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Autore: Feynman    05/04/2015    2 recensioni
Doveva essere una cena fra vecchi compagni di classe del liceo, dopo vent'anni di buio.
Noemi, Massimo e Alberto, sono gli unici che sono rimasti insieme - nonostante il tempo dell'adolescenza fosse passato.
Tra vecchi ricordi, bicchieri di vino, litigi idioti, amori del passato e ritorni di fiamma, un sabato sera qualunque può cambiare intere vite.
***
Forse, si dice, avrà anche lui la sua possibilità di rivivere l’adolescenza, ma non è ancora arrivato il tempo: Giulia ha bisogno di lui, non di un sedicenne con l’acne che le dica di buttarsi nel fiume, per dimostrare di valere qualcosa.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Rootless tree



 
 
 
Teresa aveva litigato con le compagne del suo gruppo, perché la sera precedente aveva preferito rimanere in camera sua piuttosto che andare a fumare marijuana in quella che condividevano Massimo e Alberto; e così, in giro per i corridoi, aveva incontrato Noemi che stava giocando a scacchi contro se stessa.
«Stai vincendo?» le aveva chiesto, rimanendo in piedi e abbastanza lontana da quella belva avvolta nella flanella verde pisello.
«La mia avversaria è intelligente» le rispose Noemi, alzando gli occhi verso la poltrona occupata dall’aria. Teresa si ritrovò a pensare che la sua avversaria doveva essere intelligente sul serio: nessuno poteva vincere contro Noemi se non lei stessa.
«È un gioco noioso».
«È un gioco di pazienza e di strategia» le disse, senza guardarla. «Quindi sì: per molti è un gioco noioso» sorrise, alzando lo sguardo.
Teresa aveva visto pochi occhi, belli quanto i suoi. Aveva gli occhi azzurri, aperti e sinceramente stupiti da tutto ciò che vedeva. Noemi, invece, li aveva scuri come… come la terra bruciata. Noemi sapeva di fuoco, fumo e distruzione.
«Quindi perché ci giochi, se sai che è noioso?» chiese Teresa, sedendosi sulla poltrona di fronte a Noemi e schiacciando l’invisibile avversaria della ragazza.
«Il gioco degli scacchi è un modo per aumentare le capacità deduttive, anche se è praticamente impossibile prevedere che mossa farà, l’avversario».
«Sherlock Holmes e il professor Moriarty-»
Noemi, improvvisamente, mise due dita sulle labbra di Teresa e puntò, di nuovo, le sue iridi profonde e spaventose nelle sue. «Tu hai visto Gioco di ombre?». Noemi, mentre formulava la domanda, pensò che Teresa l’avrebbe presa per stupida. Magari aveva capito male lei e non aveva detto, davvero, “Sherlock Holmes e il professor Moriarty” ma “nell’ultimo Harmony” o “hai visto Anthony” – anche se ignorava l’esistenza di Anthony.
 
«Certo che l’ho visto!» rispose piccata Teresa, togliendo la mano di Noemi dalla sua bocca. «Robert Downey Junior è un figo pazzesco!». Scoperto l’arcano, pensò Noemi, «e poi ho letto tutti i libri di Conan-Doyle» finì Teresa, incrociando le braccia al petto.
Forse l’ho offesa, pensò Noemi per un attimo, dopo aver spostato lo sguardo sull’entrata del corridoio. Poteva tranquillamente affermare, che quella fosse l’unica conversazione più o meno pacifica che avesse intrapreso con Teresa, da quando si conoscevano.
 
Non aveva un carattere semplice, la Iannone. Noemi, poi, la sopportava poco perché tendeva a rendersi più stupida di quanto non fosse, in realtà, solo per essere accettata da quella banda di oche che le andavano dietro.
 
«Come mai non sei con Carlotta e le altre?»
«Abbiamo discusso» tagliò corto Teresa, rincorrendo gli occhi di Noemi senza farsi notare.
«Sono capaci di sostenere un conversazione, allora» sputò l’altra, con cattiveria per poi pentirsi; erano le amiche di Teresa e non era stata una mossa intelligente, insultarle. «Scusa, non avrei dovuto…».
«No, hai ragione. Sono quattro stupide… ma sono le uniche cose che ho» le confessò Teresa, trovando finalmente gli occhi di Noemi.
«Potresti ambire di più».
«E a cosa?».
«Potresti avere me, ad esempio».
 
 
 
Sicuramente non se l’era immaginata così, la serata.
Aveva portato del vino, come fa ogni buon invitato a una cena. Non considerava Massimo, un vecchio amico e niente – neanche in passato – l’aveva avvicinata lui. Nemmeno quando le condizioni si erano fatte favorevoli perché, semplicemente, non ce n’era stato il tempo.
 
Non si stupì nel vedere che Noemi non aveva cambiato casa, col tempo. Era sempre lì, in via Giacomo Leopardi, a due passi dalla metropolitana e un po’ di più dall’università, quella che lei aveva deciso di non frequentare.
La donna, sul marciapiede, guardava distrattamente quell’unica luce accesa, sulla facciata del palazzo – un solo dente rimasto, sulle gengive arrossate e invecchiate dal tempo. Teresa sa che Noemi, in quel palazzo, c’ha trascorso un’intera vita e anche se continuava a dire di volersene andare, di cambiare vita, di fare un colpo di testa al lavoro, era ancora lì e lottava come quella leonessa che era.
Teresa sorride, a quella luce solitaria sulla facciata del palazzo e decide di abbandonare il fianco della macchina, attraversare il marciapiede e suonare a quel campanello – il terzo, dal basso. Il nome di Noemi è sbiadito e solitario, segno che non c’è ancora nessuna nella sua vita – Teresa sorride, perché forse è rimasta l’unica.
 
«Sì?» risponde Noemi. Teresa se la immagina: sicuramente si sarà già sbarazzata del reggiseno e delle calze, avrà indossato subito un paio di pantaloncini corti e avrà sciolto i capelli da quella coda costrittiva e severa, che portava a casa di Massimo.
 
Quando si erano viste, l’ultima volta – un’era geologica fa, si ritrova a pensare Teresa – Noemi non era cambiata per niente, dall’incostante e lunatica liceale che era. A casa di Massimo, invece, l’aveva trovata incredibilmente diversa con quei suoi pantaloni classici dalla piega dritta, con i capelli castani – una volta ribelli – tirati indietro e la camicia bianca, dal taglio maschile, chiusa fino al collo. Chissà quanto Noemi l’avrà trovata cambiata, lei. Chissà se anche il suo cuore ha mancato un battito, quando l’ha rivista alla porta di Massimo. Chissà cosa avrà pensato.
 
«I testimoni di Geova hanno cambiato orario per la conversione delle anime?» Noemi stava iniziando a spazientirsi. Teresa si rese conto che non sapeva per quanto tempo fosse rimasta a fissare in nome di Noemi, sul citofono, senza proferire parola.
«Sono Teresa».
«Ah» disse la voce dall’altra parte. «E che vuoi?».
Teresa sollevò un sopracciglio e cercò di non offendersi, per il tono che aveva usato Noemi. «Non vuoi farmi entrare?» chiese lei, abbassando la voce il più possibile.
Dal citofono arrivava solo il respiro calmo e regolare di Noemi.
Teresa la immaginò mordersi l’unghia del pollice – chissà se lo faceva ancora – che era sempre più lunga delle altre, perché doveva suonarci la chitarra e odiava i plettri.
«Va bene, sali» si arrese, dopo attimi di attesa infinita. «La strada la conosci».
 
La “strada”, la conosceva fin troppo bene; nessuno aveva mai saputo che Noemi, a due settimane dall’esame di maturità, le aveva dato piccole ripetizioni di matematica e che l’aveva aiutata a portare a termine la tesina. Si erano avvicinate dopo il campo-scuola a Berlino – il famoso viaggio della maturità della 5F – e da lì, ogni tanto uscivano insieme all’insaputa di tutti – o meglio, all’insaputa delle amiche di Teresa.
Noemi aveva una reputazione da mantenere, ovviamente, tra i cortili del liceo scientifico, ma a lei poco importava con chi passava il suo tempo: finiva per isolarsi comunque. Quindi non aveva importanza se mangiava il gelato con lei, se si faceva accompagnare a fare acquisti in via del Corso – Noemi non era mai d’accordo –, se la costringeva a tenerle la tendina del camerino quando si cambiava.
Poi, quando uscivano dall’ennesimo negozio uguale al precedente, Noemi la spingeva verso la Galleria Alberto Sordi, non per altri vestiti ma per la Feltrinelli, all’interno. La portava, poi, in via Nazionale per un altro giro finché, troppo stanche anche per pensare, prendevano la metropolitana, trascinandosi dietro troppe buste.
Ogni sabato la stessa storia. Il pomeriggio con Teresa, la sera con Massimo e Alberto. Noemi, per colpa sua, aveva iniziato ad avere una seconda vita – come lei, d’altronde.
 
Teresa si lasciò l’androne alle spalle, ignorando la portinaia che le chiedeva dove pretendeva di andare a quell’ora, e percorse l’elegante scala a chiocciola che si arrotolava attorno al vano ascensore – irrimediabilmente rotto da vent’anni.
Noemi la stava aspettando sulla porta, proprio come se l’era immaginata: pantaloncini corti per combattere la calura estiva romana, capelli liberi di inondarle le spalle e gli occhi sospettosi di chi non sa cosa aspettarsi. Non ha la stessa postura di quando sei entrata in casa di Massimo; adesso è appoggiata, morbidamente, allo stipite della vecchia porta e ti osserva, ti studia come quando eravate due ragazzine e tu sei andata a suonare a casa sua per chiederle una mano – perché altrimenti, il quinto superiore l’avresti dovuto ripetere.
 
«Perché?».
«Mi avevi promesso una serata assieme». Teresa rimase sul pianerottolo; non azzardò nemmeno un passo, in direzione di Noemi. Sapeva come andava trattata e sospettava che non fosse poi tanto cambiata, anche con il passare degli anni.
«Te l’ho promessa diciassette anni fa».
«Non credi sia arrivato il tempo della riscossione?» le chiese Teresa, sorridendo leggermente e atteggiandosi da donna coraggiosa. Aveva visto la guerra, laggiù in Afghanistan. Aveva sparato. Aveva ucciso… non ne andava fiera, ma era il suo lavoro.
Noemi era stato il suo primo Afghanistan; aveva fatto pratica con lei.
«Chi ti dice che non sia già impegnata?».
«Sei impegnata?».
«No» rispose Noemi. «E chi ti dice che non stia mentendo?».
«Noemi Cascione non racconta cazzate. Quello è il compito di Alberto».
 
Noemi si allontanò dallo stipite e lasciò il passaggio libero. Disse a Teresa di passare, di entrare dentro casa e di sistemarsi come meglio credeva, senza usare neanche una parola. Glielo disse con gli occhi e l’altra annuì, entrando in quello che era stato il palcoscenico di un’intera estate di una seconda vita che nessuno, tranne loro due, aveva vissuto.
 
La casa aveva conservato quel leggero sentore ottocentesco che la madre di Noemi – Maria Aventi – quando era in vita, aveva amato tanto. Maria era stata una delle donne più forti che Teresa, in vita sua, avesse mai conosciuto: aveva superato il dolore di un divorzio, l’umiliazione di un tradimento ed era riuscita a non morire cinica. La madre di Noemi era morta credendo nell’amore per la vita e pregando affinché quella figlia tanto particolare, trovasse tutto ciò che lei non aveva mai avuto.
Sul lungo corridoio, si affacciavano tutte le stanze della casa; la cucina si trovava esattamente dal lato opposto all’ingresso ed era collegata con il salotto, a destra e con lo studio, a sinistra. Le prime stanze che si incontravano erano le due camere da letto – una accanto all’altra – e il bagno.
Le pareti erano state pitturate di azzurro cielo ed erano invase da riproduzioni di famose opere d’arte, stampe architettoniche d’epoca e intricate costruzioni geometriche rinascimentali. La casa, adesso, era la fedele riproduzione del cervello di Noemi, pensò Teresa.
«Mi piace come l’hai arredata».
«Non condividevo con mia madre l’amore per l’occulto e tutte quelle altre… cose».
«Me le ricordo le… teste vodoo».
«Tsantsa. È così che si chiamano. In realtà ne ho ancora qualcuna, ma le tengo ben nascoste».
«Tua madre nemmeno ci provava, in realtà; le aveva appese sopra la porta, da quel che mi ricordo» sorrise Teresa, al ricordo di quelle piccole testoline.
«Sosteneva tenessero lontani i preti, i bigotti e suo marito» ricordò Noemi, facendole strada verso la cucina.
La donna aprì il frigo e prese un paio di birre senza chiedere a Teresa se ne volesse una. Le aprì, velocemente, usando il lato del vecchio tavolo di legno e gliela porse. «Se vuoi rimanere, ti tocca farmi compagnia».
«Mi è sempre piaciuto bere in tua compagnia».
«Non sempre» volle puntualizzare Noemi, scostando una sedia e sedendo a cavalcioni.
«Già, non sempre» sussurra Teresa, prendendo un sorso dalla bottiglia di vetro. «Sembra essere passato un sacco di tempo, vero?».
«È passato un sacco di tempo, Teresa».
«A me sembra ieri» confessa la donna, cercando gli occhi di Noemi.
 
Stavolta le sta chiedendo esplicitamente di guardarla, a sua volta. Teresa e Noemi non sono più due diciottenni spaventate dal corso degli eventi e dalle loro stesse ammissioni. Questa sera, Teresa sa cosa sta facendo. In questa notte estiva, sa cosa sta desiderando e Noemi lo capisce – perché Noemi è sempre stata più intelligente delle altre – però non si muove da lì; non si alza dalla sedia, non si protende verso Teresa, non le chiede niente – neanche con gli occhi –, perché è finita quella seconda vita in cui passavano i pomeriggi a letto, pigramente abbracciate e deliziosamente nude con la paura perenne che la madre di Noemi le scoprisse – perché Maria sapeva che la figlia era omosessuale ma lo studio, veniva prima di tutto – e allora ripassavano formule matematiche, Ungaretti e Nietzsche con il fiatone, il sudore che si raffreddava sulla pelle e a voce alta affinché Maria le sentisse e non sospettasse niente.
La camera arancione di Noemi, era il loro piccolo angolo di paradiso dove la realtà si confondeva e il tempo diventava relativo sul serio. Erano talmente dentro la rete temporale da riuscire a scherzare con James Joyce e litigare con Montale, come se fossero lì – come se tutto l’Universo fosse prigioniero di quelle quattro pareti arancioni.
 
A diciott’anni era stata Noemi a prendere in mano la situazione. Era lei che aveva fatto capire a Teresa quanto fossero invischiate in quella storia che, in tre settimane, era diventata già quel qualcosa in più. Teresa, allora, le aveva urlato addosso che era stata sua, la colpa; che lei l’aveva corrotta con i suoi modi da strega atea e che sua madre, con le sue teste vodoo, l’aveva avvelenata per poi abbracciarla stretta e piangerle addosso tutta la paura che aveva – perché Teresa era vergine col cuore, tanto non lo era più col corpo.
 
A trentanove anni, Noemi ha capito che fare i Primi Passi non conviene mai. È stata lasciata troppe volte, perché è stata la Prima Volta di qualcuno ed è stufa di venir abbandonata nel nome dell’Esperimento – quegli stessi esperimenti che lei venera e che porta avanti con tenacia e passione. Per tutti questi motivi – e molti altri –, Noemi non si muove e smette anche di bere quella birra che in realtà non voleva, ma le serviva per nascondere il tremolio alle mani.
Teresa capisce un attimo dopo averglielo chiesto con gli occhi, che l’altra non intende far nulla. Le sta lasciando, di nuovo, il risultato della partita: sta a lei decidere come deve finire – come l’altra volta.
 
Teresa si alzò, lasciando la bottiglia sopra il tavolo e si avvicinò, lentamente, a Noemi che, nel mentre, aveva indietreggiato col busto. I capelli, scivolandole sulla schiena, le avevano lasciato il collo scoperto; Teresa si ricordava bene quanto profumava quel lembo di pelle: fumo, arance e un leggero sentore di sudore. Aveva amato leccare quel pezzo di lei, fin sotto l’orecchio e sentire, dentro lo stomaco, quanto la facesse sentire potente quando Noemi si lasciava andare ai gemiti, dimenticando qualsiasi nozione appresa sul Super-Io.
 
Teresa, questa notte, non ha più diciotto anni e sa che quello che sta per fare è pericoloso – pericoloso per lei, pericoloso per i ricordi che il respiro ansante di Noemi le sta riportando alla mente, pericoloso per tutto quello che c’è stato e che forse, per una notte, potrebbe tornare a vivere – ma non indietreggia, perché Noemi è stata il suo primo Afghanistan e l’ha lasciata – così come ha lasciato quello vero.
Teresa continua ad avanzare e vorrebbe inchiodare Noemi, a quella sedia di legno. Vorrebbe vederla pregare, per un suo bacio come lei la supplicava di toccarla e di farla sentire viva, in uno di quei pomeriggi di fine maggio. Ma Noemi non supplica, non lo ha mai fatto, però decide di rimanere inchiodata alla sedia e di aspettare qualsiasi cosa decida di fare Teresa perché lei si è sempre fidata.
Teresa le passa una mano sulla nuca, in mezzo ai capelli, e li tira indietro esponendo il collo, leggermente olivastro, di Noemi e le sussurra: «Voglio sentire se davvero non hai cambiato profumo» e la lingua della donna impatta sulla pelle dell’altra e Noemi sospira, leggermente, accorgendosi di andare incontro alla bocca di Teresa.
«È sempre quello che piace a te» le risponde, cercando di mantenere il controllo su se stessa. Ha la pelle d’oca, Noemi, mentre Teresa inizia a suggerle quella striscia di pelle dietro l’orecchio, per poi passare a tormentarle il lobo. E Noemi inizia a mugolare, perché Teresa sa quanto sia sensibile e quanto abbia odiato che lei l’avesse scoperto così presto, allora.
«Ti sei mantenuta sensibile, Noemi» sorrise Teresa, soddisfatta di quella piccola riscoperta. Noemi, stufa di quella posizione da sottomessa, si alzò velocemente e la fece stendere, con una leggera spinta, sopra il tavolo della cucina. «Adesso sì che ti riconosco, Tigre» le sussurra Teresa, un attimo prima che Noemi decida che è il momento di finirla di prendersi in giro; posa le labbra su quelle dell’altra dandole un bacio che sa di birra, fumo e arance – perché l’odore di Noemi è rimasto quello, anche a vent’anni di distanza.
È un semplice sfiorarsi, all’inizio, che poi si trasforma in un bacio fatto di saliva, morsi e respiri presi di corsa. Teresa assaggia Noemi; Noemi beve Teresa, ed è come se fossero tornati i pomeriggi di maggio.
 
Noemi sfilò la camicia di Teresa dai pantaloni classici e porta la mano sull’addome percorrendo la linea degli addominali disegnati; le dita corrono fino al reggiseno e le braccia tirano sempre più su la stoffa, scoprendo altra pelle. Infila, prepotentemente, la mano sotto il ferretto e afferra un seno, stringendolo piano sentendo Teresa, sotto di lei, sempre più bisognosa d’aria. Le lascia andare la bocca, mentre inizia a sbottonarle la camicia e a fargliela scendere sulle spalle, scoprendole.
Teresa afferra la maglietta di Noemi e gliela sfila dalla testa, scoprendola orgogliosamente nuda. L’altra era sempre stata più in carne, di lei. Teresa aveva sempre curato la sua forma fisica ma aveva scoperto che amava le morbide fattezze di Noemi e che adorava morderle la pancia, vicino all’ombelico ben disegnato. Le prese fra i denti quel pezzo di pelle e lo strinse, un poco, fra gli incisi appuntiti e poi ci passò la lingua, attenuando il bruciore del morso, lasciando che Noemi le gemesse fra i capelli.
Noemi tolse il reggiseno a Teresa, gettandolo a terra e spingendola sul tavolo, in modo che fosse completamente sdraiata.
«Pensi terrà?».
«Da quando ti interessano i dettagli tecnici?» le chiese Noemi, iniziando a succhiarle un capezzolo.
«Da quando… da quando non ho più vent’anni».
«Fidati, Teresa, e spegni il cervello» le ringhiò contro Noemi, iniziando a toccarla con veemenza crescente. «E poi, sicura di voler arrivare fino in camera da letto?».
Teresa gemette solamente, in risposta alla domanda di Noemi che si poté considerare soddisfatta: era l’unico modo che conosceva, per far azzittire l’altra.
«E pensare, che tutti credevano che ti dessi da fare coi professori, Teresa».
«Sta’ zitta e baciami, Strega» le ordina, graffiandole la linea della mascella con i denti.
 
Noemi la bacia di nuovo, come se non le bastasse mai. Le dirà, quando saranno troppo stanche anche per pensare, che sarebbe inutile sprecare altro tempo a ignorare quello c’è sempre stato tra loro. Le dirà che è stata stupida, a vent’anni, quando decise di lasciarla andare a farsi ammazzare dai talebani; le dirà che ha vissuto col terrore di non poterla rivedere più perché un proiettile gliel’avrebbe portata via, quando finalmente era riuscita a catturarla fra le dita.
È per questo – e per tanti altri motivi – che Noemi diventa prepotente e le afferra le spalle, con forza, mentre le accarezza il palato e le morde le labbra; e Teresa, per paura di non vederla mai più, l’aiuta a sbottonarle i pantaloni e le allaccia le gambe dietro la schiena: ha bisogno di sentirsela dentro – col corpo, con la bocca, con le dita, con la mente. Sente il bisogno di venir posseduta da Noemi, come vent’anni fa – perché è di nuovo estate e fuori fa caldo.
 
Teresa urla, sulle labbra di Noemi.
Noemi trema, fra le gambe di Teresa e le sfiora le scapole come a voler carezzar le ali di una farfalla, per impedirle di volare – di fuggire.
Teresa vorrebbe piangere e invece inizia a ridere, sempre più forte. Ride di lei, di Noemi, di Alberto e di tutta la 5F. Ride, pensando al fatto che nessuno ha mai capito che l’unica persona che ha mai amato è stata Noemi, che adesso le respira addosso e riprende fiato annusando quel buon odore di violette e burro di cacao che mi mescola alle arance e al fumo.
Noemi si alza dal tavolo, rimira la figura di Teresa, mollemente sdraiata sotto di lei, completamente nuda e con la pelle cosparsa di sudore. Le porge una mano, per aiutarla ad alzarsi – perché non hanno più vent’anni – e le sorride. «Rimani a dormire?».
«Ho bevuto troppo per rimettermi a guidare».
«La sicurezza, prima di tutto» e si ritrovano a ridere, insieme. 





 




**Angolo Autrice**

Un altro capitolo e la storia si chiude. 
Ve l'avevo detto che erano tre XD. 
Sperando che possa essere di vostro gradimento, vi aspetto al prossimo capitolo. 

Feynman
   
 
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