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Autore: Shetani Bonaparte    06/04/2015    2 recensioni
Da brava amante delle creepypasta, ho deciso di inventarne alcune con personaggi miei.
Inizio a pubblicarle ora, per augurarvi un buon Natale!
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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NOTA DELL’AUTRICE:
La precedente Creepy Tale non era ben chiara ad alcuni di voi.
Ecco una spiegazione: quando la bimba dice che suo padre sente degli strani rumori nella sua cameretta, è perché suo padre sentiva il clown (che la perseguitava negli incubi) aveva preso il suo posto.
Se volete, vi linko la storia pubblicata sulla mia pagina Facebook, così potete vedere il famoso disegno: https://www.facebook.com/889359094466601/photos/pb.889359094466601.-2207520000.1428346235./936337856435391/?type=3&theater
 Un bacione,
Shetani
 
 
A STRANGE LOVE STORY
 
Io e Silvia ci conosciamo da quando eravamo bambini.
Sapete come sono alcune amicizie infantili: basate sull’utile. Infatti, le nostre mamme si conoscevano e alle volte ci facevano giocare assieme, ma poi, se ci trovavamo da soli, non ci salutavamo nemmeno.
Che volete farci, prima di essere veramente amici avevamo solo quattro anni…
Un giorno mia madre, piangendo, mi disse che Silvia e la sua mamma avevano avuto un terribile incidente e, per un po’, non la rividi. Mamma ripeteva in continuazione che ero il solo bambino con il quale Silvia aveva mai giocato, perché gli altri avevano paura di lei, dicevano che era strana, eppure a me non era mai sembrata tale.
I bambini sanno essere crudeli.
Iniziai ad esserle amico durante un funerale.
Non ricordo bene di chi fosse – probabilmente della mamma di Silvia, perché lei piangeva e abbracciava la bara – e non ero molto interessato.
Andai da Silvia e ci mettemmo a giocare in un luogo abbastanza lontano dalla cerimonia funebre. Ricordo ancora quanto ci divertimmo a rincorrere le bianche farfalle tra le lapidi vecchie dei bambini morti di peste o durante le guerre. Lo so, suona macabro, ma ero piccolo, e pensavo solo a divertirmi.
Passarono svariati anni e in quel lasso di tempo, specialmente durante i week-end, invitavo Silvia a giocare da me, e spesso a dormire. Ricordo che, durante la notte, la stringevo a me perché la sentivo tremare, ed era sempre fredda, ma quando l’abbracciavo stava meglio.
“Silvia” le dicevo, qualche volta, “perché non vengo mai a casa tua?”
“Perché la mia mamma non vuole. Pensa che la nostra casa non possa piacerti e che mi troveresti strana” mi diceva. Allora rimanevo perplesso, sapendo che sua madre era morta, allora la logica mi suggeriva che si riferisse alla donna che suo padre aveva sposato un mese dopo il funerale grazie al quale ci eravamo conosciuti.
Quando compii dieci anni, Silvia non volle venire al mio compleanno perché i miei amici la maltrattavano.
Ora vi spiego: la ignoravano, le passavano accanto fregandosene se la colpivano e cose così.
Allora invitai solo lei: era la mia più grande amica, era come una sorella e sapevo che si relazionava solo con me, forse perché ero l’unico a non spingerla, stando attento che non sforzasse troppo la sua gamba destra che, quando camminava, scricchiolava e, alle volte, assumeva delle angolazioni preoccupanti – colpa dell’incidente.
“La mia mamma ti ringrazia” mi disse quel giorno. “Guardala, ti sta salutando!”
Guardai fuori dalla finestra e lei era lì, sorridente, coi capelli castani un po’ arruffati e gli occhi verdi fissi su di me. Ricordo anche che trovai il suo sorriso e il suo sguardo estremamente tristi. E il suo viso particolarmente famigliare.
Negli anni seguenti, iniziarono a starmi antipatici quasi tutti i miei amici, così stavo in compagnia di Silvia. Mia madre era preoccupata da anni, ormai, non voleva che le parlassi di Silvia. “Non va bene avere solo lei come amica” mi diceva, “devi stare con altra gente”
La ignoravo, e tornavo dalla mia amica.
Alle volte succedeva qualcosa di strano, però: mia madre mi faceva parlare per svariati pomeriggi con una sua cara amica, che mi diceva che mi stavo comportano male, che dovevo lasciar perdere la mia amica. Ma non capivo perché essere amico di Silvia e aver abbandonato dei ragazzacci stupidi fosse considerato un peccato.
Dopo quei pomeriggi, Silvia mi raggiungeva nella mia cameretta, entrando in casa senza nemmeno chiedere perché aveva il mio permesso e le bastava – e io partivo già a sorridere sentendo i suoi passi lenti e strascicati a causa della gamba destra su per le scale –, e mi abbracciava.
Una volta stava piangendo. “Quella donna e tua madre non vogliono che siamo amici perché dicono che è troppo strano. Secondo te sono strana?” mi chiese. Io la abbracciai forte forte, e le risposi che no, non era strana, non era affatto strana, le dissi che era bella come una principessa.
E lo era davvero, per me – e lo è ancora.
A quindici anni mia madre mi prese da parte, senza accorgersi che Silvia stava origliando, mi disse, per l’ennesima volta, che Silvia non poteva più essere mia amica. E lei, la mia più cara amica, iniziò a piangere, ferita da quelle taglienti parole.
Pioveva. Pioveva come se il cielo piangesse per lei.
La rincorsi in giardino e la trovai a terra, con la gamba destra maledettamente piegata in tre, come se fosse disossata.
La feci alzare da terra, stringendo tra le dita il suo abito da principessa, lo stesso abito che portava sempre da quando diventammo amici, a quel funerale, eppure sempre fresco e profumato, che pareva crescere con lei, un abito così bello che, oh, la faceva davvero sembrare una principessa: bianco, semplice, lungo fino alle ginocchia, con qualche piccolo glitter argentato qua e là, una rosa bianca in petto, con quelle calze lunghe e bianche a coprirle le gambe e quelle nere ballerine piedi…
Sorreggendola per l’esile vita, la guardai in viso. Le tiepide gocce di pioggia si perdevano nei suoi boccoli castani, scivolavano sulla sua pallida pelle e si mescolavano alle sue lacrime. Anche ora, nel pieno sconforto, era così bella. Era sempre così bella, con quei suoi atteggiamenti un po’ infantili e puri.
“Non ascoltarla”
“Sono strana”
“No”, controbattei, “sei la mia principessa”
E baciai quelle sue morbide labbra per la prima e non ultima volta, sentendo una scarica elettrica scorrermi nelle vene, intenerendomi al suo pudore e alla sua dolcezza, la sua reazione a quel semplice bacio a stampo che, lo giuro, fu l’esperienza migliore della mia vita.
Lei nascose il viso nell’incavo del mio collo e io le carezzai la schiena esile, dicendole che era la principessa più bella del mondo.
La presi in braccio come m’ero abituato a fare negli ultimi tempi, dato che la sua gamba destra dava sempre più problemi – problemi, comunque, meno fastidiosi dei pettegolezzi della gente – e la portai in camera mia, la avvolsi in una coperta e così, fradici ma felici, ci appoggiammo al termosifone, seduti a terra, un po’ imbarazzati, estremamente confusi a causa delle endorfine rilasciate dai nostri cervelli e ancora presenti nei nostri organismi.
Avvolti in quella nuvola di torpore, ci addormentammo, tenendoci per mano.
Mi svegliai qualche ora dopo, il sole illuminava con gli ultimi morenti raggi il cielo sempre più scuro. Silvia non era più lì, anche se, per un attimo, m’era sembrato di sentire il dolce peso della sua testa sul mio petto.
Non ci feci molto caso, pensai che fosse solo una sensazione dovuto al lieve torpore del sonno.
Quando andai in cucina sentii mia madre parlare con qualcuno, forse la tizia con cui mi faceva parlare, dato che erano sempre in contatto.
“…funerale. No, no, era solo un bambino, non può ricordarsene, insomma, quando vide il cadavere di Silvia, con quella sua gamba contorta e spezzata, dopo l’incidente, e quello di sua madre, quando la fissava negli occhi verdi… aveva solo quattro anni. Eppure… sì, prima delirava… diceva di averla baciata. Penso che sia ora di curarlo veramente…”
S’interruppe appena mi vide e con un breve saluto terminò la comunicazione.
Mi stavo annoiando da morire, quando vibrò il cellulare: una notifica di Clash of Clans – elettronico appiglio nell’oceano della monotonia e dell’apatia nel quale affogavo, senza Silvia.
Quando ero senza di lei, secondo l’amica di mamma, ero in ‘fase depressiva’, non sapevo cosa volesse dire, però so che spesso mi chiudevo in camera mia, senza aver voglia di mangiare o far altro. Quando però lei era con me, i miei pensieri si accavallavano l’uno con l’altro, spesso combinavo qualche ‘epic fail’, perché l’amavo da così tanto tempo, e volevo sempre fare un figurone, apparendo invece un po’ più che goffo, mi sentivo potente, il re del mondo, mi credevo invincibile.
Eh, gli effetti dell’infatuazione…
Però da quel giorno son passati due anni e… e dopo un po’ non la vidi più.
Quel giorno accettai di sottopormi alla cura farmacologica di cui l’amica di mamma e mia madre dicevano che necessitassi.
E Silvia cominciò a venirmi a trovare sempre meno, alle volte mi pareva di vederla accanto a me, di sentire i gradini scricchiolare sotto il suo lieve peso e il lieve e sinistro scricchiolare della sua gamba, ma quando provavo a guardarla o toccarla… svaniva. Ero disperato, mi sembrava – e mi sembra – che i medicinali strappassero una buona parte di me, che martoriassero il mio cuore e la mia anima. Poi, col tempo, non la vidi più.
Stavo guarendo la mia mente, ma a quale prezzo?
Se ne è andata, come fece Ted, il mio coniglio parlante.
Se ne è andata, però alle volte sento la sua voce, il suo profumo, mi sembra di riaverla lì, con me, con quel suo carattere così simile al mio.
Penso che smetterò di prendere le medicine che mi dà l’amica di mia madre, così forse la mia amata tornerà. E forse anche Ted, ma di lui poco m’importa.
Dio, quanto la amo.
Voglio che a farmi sentire bene e invincibile sia lei, non Billy, il mio nuovo amico ippogrifo.
No, non hai letto male, è tutto vero.
È la strana storia d’amore di uno schizofrenico.
Una strana storia d’amore.
Quanto mi manca, la mia bellissima principessa…
  
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