanto Damon stesse male. Perché un tempo non si sarebbe fatto scrupoli, mi avrebbe baciato e se ne sarebbe fregato della mia volontà, avrebbe seguito quello che dettava il suo cuore.
«Baciami, Damon.» Gli sussurrai all’orecchio, sperando che in quel momento nessuno facesse qualche entrata improvvisata.
Il corvino mi strinse delicatamente i fianchi e avvicinò prima le sue labbra al mio lobo. Sfiorò buona parte del volto, si soffermò pochi istanti sull’angolo della mia bocca prima di sfregare le sue morbide labbra sulle mie.
Non era uno dei nostri vecchi baci. Noi eravamo irruenti, passionali, sbagliati e i nostri baci consumati al buio mi facevano capire quanto fossi sbagliata…Questo sfioramento di labbra quasi inesistente non faceva lo stesso effetto.
Il gesto di volermi baciare in casa – sapendo che potevamo essere sgamati in qualsiasi momento – non mi facevano sentire sbagliata, non mi faceva pensare che io e Damon eravamo qualcosa di irrimediabilmente sbagliato.
Il gesto di volermi chiedere il permesso di sfiorarmi mi aveva trasmesso solamente un bisogno d’affetto smisurato, non voleva baciarmi perché lui voleva farlo a tutti i costi. Voleva baciarmi sapendo che ero accondiscendete, sapendo di non violarmi e non provocarmi.
Era qualcosa di normale. Costatai mentre lentamente alzava lo sguardo e si separava da me.  Gli sorrisi apertamente e feci un passo avanti incerta.
Al diavolo. Pensai. Mi girai e lasciai sulle sue labbra un altro bacio a stampo.
Stavo uscendo da casa, ma avvertii chiaro e tondo il suo «Grazie.» quasi sussurrato.
E’ il minimo.
 
*
La prenderà male. Deglutii nervosa, guardando l’orologio. Ero in camera mia e osservavo il cellulare, mi era arrivato quel messaggino da circa dieci minuti e lo fissavo incerta. Era un numero sconosciuto, ma sapevo perfettamente chi fosse e cosa intendesse con quel testo dell’sms.
Oggi, è arrivo il momento. Alle 6. Recitava il testo.
Erano due settimane che complottavo alle spalle di Damon, con l’aiuto di quel poliziotto. Sapevo che in questo modo avrei quasi rotto il momento idilliaco che sembravamo vivere.
Non sapevo neanche cosa stessi facendo. Sapevo solamente che ormai la mia vita era sempre la stessa cassetta a ripetizione e io non ne ero mai stanca.
Ormai non era strano passare ore intere con Damon, perdendo tempo sul mio letto. Mi piaceva passare le mie giornate così, cercare di far spuntare sul viso di mio fratello un tenue sorriso stava diventando una missione sempre più complicata.
«Damon, siamo in ritardo!» Sbottai inacidita. Ero seduta sul divano del salotto con mia madre intenta a guardare il telegiornale.
«Come vanno le sedute?» Mi chiese con un sorriso accennato. Mi sembrava strano parlare con mamma di questo problema, era qualcosa che solo io e Damon stavamo condividendo. E un’altra cosa che mi aveva dato alla testa era venire a sapere che mia madre era già al corrente di questa situazione alquanto difficile che suo figlio stava attraversando.
 
Era strano vedere l’intera famiglia guardarti con occhi curiosi e incerti, ma ancora più strano era vedermi seduta ad un tavolo con Damon accanto e mia madre e Stefan seduti di fronte. Entrambi ci guardavano incerti – soprattutto mamma -, ma lo sguardo del ragazzo era più penetrante quasi consapevole.
Avevo subito capito cosa pensava, Stefan era un ragazzo troppo prevedibile. I suoi occhi verdi erano dipinti di piena paura ma non per sé stesso, paura per noi.
Era chiaro come il sole che aveva il piccolo dubbio di cosa ci fosse realmente tra me e Damon, la cosa che mi indispettiva parecchio era come non sembrasse turbato da ciò.
Anzi era quasi rilassato e di tanto in tanto rivolgeva al corvino degli sguardi pieni di ammirazione.
«Damon, inizi tu?» Dissi stringendogli la mano da sotto il tavolo. Il corvino alzò lo sguardo e puntò gli occhi su Stefan. I due si rivolgevano occhiate intense, avevo la sensazione che quello fosse il loro modo per comunicare e mi sentii quasi estromessa da questo legame che avevano creato in due anni.
«In realtà, loro sanno.» A quella parole spalancai la bocca e deglutii. Cosa significava ‘loro sanno’? Come potevano sapere? Come potevano averlo notato prima di me? Era stata così accecata dalla rabbia di rivederlo da non riuscire a capire in che situazione si trovasse?
«No…Come…Un momento, come potete saperlo se io l’ho capito solo un mese fa?» Chiesi stizzita, sciogliendo repentinamente la stretta con la mano di mio fratello e sbattendo le mani a pugno sul tavolino.
«Sapevo del suo arrivo e sapevo del motivo del suo arrivo.» Bingo. Pensai arcuando le sopraciglia. Ecco cosa non mi aveva detto, anche se era più corretto dire che questa era solo una delle troppe cose che mi stava occultando.
«Sei venuto qui per…per cambiare aria?» Gli chiesi a questo punto. Damon non mi rispose, era chiuso nel suo mutismo – tecnica che aveva adottato da poco –. Guardai così i due che avevo di fronte: c’era mamma che si sistemava ripetutamente i capelli dietro le orecchie con fare frenetico e c’era Stefan che aveva assunto un’espressione infastidita e non perdeva occasione per incenerire Damon con lo sguardo.
«Pensavo che questo senso di inutilità sarebbe sparito se fossi venuto qui, se fossi ritornato da mia madre.» Esalò aprendo bocca dopo attimi che mi sembravano infiniti.
Chiusi gli occhi – tentando di non far sparire gli occhi lucidi – e inspirai profondamente. Una volta riaperti gli occhi, mi sentii tremendamente a disagio tanto quanto mi sentii stupida. Avevo così insistito con Damon affinchè tutta la famiglia sapesse di questo problema per aiutarlo al meglio…E ora, lui mi diceva che loro sapevano già tutto?
E – cosa peggiore – mi rivelava che il suo motivo di ritorno era stato determinato dalla speranza di sentirsi più vivo?
«Perché ero l’unica a non saper niente? Mamma perché non me ne hai…parlato?» Chiesi guardando mamma che posò una mano sulla mia stringendola e rivolgendomi uno dei suoi soliti sorrisi incoraggianti.
«Volere di tuo fratello.» Damon la gelò con lo sguardo a quel commento ed ebbi la netta sensazione che quei due non me la stessero raccontando giusta, c’erano troppe cose senza senso. Perché mamma non poteva mettermi in guardia sulla salute della persona che doveva essere mio fratello? Se me lo avesse detto prima, avrei potuto…Avrei potuto fare cosa esattamente? Forse comportarmi da persona meno stronza? Forse evitare di dirgli tutto quello che pensavo su di lui?
Probabile che mi sarei comportata così. E realizzai che in effetti quello era ciò che Damon voleva evitare. Non voleva che mi comportassi diversamente da com’ero, voleva avere a che fare con la solita Elena, non con una finta me che si trovava a fingere di essere contenta per il fratello.
«Mi trattate come se potessi esplodere da un momento all’altro. Non ho bisogno di questo, ho bisogno di qualsiasi cosa che non sia compassione. Non voglio essere trattato come una bomba pronta ad esplodere.» Proruppe Damon incespicando le labbra in una smorfia infastidita.
«Qui, vogliamo solo aiutarti.» Intervenne mamma, invitandolo con lo sguardo a calmarsi.
Dopo di che afferrò anche la mano di Stefan e la mia. Tutti e tre intrecciamo le nostre mani.
«Rimarrete sempre i fratelli Salvatore, qualsiasi cosa succeda. Supererete tutto.» Aveva la voce che tremava e gli occhi lucidi. Sorrisi a vederla così vulnerabile, si era fatta prendere dal momento.
Supereremo anche questo. Mi diedi forza.
 
«Molto meglio.» Le dissi sorridendo apertamente. Vidi il suo sguardo accendersi e distogliere lo sguardo dalla televisione per guardarmi con aria speranzosa.
«Ero sicura che il tuo aiuto incidesse molto su di lui.» Si morse il labbro inferiore provando a non farmi notare i suoi bellissimi occhi verdi inumidirsi. «Cosa dice lo psicologo?» Mi chiese. Mi morsi un labbro a disagio, sperando che Damon si desse una mossa.
«Elena, andiamo?» Salvata in calcio d’angolo. Rivolsi uno sguardo di scuse a mamma e alzai le spalle con finta aria innocente e afferrai la borsa.
«No, un momento…Elena mi ha detto che va meglio, non vuoi parlarmene?» Ci fermò mamma con il suo tono di voce perentorio che m’incuteva da sempre un gran timore.
«Ti parlerò dei miei progressi solo dopo questa seduta, ti spiace?» Le chiese regalandole un grande sorriso, forse il primo che vedevo in tanto tempo. Lei lo assecondò facendoci segno di muovere.
Presi le chiavi della sua macchina ed uscii fuori – seguita da Damon. Sospirammo e ci scambiammo uno sguardo di intesa. La macchina era parcheggiata sul vialetto.
Il corvino alzò un sopraciglio non appena vide che mi stavo avviando verso il sedile da guidatore.
«Non posso guidare una macchina?» Gli chiesi ironica, sedendomi e allacciando la cintura. Lo vidi annuire in silenzio, ma potevo avvertire la tensione che c’era in macchina.
Feci riscaldare pochi istanti il motore e ingranai la marcia per uscire dal parcheggio.
«Sei brava a mentire.» Commentò il corvino guardando la strada dritta davanti a sé. Sbiancai leggermente e sospirai.
«Anche tu non sei niente male, Salvatore.» Lo presi in giro con voce ironica. Ero tesa, forse troppo. Ormai era diventato semplice mentire, a partire dalle piccole bugie bianche ad arrivare alle bugie troppo grandi. E quella che avevo detto era solo una piccola bugia bianca.
«Perché non dirle la verità?» Ormai non parlava quasi più. Mi faceva così strano vederlo sempre taciturno sul suo letto con un computer intento a fare chissà cosa. Damon era sempre stato un tipo energico, o almeno così lo era due anni fa.
Come ho potuto non notare questi cambiamenti? Me lo chiedevo ogni giorno e mi rinfacciavo da sola quanto fossi stata stupida e cieca nel non vedere il suo malessere.
«Non sapevo che dirle.» Risposi secca girando a destra e imboccando la strada che ci avrebbe condotti dallo studio del dottor Parker. Non vedevo il padre di Luke da tempo e non potevo neanche entrare dentro per salutarlo visto che Damon mi aveva quasi implorato di non seguire con lui le sedute.
Ero così tentata di imporre la mia presenza – volevo essere al corrente di tutto nei minimi dettagli – poi avevo capito che forse era meglio per lui stare solo, prima o poi mi avrebbe chiesto di entrare con lui, no?
«Potevi dirle semplicemente che è tutto uguale a un mese fa.» Disse a muso duro. Inghiottii la saliva e mi morsi la lingua per evitare di dire cose che magari non pensavo neanche.
«Non potevo dirle che…» Non osai continuare perché non l’avevo ancora accettato. Fin’ora mi ero limitata a dirlo a me stessa solo nella mente, ma mai l’avevo detto ad alta voce.
Dire Damon è caduto in una grave depressione mi faceva sentire inutile e dirlo ad alta voce significava ammettere a me stessa di essere stata una pessima sorella.
«Che la mia voglia di vivere è sempre pari a zero?» Provò con un sorrisetto bastardo.
Almeno è ironico. L’ironia era pur sempre un sentimento, no?
«Perché? Perché, Dio mio, non riesci a capire quanto tu sia importante? E quanto sia importante la tua vita?» Diedi un pugno al volante nel moto di rabbia e trattenni una smorfia di dolore.
«Perché non è importante. Sono un fottuto sbaglio, capisci?» Per la prima volta si girò verso di me e mi fissò con i suoi occhi azzurri. Erano leggermente lucidi e mi dissi che avevo visto male, perché non era possibile…Non potevo concepire che Damon stesse per scoppiare e che io non stessi facendo niente per aiutarlo.
«Vuoi continuare a crederlo per sempre?» Chiesi guardandomi intorno alla ricerca di un posto libero dove parcheggiare la macchina.
«Non lo credo. Io lo sono.» E decisi di non replicare più. Perché non potevo farcela a replicare per sempre quello che dice, in quel gioco lui rimaneva sempre il migliore. Per quanto fossimo simili, non sarei mai riuscita a dargli una risposta degna dopo la sua detta n modo fermo e gelido.
«Puoi scendere.» Dissi in un sussurro, indicandogli con un cenno del capo la porta davanti alla quale mi ero fermata.
Il corvino non ci pensò due volte e scese dalla macchina, lo osservai salire i tre scalini e premere il bottone per citofonare allo studio del dottore.
Non appena vidi la porta aprirsi, ingranai la marcia. Prima di lasciar libero il parcheggio diedi un’ultima occhiata a Damon che era ancora fermo lì davanti alla porta, aggrottai le sopraciglia e spalancai la bocca quando lo vidi fare dietrofront e riavvicinarsi alla macchina.
Picchiettò sul finestrino e lo abbassai rivolgendogli un’occhiata incerta.
«Scendi.» Aveva la voce ferma, il suo non era un invito: suonava più come un ordine. Nella mia mente sorrisi, quel suo tono di voce insopportabile e quasi da dittatore mi ricordava troppo il vecchio Damon.
«Accompagnami.» Ripeté addolcendo la voce e guardandomi con i suoi penetranti occhi azzurri. Spensi il motore, alzai il finestrino e tolsi le chiavi dalla macchina. Aprii lo sportello e lo chiusi con forza.
«Sicuro?» Non volevo che si sentisse in obbligo, anche se dai suoi occhi avevo capito che non si sentiva obbligato. Lui voleva solo che qualcun altro lo sentisse, che qualcun altro potesse capire quello che provava.
Ha scelto me tra tanti. Mi dissi mentre un tenue sorriso si faceva spazio sul mio volto. Entrammo dentro e Damon mi condusse verso una porta – probabilmente lì c’era il dottor Parker. –
Rimase lì impalato pochi istanti, iniziando a sospirare pesantemente. Vedendo la sua agitazione, gli strinsi la mano e gli rivolsi un sorriso rassicurante.
Bussò tre volte alla porta e dopo aver udito un flebile «Avanti», la aprì.
Il dottor Parker non era cambiato dall’ultima volta che l’avevo visto: i capelli brizzolati erano solo più corti e poche rughe d’espressione gli contornavano gli occhi. Era impegnato a leggere un libro che posò non appena notò Damon.
«Oh, puntuale come un orologio svizzero.» Gli disse con un mezzo sorriso, il mio sguardo si posò sull’orologio appeso alla parete: segnava le 4.30 spaccate.
«Hai finalmente deciso di portare la tua ragazza.» Continuò squadrandomi pochi istanti con un mezzo sorriso. Probabilmente non si ricordava di me.
Mi squadrò pochi istanti, poi m’inumidii le labbra per parlare ma Damon mi precedette: «E’ mia…sorella.» Gli spiegò serrando la mascella e lasciando la presa sulla mia mano.
«Tu sei la compagna di Luke?» Mi disse porgendomi la mano che strinsi gentilmente. «Mi sembravi un volto familiare.» Prese da dietro la sua scrivania la sua sedia e la posizionò davanti la scrivania.
«Posso rimanere in piedi, grazie. Sedetevi voi.» Dissi con cortesia. Sul suo viso si formò uno sguardo contrariato e iniziò a picchiettare sulla sedia.
Così mi sedetti e il dottore si sedette sulla scrivania: afferrò un taccuino e una penna; poi si girò verso Damon che era seduto su una sedia rossa bordò e guardare il soffitto.
«L’ultima volta ti avevo chiesto di scrivere o di appuntare qualcosa nei momenti in cui eri più giù…» Ecco perché portava sempre con sé dei piccoli post it. Pensai spostando lo sguardo dallo psicologo a Damon che estrae dalla sua giacca nera diversi fogli pieghettati e rovinati.
«Potrei leggerli io?» Chiesi con il cuore in gola. Damon spostò il suo sguardo dal soffitto su di me, non seppi decifrare il suo sguardo. Forse era meglio se non dicevo niente, avevo esagerato con quella richiesta.
Mi aspettavo una reazione sconsiderata che non arrivò: Damon annuì in direzione di Parker che prese un foglio a caso e me lo porse.
Lasciai a terra la borsa e strinsi quel pezzo di carte tra le mani tremanti. Mi schiarii la gola e decisi di leggere.
«Mi sembra di vivere in una stanza buia, aspettando che qualcuno mi trovi per mettere fine alla mia solitudine.» Lessi quelle righe con incertezza e con la voce che mi tremava. Rivolsi un’occhiata a Damon che non mi stava neanche guardando: il suo sguardo era puntato sul soffitto ma i suoi occhi erano chiusi.
«Mi piacerebbe chiudere gli occhi solo per un minuto, sapendo di non poterli più riaprire.» Sospirai e alzai gli occhi al cielo, cercando di trattenere le lacrime. Era sempre stato difficile trattenere le lacrime, perché sentivi la gola bruciarti, gli occhi ti sembrano umidi e pensi che le lacrime possano fuoriuscire da un momento all’altro, ogni muscolo del tuo corpo si irrigidiva per evitare di crollare.
«L’inutilità porta il mio nome. La stupidità porta il mio cognome. La tristezza porta il mio volto.» Avevo la tentazione di accartocciare il foglio che avevo tra le mani e farne coriandoli degli altri.
Leggere quei pensieri così tetri mi trasmettevano troppa inquietudine e un pensiero dentro di me si faceva strada velocemente, mentre vedevo tutto annebbiato realizzando il tutto.
Iniziai a pensare il peggio e deglutii a vuoto più volte.
Aveva mai tentato di uccidersi? Mi chiesi. Damon aveva il volto scavato da profonde occhiaie e non parlava, teneva gli occhi serrati e delle piccole rughette si erano formate agli angoli della bocca. Le mani erano chiuse a pugno e le nocche era tremendamente bianche.
Stava maledettamente male. Soffriva per qualcosa che né io né la mia famiglia né il medico potevamo capire perché lui era troppo occupato a chiudersi in sé stesso per aprirci e farci partecipi del suo dolore.
«Leggine  un’altra.» Mi incoraggiò il dottor Parker questa volta con sguardo serio. Decisi di scegliere qualche altro pensiero di un altro foglio. Presi un piccolo post it, dove la scrittura era piuttosto indecifrabile.
«Non condivido il mio dolore non perché non voglio la loro comprensione, ma perché non voglio trascinarli nel mio personale tunnel degli orrori.» E forse questa era stata il colpo di grazia. Il colpo più duro che potesse sferrarmi, che potesse sferrare a me e alla sua famiglia.
Fin’ora avevamo pensato che non riuscisse ad aprirsi perché troppo spaventato o troppo chiuso, avevamo tutti pensato che non fosse in grado di parlarci di quello che stava affrontando. No. La realtà era che lui riusciva a parlare dei suoi problemi, non voleva immischiarci. Pensava, nella sua mente contorta, che se si fosse aperto saremo stati bloccati nel suo inferno; non sapendo che il suo silenzio era un inferno.
«Damon, pensi che tua sorella non voglia essere trascinata nella tua situazione?» Gli chiese il medico, togliendo il tappo dalla penna e preparandosi a scrivere ciò che avrebbe detto.
«Penso che lei voglia immischiarsi fin troppo in questa situazione.» Deglutii e sospirai, mi conosceva troppo bene. «Il punto è che non voglio toglierle il sorriso.» Continuò.
Aprii la bocca, ma mi zittii non appena vidi lo sguardo di ghiaccio che mi rivolse Parker.
Mi morsi la lingua ed evitai di replicare.
«Perché pensi che tu possa toglierle il sorriso?» Gli chiese, continuando a scrivere chissà cosa su quel maledetto block notes. Io ero rimasta immobile su quella sedia: la schiena aderiva alla pelle blu che la ricopriva, le gambe accavallate, la mano sinistra stringeva i fogli spiegazzati e l’altra arricciava convulsivamente le punte.
«Perché l’ho già fatto in passato.» Rispose duro.
«E perché l’hai fatto?» Mi irritava notevolmente il tono con cui gli parlava: sembrava stesse parlando ad una persona con problemi mentali, con quel suo stupido ed insopportabile tono pacato sembrava volesse minare alla sua calma.
Voleva una reazione sconsiderata per studiarlo meglio. Detestavo gli psicologi, non mi scordavo le sedute con MaxField avute anni prima, non mi scordavo il suo tono insopportabile.
Gli psicologi erano persone tremendamente subdole, volevano studiare la psiche delle persone che li circondavano ma non capivano che le persone non andavano studiare come animali.
Le persone andavano capite, non studiate. E il dottor Parker ora mi stava dando l’impressione che cercasse di punzecchiarlo per farlo scoppiare, anche se avevo la netta sensazione che sarei scoppiata prima io di lui.
«Perché volevo farla soffrire come lei ha fatto soffrire me.» Colpo al cuore.
Sin dalla prima volta che l’avevo rivisto – alla pista di motocross – avevo capito che qualcosa si era inclinato, che lui aveva covato troppo rancore e che lo stesse coltivando male, in cattività.
«E ci sei riuscito?» Serrai la bocca e inclinai la testa in attesa di una risposta.
«All’inizio no, anzi si divertiva quando la punzecchiavo.» Si fermò un attimo per prendere aria. «Lei si divertiva, io mi sentivo inutile ancora di più.» Più io mi divertivo, più lui si sentiva inutile perché non riusciva nel suo intento.
Era completamente pazzo. Non riuscivo a pensare ad altro.
«Credo che volevo farla soffrire più che altro per dimostrare a me stesso che potevo fare qualcosa, che potevo riuscire in qualcosa.» Spiegò, alzando lo sguardo. Puntò i suoi occhi nei miei. Il suo sguardo parlava da solo, sembrava si stesse in qualche modo scusando per quello che aveva cercato di fare.
«E ci sono riuscito, non volontariamente.» Sia io che il padre di Luke non riuscimmo a comprendere questa sua affermazione.
«Lei sta soffrendo ora. Perché sto soffrendo io.» Sentivo un vuoto all’altezza del petto. Non capivo da cosa fosse caratterizzato, non capivo da cosa fosse causato. Io lo odiavo, l’avevo sempre odiato. Il nostro rapporto è sempre iniziato dall’odio.
Sin dalla prima volta che lo vidi a casa mia che rideva e scherzava con Stefan e papà. Era stata una scintilla di odio a far innescare tutto e a chiudere il tutto era stata una scintilla di pazzia.
Ora invece non capivo più da cosa fosse mosso tutto. Non era l’odio che mi muoveva, non aveva senso preoccuparsi per una persona in questo modo.
Non mi preoccupavo per lui in modo ossessivo come due anni fa. Era questa la cosa che mi faceva sentire meno strana, non avvertivo più il senso di colpa per quello che facevamo. Non ero mangiata dalla consapevolezza di coltivare un amore malato e malsano con mio fratello.
Cosa mi sta succedendo? Mi chiesi in quel momento, rendendomi conto di come la situazione fosse cambiata. Era partito tutto dall’odio e ora a cosa eravamo arrivati? Non c’era più odio da parte mia e aveva veramente troppa paura per capire e scavare nel profondo dei miei sentimenti. Non avevo la forza di classificare questo sentimento sotto un nome per paura di dargli il nome sbagliato.
Due anni fa ero convinta fosse amore, poi avevo capito che era solo ossessione e desiderio di qualcosa di proibito…Ora cos’era? Dovevo rischiare e affibbiare a questa cosa che provavamo un nome, magari sbagliato?
«E non è come lo immaginavo. Vedendola soffrire per me, mi sento solo più inutile. Ho pensato di morire, di farla finita a questa noiosa monotonia…» Con il cuore in gola distolsi lo sguardo dai suoi occhi. Perché dai suoi occhi potevo realmente capire se era tutto finito o no, se c’erano ancora speranze o no.
«Cosa ti ha fermato, Damon? DILLO AD ALTA VOCE.» Lo incoraggiò Parker posando finalmente il taccuino ed alzandosi da sedere. «Tenendo tutto dentro non concluderai niente.»
«Mi ha fermato la consapevolezza di avere tra le mie mani non solo la mia di vita, ma anche un’altra.» Mi ritrovai a sorridere alla sua affermazione, io l’avevo fermato. Avevo evitato di fargli fare una cazzata, un peso in meno sul mio cuore.
«Un momento…» In un batter d’occhio, Parker aveva ripreso il suo taccuino e aveva ricominciato a scrivere velocemente.
«Sto dicendo che se sono ancora vivo è solo perché non voglio far soffrire mia sorella Elena. Perché lei mi ha affidato più di una volta la sua vita, anche ora le nostre vite sono indissolubilmente legate. E non ho intenzione di fare stronzate, le è chiaro?» Grugnì infastidito.
Non riuscivo a descrivere esattamente cosa stessi provando: forse felicità? O una malinconia mal celata? Non ne avevo idea.
«E perché non hai intenzione di fare stronzate?» Mi irritai ancora di più a quella domanda. Non pensavo che in queste sedute lo psicologo avesse una certa confidenza con il paziente.
«Perché è mio sorella…» Iniziò incerto. «E la amo.» E la amo. Porca puttana, l’ha detto veramente. Un sorriso spontaneo si formò sul mio volto.
Anche io, Damon. Mimai con le labbra.
«Lei ha bisogno di te…Questo non è un buon motivo per restare un giorno in più?» Damon serrò gli occhi e non rispose. Rimanemmo in silenzio per una manciata di minuti.
Damon aveva le mani fra i capelli e li stringeva e tirava come un tic, gli occhi serrati da cui potevo intravedere delle piccole lacrime che cercava di trattenere.
«Ti prego…» Mormorò a bassa voce. «Falla uscire da qui…Ti prego…» Voleva che me ne andassi via, non era pronto per avermi con sé durante una seduta.
«Damon, Damon non mi chiudere fuori…Posso capirti…» Bugie, solo bugie. Non potevo capirlo se non mi rivelava il motivo per il quale si sentiva così solo e triste. Non potevo farcela, non potevo neanche sforzarmi a capire qualcosa che non sapevo.
«Ti scongiuro, Elena, va via.» Sputò fuori ogni parola lentamente e il mio cuore batteva più velocemente. Il dottor Parker mi guardava con aria di disapprovazione e si alzò dalla scrivania.
Di scatto mi alzai anch’io dalla sedia.
«Elena, ti invito ad uscire.»
«E’ mio fratello, ha bisogno di me.» Replicai avvicinandomi a lui. Damon non mi rivolgeva la parola, teneva le mani sulla testa e cercava di nascondere il volto.
«No, Elena.» Il dottor Parker si tolse gli occhiali e sospirò. «Ha solo bisogno di libertà. Qui con te si sente oppresso.» Lo opprimevo. Mi morsi la lingua per evitare di replicare con qualcosa di offensivo e afferrai la borsa.
«Me ne andrò solo quando me lo dirà Damon.» Fammi rimanere qui con TE. Dovevo rimanere con lui, era mio fratello e aveva un chiaro bisogno di me.
Ora era solamente nella fase della negazione, pensava che aprirsi con me fosse un segno di debolezza.
«Elena, vai. Se mi ami come dici, vai via da qui.» E con quelle parole non riuscii più a replicare.
Se mi ami come dici, vai via da qui. Dovevo farlo, solo per dimostrargli che quello che provavo era più forte della mia testardaggine.
Afferrai la borsa e me ne andai da lì, sbattendo la porta.
«Come vedi, ti amo abbastanza.» Grugnii a bassa voce.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 




Posto oggi perché domani partirò e starò via per un paio di giorni.
Sono veramente contenta che questa storia vi abbia conquistato a tal punto da seguirla anche a distanza di mesi, ora prometto che aggiornerò più assiduamente – non vi do appuntamenti perché ho paura di non mantenerli.
In tutti i casi, il capitolo di oggi è più che deprimente…E oddio scusatemi se è uscito così lungo e se vi mette tristezza ma non riesco a scrivere altro. Comunque vediamo che ci sono molti progressi tra i due, già dicono di amarsi (come fratelli…Poi ognuno lo può vedere in modo diverso.), abbiamo anche visto come Damon vede il mondo…E tutte le frasi dei pensieri di Damon sono farina del mio sacco – magari vi chiederete che razza di mente mi ritrovo, beh non lo so neanche io.
Vi ringrazio per tutto, per le recensioni, per come seguite la storia, per le visualizzazione. Veramente non so cosa dirvi, vi dedico questo capitolo – probabilmente uno dei pochi che m convincano abbastanza.
Comunque questi capitoli malinconici escono quasi da soli, se vi turbano o vi turbano questi argomenti potete dirmelo senza problemi e cercherò di ‘contenere’ queste mie idee.
Spero di sentirvi nelle recensioni.
Buona Pasqua, splendori.
Non ti scordar di me.
 
 
 
 
  
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