Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Alaska__    06/04/2015    1 recensioni
( • Long • OCs • District 6 • 56th Hunger Games • )
Cinquantadue anni dopo i Giorni Bui l'idea di rivolta sembra quasi un'utopia. Il popolo di Panem è straziato, piegato sotto i macigno del regime di Snow, costretto, ogni anno, ad assistere a ventiquattro ragazzini che si ammazzano l'un l'altro in un'Arena.
Eppure, nel Distretto 6, uno dei più dimenticati della nazione, qualcosa sta nascendo, grazie a quattro ragazzini stanchi di vedere il loro popolo costretto a tanto dolore e desiderosi di vendetta.
Questa è la loro storia.
È la storia di Franziska e Igor, i due gemelli che vogliono assicurare un futuro migliore al loro fratellino; di Aaron, i cui genitori sono stati giustiziati pochi giorni dopo la loro misteriosa fuga dal Distretto 6; di Jimmy, il figlio del sindaco, stanco del regime oppressivo di Capitol City e desideroso di poter avere un vero rapporto con suo padre.
Sono quattro ragazzini che si sentono invincibili, che sanno di poter cambiare le sorti di Panem. Ma il male c'è sempre, ed è dietro l'angolo e loro dovranno affrontare mille ostacoli.
Nel frattempo, le Mietiture si susseguono, una dopo l'altra... e le loro vite potrebbero cambiare. Per sempre.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks. '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A




 
CAPITOLO VI
 
Chocolate
 
 
« Un colpo secco li fece sobbalzare tutti quanti. Il professor Lupin stava spezzando un’enorme tavoletta di cioccolato.
“Tieni” disse a Harry, e gliene tese un pezzo piuttosto grosso. “Mangia. Ti farà bene”. »
J.K. Rowling; “Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”
 
 
Il giorno dopo, Igor contò i minuti, i secondi che lo separavano dal suo nuovo lavoro, quasi stesse aspettando che arrivasse Natale per scartare i regali. Persino a scuola passò tutto il suo tempo tamburellando con la matita sul banco, o immaginando come sarebbe stato il primo giorno in officina.
Non che ci fosse da esserne allegri, ma una strana euforia aveva pervaso le sue membra non appena si era svegliato, quella mattina.
Il discorso della nonna la sera prima lo aveva turbato ed esaltato al tempo stesso. Malgrado a soli quattordici anni avesse già un’idea chiara di come andasse il mondo, c’era ancora quella stilla di speranza sul suo cuore che non voleva saperne di asciugarsi, quella stilla che gli faceva sperare in un mondo nuovo e migliore.
Stare a scuola, tuttavia, lo deprimeva non poco. L’ambiente non era di certo paragonabile alla lussureggiante villa del presidente Snow che aveva intravisto in tv diverse volte. La classe null’altro era, se non uno spazio di quadrato; quattro grigie pareti che tenevano a bada un manipolo di studenti che sembravano aver voglia di far tutto, meno che stare lì.
Odiava la scuola, Igor, aveva sempre detestato stare lì dentro sin da quando sua madre lo aveva portato per la prima volta. Si sentiva come un animale in gabbia e le inferriate alle finestre non facevano che aumentare quel senso di oppressione che lo pervadeva ogni volta che metteva piede nell’angusta aula riservata alla sua classe.
I suoi compagni, poi, non erano il massimo della libidine. Se non per qualche piccola eccezione – come sua sorella e qualche ragazzo che viveva nelle sue stesse condizioni – gli altri non erano tipi con cui voleva fare amicizia. Sembravano tutti degli zombie, con quelle facce tristi e depresse, quasi più grigie delle mura della scuola. Seguivano tutti la lezione in silenzio, gli occhi persi a fissare qualche punto imprecisato.
Automi. Erano tutti automi comandati dal volere di Capitol City, che li voleva trasformare in robot senz’anima e senza cuore, considerati animali da mandare al macello una volta all’anno, giusto per divertire la Capitale.
E il Distretto 6 non era di sicuro il posto più favorito di Panem, ai Giochi. In tutta la storia degli Hunger Games avevano avuto forse tre, quattro vincitori, di cui solo due erano in vita, ma la loro condizione non lo dava a vedere.
Il suono della campanella interruppe il discorso della professoressa di inglese – ormai divenuto una sorta di mormorio indistinto che produceva sonnolenza immediata in chiunque l’ascoltasse.
Quasi dovesse correre per una gara, Igor si alzò in piedi, scaraventando indietro la sedia e afferrando lo zaino. Gettò dentro le cose alla bell’è meglio, senza curarsi se stropicciava o meno i fogli; al contrario di sua sorella, che ripose le matite nell’astuccio ormai rotto che usava e chiuse i quaderni con cura.
Ogni tanto, Igor invidiava Franziska per quella sua strana fame di conoscenza che aveva. Era intelligente, lei, mentre lui si considerava poco più che un ragazzetto senza molto cervello. Gli capitava di pensare che avrebbe voluto essere come lei, uno studente quasi modello – quasi perché di tanto in tanto, anche sua sorella saltava le lezioni, proprio come lui, e faceva parecchie risse.
«Sbrigati, Lala» la esortò, picchiando con il piede destro a terra. I loro compagni di classe stavano già correndo fuori dall’aula, con gli zaini che sbatacchiavano sulla schiena e i volti decisamente rasserenati rispetto a qualche minuto prima.
«Ci sono, ci sono». Franziska si mise lo zaino in spalla, raggiungendo il fratello, nonché compagno di banco da ormai diversi anni. Igor si rattristò non poco, pensando che qualche anno prima erano in tre, di solito. Lui, Franziska e Nikole, un trio strano, ma inossidabile.
 
«E dai, Dodo! Vieni a fare un giretto con me e Nikole!»
Franziska lo guardava con fare supplichevole, tenendo Deryck stretto tra le braccia. Il bambino stava giocherellando con una ciocca di capelli della sorella maggiore, guardando incuriosito i riflessi dorati prodotti dal sole pomeridiano.
«Non ci penso nemmeno. Io non esco con le femmine!» esclamò il ragazzino, sputando fuori l’ultima parola come qualcosa di abominevole. Gli stava simpatica, Nikole, era l’unica amica che sua sorella avesse, ma non gli piaceva proprio l’idea di stare in giro con due ragazze. C’era Deryck, ma lui aveva appena tre anni, quindi non contava come esempio di maschio.
«Sei solo un vanitoso e fifone!»
Nikole gli fece la linguaccia, ma i suoi occhi color ghiaccio ridevano di gioia e di divertimento.
Igor arrossì furiosamente, distogliendo lo sguardo dalla ragazzina e maledicendosi più volte. Non voleva arrossire davanti a lei – non poteva – oppure avrebbe capito che, sotto sotto, lui aveva una cottarella per lei.
«Non sono vanitoso e fifone! Ho undici anni, presto sarò un uomo… e comunque, vengo, sì» borbottò, iniziando a camminare verso le due ragazzine, che si scambiarono un sorriso radioso.
 
 
*
 
Non gli era sfuggita l’entrata dei gemelli Madison in officina, il giorno prima.
Mentre lavorava, Aaron si era chiesto cosa ci facessero quei due lì dentro. Non gli era mai capitato, - fino a quel momento, almeno - di trovare suoi coetanei al lavoro. I più erano gente che andava in officina per aiutare i propri genitori – come lui con zio Martyn – ma Igor e Franziska erano orfani e vederli lì dentro gli aveva fatto una strana impressione.
Anche io sarei orfano, si ricordò mentalmente, arrossendo leggermente al solo pensiero. Viveva con gli zii, ma non aveva mai dimenticato le sue vere origini, sebbene, di tanto in tanto, gli sembrasse di stare proprio con i suoi genitori.
Brenton, al contrario suo, sembrava portarsi appresso l’assenza di Keira e Jonathan, proprio come un’ombra, e glielo si leggeva in faccia ogni volta che erano tutti a tavola, ogni volta che erano tutti insieme e lui non badava agli altri.
Aaron avrebbe voluto fargli dimenticare tutto quello che era successo loro nella vita, ma sapeva che era impossibile.
Lui non era una gomma. Lui non cancellava nulla, anzi, era forse un pennarello nero per ripassare i contorni e con la sua presenza non faceva che ricordare le due figure genitoriali a Brenton.
 
«Aaron, mi passeresti quel cucchiaio?»
Il bambino – seduto sul tavolo con le gambe a penzoloni – osservava la zia mentre si dedicava alla preparazione di una torta. Erano rari i momenti in cui riuscivano ad avere tutti gli ingredienti necessari, ma quando capitava era una festa.
Stare in cucina mentre la zia lavorava era una delle cose che divertiva di più Aaron, specialmente quando Katy gli dava un po’ dell’impasto da assaggiare e lui faceva finta di essere un buongustaio.
Tese il cucchiaio alla zia, come un ottimo aiutante, e, per ringraziarlo, la donna gli diede un buffetto sul naso, lasciandogli un impercettibile traccia di farina.
«Così mi copri tutte queste lentiggini» commentò il bambino, toccandosi le guance con fare imbronciato. A sentire sua zia, quelle lentiggini erano una delle sue qualità migliori, ma a lui non piacevano. Sembrava che avesse il viso costantemente macchiato, quasi qualcuno si fosse divertito a disegnare dei pallini con un pennarello indelebile.
«A me piacciono! Le hai ereditate da tuo padre».
Il bambino si fece d’un tratto più interessato. Si ricordò all’improvviso che anche suo padre ne aveva, sul viso, proprio come lui.
Il fatto che gli fosse tornata alla mente quella cosa così lo fece sentire strano. Aveva passato anni con Jonathan, ma pian piano era come se il volto dell’uomo stesse svanendo dai suoi ricordi. Gli succedeva, spesso, ormai, di provare ad immaginare le facce dei suoi genitori, ma tutte le volte esse non erano quelle sorridenti e felici che aveva conosciuto, bensì quelle rese scure dallo strozzamento che li aveva condotti alla morte.
Si stava scordando di loro e questo oblio dei suoi ricordi lo spaventava forse di più della morte stessa.
«Hai voglia di assaggiare?»
Katy si girò verso di lui, brandendo il cucchiaio con dell’impasto nella mano destra.
Aaron fece finta di leccarsi i baffi e strusciò le mani l’una contro l’altra, sentendo un languorino allo stomaco.
«D’accordo, mamma».
Non si rese conto di quelle parole finché non si accorse che la zia aveva sgranato gli occhi e lo guardava, stupita.
L’aveva chiamata mamma.
Ma lei non era la sua mamma. Lei era zia Katy, la sua tutrice, la sorella di Keira.
Si sentì così schifato da se stesso, che saltò giù dal tavolo e corse via, senza nemmeno lasciare che la zia lo fermasse.
Aprì la porta, correndo fuori, mentre le lacrime iniziavano a scorrere lungo il suo volto.
Come gli era venuto in mente di chiamare Katy “mamma”?
Come aveva potuto scambiare le due, malgrado la somiglianza fosse evidente?
Si odiava per quell’errore, voleva solo farsi del male. Era come se avesse tradito Keira, il suo ricordo, tutto ciò che lei era stata. Aveva come l’impressione di averla rinnegata, di essersi dimenticato di lei.
Il tempo passava, andava via veloce e portava via tutti i ricordi.
Ma al contempo, essi parevano più presenti che mai.
«Scusa» biascicò, mentre correva verso la tomba di colei che era stata sua madre.
 
 
«Scusa? Scusa!»
Aaron sbatté più volte le palpebre, risvegliandosi da quello strano stato di apatia in cui era caduto mentre pensava a sua madre e a sua zia.
La voce che lo chiamava parve fondersi con la sua dei ricordi, e ci mise un istante a capire che chi stava parlando con lui era reale e non un mero incubo dei tempi andati.
Si girò verso destra, stropicciandosi gli occhi con le mani.
Franziska Madison era accanto a lui. Per poco non gli prese un colpo. Aveva fantasticato su di lei e il fratello fino a quel momento, prima di ricordarsi di sua madre. Era come se si sentisse colpevole di un crimine non commesso, mentre la guardava.
La quattordicenne stava accanto a lui, le mani sui fianchi e la solita espressione imbronciata che lui aveva notato spesso e volentieri a scuola. Lì vicino, però, poté notare altro: i capelli, ad esempio, biondi come il grano, ma non quel biondo stopposo e giallastro che spesso notava nelle sue compagne; gli occhi, verdi, che risplendevano in quel volto dai lineamenti ancora paffuti dall’infanzia, ma che presto avrebbero assunto un’aria più adulta; lo sguardo, truce, ma al contempo triste, come se stesse nascondendo un segreto al mondo.
«Parli con me?» chiese, dandosi subito dell’idiota per quella domanda inutile e retorica. Era ovvio che parlasse con lui. I suoi occhi sembravano quasi trafiggerlo.
«No, parlo con il pezzo di ricambio che tieni in mano» replicò la giovane, inarcando un sopracciglio. «Mi passeresti quella chiave inglese?»
Con un dito indicò l’utensile, poggiato a qualche centimetro dalla mano di Aaron.
Il quattordicenne arrossì ancora una volta, senza smetterla di darsi dello stupido, mentre allungava il braccio e le sue dita si stringevano attorno all’arnese. «Ecco qua».
«Grazie».
Fredda e distaccata, quel “grazie” sembrava più un semplice rito che una parola detta col cuore. Persino il leggero incurvarsi delle sue labbra in un finto sorriso era freddo come il ghiaccio.
Aaron si rimise al lavoro, distogliendo lo sguardo dalla collega.
Ogni volta che si trattava di donne, gli andava sempre il cervello in pappa.
 
 
*
 
Per quanto potesse sembrare strano, stare in officina a lavorare le piaceva.
Nonostante la fatica, la noia che qualche volta l’assaliva, si divertiva a stare lì e montare, mettere a posto varie parti di treni e sistemare i motori. Per essere il suo primo giorno di lavoro, doveva ammettere di trovarsi bene.
Al suo fianco, c’era un ragazzo, lo stesso con cui il giorno prima si era scambiata una breve occhiata. Doveva avere la sua età, Aaron, ma in confronto a lei sembrava molto più grande, sebbene il suo viso dai tratti tanto fanciulleschi tradisse quanti anni avesse realmente.
Di tanto in tanto, Franziska gli lanciava delle occhiate, cercando di studiarlo. Era un’abitudine strana, ma quando stava accanto a qualcuno tendeva sempre ad osservarlo, come a voler capire come fosse fatto veramente.
Aveva imparato, negli anni, che i soli occhi di una persona potevano rivelare la sua vera natura, il suo Io interiore che all’esterno non si notava.
E gli occhi di Aaron – lo aveva visto durante il loro breve scambio di battute – lasciavano trasparire una tristezza quasi rassegnata, accompagnata però ad una rabbia strana, per un ragazzo dall’aria così tranquilla.
Erano marroni, le sue iridi. Due pezzi di cioccolato, che spiccavano su un volto piccolo e da bambino, coperto da lentiggini. Solo il piercing che aveva al labbro lo faceva sembrare leggermente più grande, così come la sua altezza.
Carino.
Si stupì, pensando quel semplice aggettivo.
Distolse lo sguardo dalla figura di Aaron, tornando a concentrarsi sul motore al quale stava lavorando.
Era la prima volta che si trovava a descrivere così un maschio. Fino a quel momento, l’unico che aveva definito carino era stato Igor, ma era suo fratello e non contava. Gli altri ragazzi erano solo un branco di pecore che vedeva a scuola, molti dei quali gente con cui aveva intrattenuto qualche rissa insieme al suo gemello.
Ma era così che avrebbe definito Aaron: carino. Non solo per il suo aspetto fisico piuttosto piacevole, ma anche per il modo in cui l’aveva guardata, come se vedesse una ragazza per la prima volta, per il modo in cui era arrossito dopo che lei gli aveva risposto in modo brusco.
Un gemito soffocato – che riuscì ad udire, sebbene i rumori dell’officina tendessero a non far sentire nulla – la costrinse a voltarsi verso destra.
Aaron era indietreggiato, tenendosi una mano e guardandola con aria spaventata. Franziska riuscì a notare una goccia di sangue che cadeva a terra, accompagnata da un mormorio indistinto che continuava a fuoriuscire dalle labbra del ragazzo. Non riuscì a capire ogni parola, ma le sembravano delle imprecazioni ripetute una dietro l’altra.
«Dire parolacce non ti farà passare il dolore» esordì, girandosi del tutto e mettendo le mani sui fianchi, incurante di averle sporche di grasso fino alle unghie. «Anche se alcuni sostengono il contrario».
Aaron le lanciò un’occhiata stranita, la bocca contorta in un’espressione di dolore. «L’ho sentito anche io» disse, arrossendo fino alla punta dei capelli, e Franziska non poté trattenere un sorrisetto intenerito.
«Fammi vedere il taglio».
Non sapeva da dove veniva quello slancio di bontà, ma improvvisamente si era sentita piena di gentilezza come mai era stata in vita sua; complice, forse, il fatto che fosse felice di aver trovato un lavoro.
Aaron tese la mano verso di lei, con cautela, guardandola di sottecchi quasi temesse che lei lo sbranasse da un momento all’altro.
La quattordicenne osservò il taglio che spiccava sul palmo abbastanza abbronzato del ragazzo – una carnagione strana, per quel Distretto, si ritrovò a pensare. Non sembrava molto profondo, ma Aaron aveva la mani sporche di olio e grasso, e continuando a lavorare con la mano praticamente aperta avrebbe potuto portare ad un’infezione.
«Vieni con me» ordinò, facendogli cenno di seguirlo negli spogliatoi. Decisa, camminò per i corridoi dell’officina, affollati di operai, ignorando le occhiate stranite che qualcuno le lanciava.
Non hanno mai visto una ragazza lavorare qua?
La infastidiva non poco quel comportamento nei suoi confronti. Non era la prima volta che qualcuno la guardava così, come se fosse un alieno capitato nel posto sbagliato. Si era trattenuta varie volte dallo sbottare e urlare contro chi la fissava che anche lei aveva tutto il diritto di stare lì.
Ignorando chiunque, andò dritta nello spogliatoio femminile, che aveva il pregio di essere quasi completamente libero, considerata la poca affluenza di donne, là dentro. In effetti, dei ganci dove potevano appendere i loro vestiti, solo quattro o cinque erano occupati, e gli zaini posati sulle panchine non superavano quel numero.
«Dobbiamo proprio stare nello spogliatoio delle femmine?»
Aaron si bloccò sulla porta, voltando il capo da una parte all’altra con aria guardinga. Entrando, le sue guance si erano tinte ancora di più di rosso.
«Certo che sì. Ho qui tutta la mia roba» rispose la giovane, dirigendosi verso il suo zainetto. Aaron la seguì all’interno, deglutendo, mentre i suoi occhi saettavano da una parte all’altra della stanza.
Franziska aprì la sacca, tirando fuori tutto il necessario.
Prima che andassero a lavorare, la nonna aveva riempito lei e Igor di tutto il necessario per curarsi in caso di ferita: garze, disinfettante, cerotti. Mancavano solo le pastiglie, l’ago e il filo per cucire le ferite più profonde e sarebbe stato come portare in giro una farmacia.
Si era resa conto, quel giorno, che le era mancata quella sensazione di familiarità e amore che aveva provato anni prima con sua madre, quando baciava lei e Igor prima di mandarli a scuola, oppure li curava dopo che si erano sbucciati le ginocchia giocando a pallone.
Scosse la testa, appoggiando la bottiglietta di disinfettante sulla panchina. Si accorse solo in quel momento di avere le mani sporchissime, tanto che ormai il rosa pallido della sua pelle non si notava nemmeno più.
«Mi lavo le mani e ti curo. Siediti, intanto» ordinò al ragazzo, dirigendosi verso il misero lavandino posto accanto ad una parete. Si lavò le mani con cura, premurandosi di levare ogni traccia di sporco, onde evitare di combinare dei guai mentre curava Aaron. Dopodiché, tornò allo zaino e prese un asciugamano, pulendosi le mani bagnate.
Tornò di nuovo al lavandino, infine, e mise il panno sotto l’acqua. Lo avrebbe usato per pulire le mani di Aaron, sporche quasi quanto le sue.  
In tutto quel tempo, il quattordicenne non aveva proferito parola, ma si era limitato a stare seduto, osservando ogni minimo movimento della coetanea, facendola innervosire non poco.
«Eccomi qua».
Franziska si accucciò accanto ad Aaron, prendendogli la mano ferita e iniziando a tamponarla delicatamente.
 
«Mi sono sbucciata il ginocchio!»
Franziska indicò la sua gamba con un dito, gli occhi lucidi di lacrime e il dolore che non la lasciava in pace. Era come se qualcuno le avesse staccato le pelle a forza, nonostante si fosse solo fatta un taglio mentre giocava a calcio con Igor e i figli di Carine.
«Adesso lo curiamo, così poi la gamba ti torna come nuova». Grace si abbassò fino a guardarla negli occhi, sorridendole e dandole un buffetto sulla guancia. La bambina si costrinse a ricambiare quel sorriso, che svanì subito non appena sua madre si alzò con una smorfia di dolore.
«Ti sei fatta male anche tu, mami?» chiese, lasciando che Grace la issasse sul tavolo per guardare meglio la ferita.
Non le erano sfuggiti, il giorno prima, i gemiti provenienti dalla camera dei suoi genitori, e le parole quasi urlate di suo padre. Pensava che fosse solo un brutto sogno, ma lì, con la mamma che faceva delle smorfie addolorate, capì che forse non si era immaginata tutto. Si rabbuiò, mentre Grace andava a prendere delle garze in bagno, negando ogni sintomo di dolore.
Aspettò tranquilla, dondolando le gambe nel vuoto, e lanciando delle occhiatine a Igor, che, nel frattempo, ne aveva approfittato e si stava preparando un panino con la marmellata per merenda.
Avrebbe voluto dirglielo, raccontargli che la sera prima, mentre lui dormiva, lei aveva sentito il papà che faceva male alla mamma, ma non poté, interrotta dall’entrata nella cucina di Grace.
«Vediamo di mettere a posto il tuo ginocchio, okay?»
Sorrise, sua madre, un sorriso sincero senza ombra di dolore, e Franziska ebbe voglia di urlare, di dire a suo padre che era cattivo, perché le toglieva il sorriso. La bambina adorava vedere sua madre felice, perché ogni volta che lo era diventava contenta anche lei, e anche Igor, e giocavano tutti insieme come una famiglia.
Un mugolio di dolore proruppe dalle labbra di Franziska, mentre sua madre appoggiava un batuffolo bagnato di disinfettante sul suo ginocchio.
«Adesso passa, amore. Il dolore passa sempre. È come la pioggia, quando c’è non è bello, ma quando se ne va via arriva il sole».
La bambina fece un sorrisetto, rincuorata dalle parole della donna. «Igor dice che sono negata a giocare a calcio». Indicò il fratello gemello con un dito, ma un’altra fitta glielo fece abbassare subito, proprio mentre Igor le faceva la linguaccia.
«Se sei una schiappa non è colpa mia».
«Siete bravissimi tutti e due» si intromise Grace, lanciando delle occhiate di rimprovero ad entrambi i figlioletti. «Ti devi allenare, Ziska, così diventerai brava e non ti sbuccerai più le ginocchia».
«Tom ha promesso che un giorno mi insegna come giocare bene» raccontò, lasciando che sua madre applicasse un cerotto sulla ferita. «Così divento brava come lui! Un giorno portiamo anche te, mamma».
La donna ridacchiò, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Prese Franziska in braccio, poggiandola a terra.
«Magari un giorno vengo, sì».
«E poi se ti fai male ti curo io! Posso metterti il cerotto dove ti fa male, adesso?»
Non le sfuggì l’ombra di tristezza che attraversò gli occhi della donna, mentre le faceva quella domanda innocente.
E ancora una volta, Franziska sentì un moto di rabbia nei confronti di suo padre.
 
«Grazie, comunque». Il sussurro di Aaron la riportò alla realtà; si era estraniata solo un istante, mentre l’onda di quel ricordo la trascinava via con sé, riportando a galla anche tutta la sua rabbia e la sua angoscia.
È morto. Ha avuto ciò che si meritava.
«Di niente» replicò, costringendosi ad apparire quantomeno gentile e allegra. Non voleva che Aaron leggesse nei suoi occhi tutta l’ira che la pervadeva ogni volta che pensava a suo padre e al modo in cui aveva messo le mani addosso a sua madre. Quel ragazzo la metteva a disagio, perché aveva tutta l’aria di essere uno che capiva le persone, anche con un semplice sguardo.
«Non… non mi hai ancora detto il tuo nome» balbettò lui, sorridendo con aria sbarazzina.
«Nemmeno tu mi hai detto il tuo». Franziska inarcò un sopracciglio, divertita. Aveva sentito varie voci su quel ragazzo, ma parevano tutte smentite dinnanzi a quella timidezza e impaccio che emergevano dalle sue parole.
«Già… che stupido» si grattò la nuca con aria imbarazzata, arrossendo ancora una volta. «Mi chiamo Aaron. Kidman. Aaron Kidman. E tu sei Franziska, o sbaglio?»
«In persona. Come conosci il mio nome?» domandò la quattordicenne con disinteresse, lasciando cadere a terra l’asciugamano ormai sporco, al contrario della mano di Aaron che pareva come nuova – a parte, ovviamente, per quel taglio che le dava un’aria macabra.
«Non passi inosservata». Il giovane le rivolse un sorrisetto, passandosi la mano sana tra i capelli castani. «Ogni tanto ti vedo mentre picchi della gente».
«Però. Ho una bella fama, in giro» commentò la ragazza. Prese la bottiglietta di disinfettante e strappò un batuffolo di cotone, per poi girare la prima e far cadere il liquido nel secondo.
«Perlomeno la gente ti teme. Sei sicura che non ti danno fastidio».
Franziska sospirò, picchiettando le dita di Aaron per fargli allargare la mano. «Non penso che tutti abbiano imparato la lezione, visto che ieri una tua compagna mi ha rotto le scatole e l’ho appesa al muro».
«Chi?»
«Trine, o come cazzo si chiama, non lo so». Parlare delle ragazze che aveva picchiato la metteva a disagio, perché lì per lì non si rendeva mai conto di ciò che faceva, ma la sera l’assalivano i sensi di colpa; che, puntualmente, lei cacciava via pensando che se lo fossero meritato.
Senza perdere ulteriore tempo, appoggiò il cotone sul taglio, strappando un gemito di dolore ad Aaron.
«Su su, non è niente, non piangere» commentò sarcastica, abbozzando un sorrisino. I suoi occhi incontrarono quelli di Aaron, che le rivolse uno sguardo imbronciato.
«Io non piang-». La sua frase fu interrotta da un secondo mugolio, che suscitò l’ilarità della ragazza.
«Ma ti lamenti come una femminuccia». Tolse il batuffolo dalla mano, per poi strapparne un altro e ripetere le stesse azioni di poco prima.
«Non è molto piacevole avere del disinfettante su una ferita aperta. È tremendo!» Le labbra di Aaron si stirarono in una smorfia buffa, che strappò una risata a Franziska.
«Voi uomini siete bravissimi, quando si tratta di lamentarvi dal dolore. Sembra sempre che stiate per morire» commentò, mentre il bianco del cotone si tingeva di rosso.
«Non è vero!»
«Sì che è vero. Anche i miei fratelli fanno sempre così, è come avere una casa piena di bambini». Diede l’ultimo tocco alla ferita, gettando il batuffolo sulla panchetta e allungandosi per prendere il cerotto. Strappò la carta che lo ricopriva, estraendo una striscia color carne.
«Ecco perché sei così brava a curare le ferite. Hai esperienza».
La ragazza aggrottò la fronte. «Non ci vuole molta esperienza, per disinfettare e mettere il cerotto su una ferita. Sono azioni che chiunque dovrebbe essere in grado di fare» puntualizzò, applicando il cerotto sul taglio, cercando di essere il più delicata possibile per non strappare altri lamenti a quel povero ragazzo che aveva già torturato.
«Ecco fatto. Dovrebbe essere a posto» annunciò, alzandosi in piedi. Aaron la imitò, guardandosi il palmo come se Franziska avesse compiuto un miracolo sulla sua mano, sostituendogliela con una nuova.
Osservò il volto tanto fanciullesco quanto indecifrabile, lei, mentre il ragazzo era intento a guardare la mano con fare ossessivo.
Nel complesso, non si poteva dire nulla, se non che era grazioso e dai lineamenti ancora infantili, come se un bambino fosse rimasto rinchiuso in quel corpo alto e secco. I suoi occhi erano come cioccolato – quello che Franziska tanto amava e che cercava sempre di regalare a Deryck, per strappargli un sorriso; quello stesso alimento che, aveva sentito, era capace di far cambiare l’umore di una persona con un semplice morso.
Occhi che potrebbero rendere felice una persona solo guardandola.
Arrossì leggermente e distolse lo sguardo, imbarazzata da quei pensieri che mai prima di allora la sua mente aveva formulato.
Eppure, mentre i suoi occhi si erano posati sulla figura di Aaron, le era tornata in mente quella cosa che tanto spesso sua madre le diceva ogni volta che era imbronciata.
 
«Perché mi hai portato del cioccolato, mamma?»
«Perché eri triste. Ti fa tornare il sorriso, questo, lo sai?»
 
Abbassò le palpebre, in preda a quei ricordi troppo dolorosi, troppo belli. Troppo.
Gli occhi di quel ragazzo con il loro colore apparentemente banale le avevano riportato alla mente cose che era meglio dimenticare, dettagli che lei aveva preferito sotterrare sotto una catasta di altri dettagli più lievi, che non le davano l’impressione di ricevere una coltellata in pieno petto.
Eppure, gli occhi di Aaron, malgrado fossero come cioccolato, non erano felici. Erano come un muro, invalicabile, alto, massiccio.
Un muro di cioccolato.
Le era capitato di leggere che chi rideva tanto aveva le rughe di espressione.
Aaron non le aveva.
E nemmeno lei, a pensarci bene. Sfidava chiunque a ridere spesso in quel posto così cupo che faceva venir voglia di piangere e basta.
«Io… vado» disse Aaron ad un tratto, indugiando sulla fine della frase come se pronunciarla gli costasse una fatica immensa. Franziska alzò gli occhi da terra, piantandoli in quelli del giovane.
«Sì. Anche io» mormorò, facendo un passo per dirigersi verso la porta, ma la voce del coetaneo che la chiamava la fece fermare.
«Grazie. Sei… sei stata… davvero dolce» concluse Aaron con un’alzata di spalle, rivolgendole un sorriso sghembo con un tocco di timidezza che lo faceva apparire come un cucciolo da coccolare.
«Di niente. Alla prossima, Aaron Kidman».
Non riuscì al trattenersi dal sorridere, mentre varcava la porta e tornava al lavoro. 


 

Alaska's corner

Buongiorno e buona Pasqua!

Aggiorno dopo una settimana, con un capitolo... che non mi convince per niente. Non lo so, non mi piace molto come l'ho scritto, ma ormai la frittata è fatta.
Finalmente c'è il primo incontro tra i nostri protagonisti! Come vedete, hanno due caratteri molto diversi :'D 
È un capitolo con diversi flashback, ma volevo dare spazio un po' anche al loro passato, sebbene non sia emerso ancora tutto. Come avrete visto, sì, la mamma di Franziska e Igor subiva violenza domestica; i genitori di Aaron sono morti soffocati, anche se non vi ho ancora rivelato il perché :D 
Tutto a tempo debito, insomma.
La citazione iniziale non potevo non metterla, visto che si parla di cioccolato e buon umore :P E poi, io sono dell'opinione che i maschi con i capelli e gli occhi castani siano sottovalutati e Aaron è d'accordo u.u 
Spero che le descrizioni di entrambi visti dai due punti di vista non vi siano sembrate artificiose o troppo... troppo. Vi ricordo che la bellezza è molto soggettiva; Franziska di per sé non ha un fisico da modella, ma per Aaron è piuttosto carina, idem per lei, che trova Aaron molto dolce, nonostante non abbia un fisico muscoloso e sia goffissimo. xD 
Ringrazio ancora chi ha letto - spero davvero di ricevere qualche recensione in più perché per me sono importantissime per migliorarmi! 
Alla prossima,
Alaska. ~ 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Alaska__